LEMON BOWL HIT PARADE

Di seguito una breve carrellata sui giovani giocatori che più mi hanno colpito in questa 28esima edizione del Lemon Bowl, con l’avviso che ho potuto seguire solo pochi incontri e che quindi molti ragazzi, meritevoli di di citazione, ci sono sicuramente sfuggiti. Me ne scuo in anticipo.

10. Ena Kajevic. Potente croata vincitrice dell’under 16, da qualche tempo seguita dall’ex Davis Man Stefano Pescosolido nell’Accademia di Max Giusti, presso il Circolo Villa Pamphili. Fondamentali potenti e puliti, buona mano, un filo macchinosa negli spostamenti. Pare che possa prendere la cittadinanza italiana. Sarebbe un eccellente acquisto.

9. Riccardo Perin. Napoletano, vincitore dell’under 12, dopo che due anni fa si era aggiudicato anche l’under 10. Tennista tutto sostanza, non molto appariscente, non è uno di quelli che ti fermi a guardare a bocca aperta se passi vicino al suo campo. Però conosce benissimo la misteriosa arte di vincere i match. E se migliora il diritto, può davvero fare strada.

8. Giulia Peoni. Toscanina di Massa, vincitrice dell’under 12. Intelligente mancina dal gioco geometrico e regolare, con un diritto arrotato e pesante e un rovescio bimane piatto e penetrante. La sua specialità sono gli angoli stretti: se le dai il tempo di organizzare le sue trame, ti fa fare i chilometri.

7. Francesco Bessire. Romano, allenato dal Tecnico Izzo presso l’Accademia Tennis di Agnano. Vincitore del’under 18. Lo vedi, e pensi: oh, eccone uno con il fisico da tennista vero. Alto, longilineo, potente e veloce. Un servizio bellissimo, un diritto pesante, buone trame di gioco, insospettabilmente bravo anche in difesa, nonostante la statura. E una classifica nazionale (2.8) che in nessun modo ne riflette il valore. Seguitelo, perché potrebbe essere la sorpresa italiana della stagione fra gli under 18.

6. Lisa Piccinetti da Piancastagnaio (Lucca), semifinalista nell’under 12. Tecnica, velocità e potenza. Ha dato vita ad un furibondo, sentitissimo derby toscano con la massese Peoni, secondo molti una finale anticipata. Gran trasferimento di peso sulla palla, splendida fluidità di esecuzione. Quando va in forcing, con entrambi i fondamentali, sembra una tennista dell’est.

5. Riccardo Balzerani da Rieti, vincitore dell’under 14. Piedi veloci, reattività , timing perfetto, rovescio bimane naturale, telecomandato. Sui campi sintetici dell’Eschilo 2, dove si giocava l’under 14, in omaggio al Progetto Campi Veloci della FIT, questo piccolo Davydenko del Terminillo grazie al suo inesorabile anticipo e al suo pressing forsennato ha lasciato le briciole agli avversari. Mettendo qualche chilo, e aggiungendo qualche segmento di spinta in più sul servizio, potrà giocarsela con tutti, nei Tennis Europe di categoria sul veloce.

4. Lorenzo Musetti da La Spezia, vincitore dell’under 10. Di tutti i 1936 iscritti al torneo, è senza dubbio quello che ha giocato il maggior numero di rovesci in back. Giocatore classico, tecnica cristallina, rovescio magnifico ad una mano (esiste ancora qualcuno che lo insegna, per fortuna). Molto bella la sua vittoria in semifinale contro Flavio Cobolli, talentuoso figlio dell’ex pro Stefano.

3. Marco Furlanetto da Massa, quartofinalista nell’under 12. Unico 2001 in gara, ha destato un’eccellente impressione per completezza tecnica, grinta e innate qualità tattiche. Un autentico computerino con la racchetta, che sceglie sempre la palla giusta, la soluzione giusta, la traiettoria giusta, in tutte le circostanze. E uno spirito guerriero indomito, che se ben canalizzato potrà portarlo lontano.

2. Elisabetta Cocciaretto, da Porto San Giorgio, semifinalista nell’under 12, dopo che lo scorso anno aveva dominato l’under 10. I piedi più veloci del torneo, appoggi perfetti, braccio rapidissimo, mente sveglia e una velocità di palla che ad undici anni si vede raramente. Ha gareggiato alla pari con ragazze di un anno più grandi, e sul piano del gioco nessuna è riuscita a metterla sotto.

1. Gian Marco Moroni, da Roma, vincitore dell’under 16 senza avere ancora compiuto 14 anni. Capelli lisci, a caschetto, al Parioli lo chiamano “Jimbo”, data la vaga somiglianza con il grande Connors. Ma lui è destro, è grande e grosso, e quando ha i piedi fermi fa i buchi per terra sia con il diritto che con il rovescio, aiutato da un fisico già massiccio, da torello. Se lavorerà bene sul piano atletico, su rapidità e reattività , questo giovane picchiatore può far impazzire tutta Roma, e non solo.

Infine, qualche considerazione sul senso di queste competizioni giovanili. I risultati, a queste età , vanno presi con le molle. L’attività agonistica è solo uno dei mezzi per crescere e migliorarsi, e deve servire soprattutto per verificare la qualità del lavoro svolto. La vittoria non deve mai diventare il fine a tutti costi, l’obiettivo di breve respiro a cui sacrificare il lavoro da fare in prospettiva.
Le storie dei ragazzi che hanno avuto successo dimostrano che si, da bimbi è importante stare fra i migliori, ma più importante è il lavoro che viene svolto, giorno dopo giorno, per aggiungere, pezzo dopo pezzo, con certosina e faticosa pazienza, quel qualcosa in più al bagaglio tecnico, tattico, fisico e mentale dei giovani. Per poterli portare, un giorno, a vincere quando conterà davvero: nel circuito professionistico.

A tutti questi ragazzi, e ai loro staff, un sentito buon lavoro e un grande in bocca al lupo.

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SIMONE, TU ADESSO SEI UN ALTRO

Ma tu adesso sei un altro. Ed eccoti là. Ancora una volta. Sei avanti 2 set a zero, tie break del terzo, 54 e servizio. Ancora una volta, a due punti dal match. A due piccoli punti dal grande exploit, dalla grande affermazione, dalla vittoria contro u…

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SIMONE, TU ADESSO SEI UN ALTRO

Ma tu adesso sei un altro. Ed eccoti là. Ancora una volta. Sei avanti 2 set a zero, tie break del terzo, 54 e servizio. Ancora una volta, a due punti dal match. A due piccoli punti dal grande exploit, dalla grande affermazione, dalla vittoria contro un grande giocatore. Quella vittoria che tante volte, in passato, ti era sfuggita di un soffio, ti era scivolata tra le dita, per indecisione, sfortuna, recupero pazzesco dell’avversario, limiti di reattività, e forse anche di personalità. Davidenko a Miami. Roddick a Roma. Djokovic a Cincinnnati. Llodra a Parigi. Blake a Bercy. Gasquet a Dubai. Verdasco a Roma. E tante altre.
Quante partite, quanti pensieri negativi, quanti brutti ricordi, quanti fantasmi Simone, tutti racchiusi in un piccolo istante? Ma tu adesso sei un altro. Hai percorso tutte le stazioni della via crucis, hai costeggiato il precipizio, lambito le fiamme dell’inferno. Ma non sei stato crocifisso, non sei caduto nel dirupo, non ti sei dannato per l’eternità,dissipando il tuo talento. Tu adesso sei un altro.
Là, a due punti dal match. Hai fatto un bel respiro profondo, hai alzato la testa, e cercato la prima vincente. Fuori di poco. Sospiro. Seconda in kick da sinistra, sul maledetto, sontuoso rovescio dell’odioso svizzero.
La risposta è una rasoiata in cross, a cercare il tuo angolo sinistro, da sempre il più vulnerabile. Ma tu adesso sei un altro. I piedi sono diventati più veloci, e riesci lo stesso a girare intorno alla palla. Trovi in un attimo la coordinazione, e spari un magnifico lungolinea di diritto, di quelli che i tecnici chiamano inside-in. Vuoi essere tu a spingere, tenere tu il pallino. Lo svizzero maledetto sprinta, arriva in corsa sul suo diritto, e gioca un cross profondo, difensivo. Ecco, anche questa ha preso. Ma tu adesso sei un altro. Cerchi bene la palla con i piedi, vai giù con le ginocchia, e gli tiri un tracciante lungolinea. Ma tanto quello, trincerato laggiù, fra i teloni, prenderà anche questa, e ti toccherà tentare un’altra accelerazione, prendere un altro rischio, con la tensione che sale a mille. Ma tu adesso sei un altro. E dietro quel magnifico diritto lungolinea, ecco che finalmente ti scatta dentro qualcosa, ecco che finalmente fai la cosa giusta, finalmente applichi lo schema tante volte provato in allenamento, con l’operoso Renzo, e mai rischiato in partita. Fai tre passi avanti e segui a rete, se Dio vuole coi tempi giusti, e chiudi l’angolo alla tua destra. Lo svizzero maledetto arriva come può, vede con terrore che stavolta sei venuto avanti, e tenta un passante di rovescio impossibile, un lungolinea disperato. E’ il suo colpo migliore, ma nemmeno lui può fare miracoli, è a un centimetro dal telone di fondo campo. Ed ecco, magicamente la tua racchetta calamita la palla, la accarezza, la trasforma in una magnifica volèe smorzata di diritto, che illumina il campo avverso, rimasto vuoto. Che illumina il nostro entusiasmo, e ci dà nuove certezze. Manca ancora un punto. Stavolta metti la prima, è una fucilata al centro da destra, piatta e precisa come un laser. L’altro, il maledetto, con un balzo felino la tocca per miracolo e la butta di qua, e ne esce una specie di palla corta casuale e involontaria, una traiettoria insidiosa, di quelle che in genere ti fanno impazzire, di quelle che non hai mai saputo gestire. Ma tu adesso sei un altro. Arrivi sulla palla, leggero, e la accarezzi ancora, con un tocco vellutato. Ne esce un perfetto drop shot, cortissimo. Il maledetto scatta e ci arriva ancora, la tocca, incredibilmente, ma non può far altro che appoggiartela sulla racchetta. Mentre la metti di là, sereno, con il sorriso di chi già sa che stavolta non tornerà indietro, ecco che il maledetto, con un ultimo sussulto, lancia in aria la racchetta, vanamente.
E’ la sua resa. E’ la tua apoteosi. Perché tu, adesso, sei un altro. Ed oggi su quello stesso campo 18 di Church Road, dove 3 anni fa toccasti il tuo zenit, con quel gran match contro Fernando Gonzalez, inizia la tua seconda carriera. Che sia lunga e fruttuosa, Simone.

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THE ITALIAN WAY… TO THE WTA

14 giugno 2011. Un giorno come tanti, per il nostro tennis. O forse no. Una giornata trionfale, altrochè. Era iniziata con la nostra numero uno, Francesca Schiavone, numero 7 delle classifiche mondiali (è bene ripeterlo, che se no sembra una cosa norm…

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THE ITALIAN WAY… TO THE WTA

14 giugno 2011. Un giorno come tanti, per il nostro tennis. O forse no. Una giornata trionfale, altrochè. Era iniziata con la nostra numero uno, Francesca Schiavone, numero 7 delle classifiche mondiali (è bene ripeterlo, che se no sembra una cosa normale, avere una azzurra da oltre un anno fra le prime 10…) all’esordio sull’erba, nel classico evento inglese di Eastburne, reduce dalle imprese parigine, contro quel donnone di Kaia Kanepi, robustissima clavatrice estone. Francesca ha penato un po’ il primo set, giusto il tempo di abituarsi ai rimbalzi bassi. Un tie break vinto di rabbia, e via, verso un 76 61 tutto sommato agevole. Poi la scena si è¨ trasferita a Hertogenbosch, cittadina olandese dove sui prati, anziché farci pascolare le mucche o coltivarci i tulipani, gli atletici orange ci giocano a tennis, alla vecchia maniera albionica. In campo Roberta Vinci e Sara Errani, numero 3 e 4 d’Italia. Gente affidabile. Due vittorie, a favore di pronostico, ma mai scontate. Roberta fa fuori l’atletica slovena Polona Hercog, Sarita soffre anche lei per un set ma poi spazza via la wild card di casa, la piccola Kiki Bertens. E sono 3.
E’ il primo pomeriggio.Iniziano ad arrivare le cronache da Roehampton, dove è in palio un ingresso per la mitica Church Road: si giocano le qualificazioni di Wimbledon, il più immortale dei tornei. 4 azzurre impegnate: la sarda Floris, veterana all’anagrafe, ma dal tennis giovane e potente, fa secca la n. 10 del tabellone di quali, la francese Bremond. L’altra veterana, Maria Elena Camerin, piedi veloci e timing impeccabile, dispone agevolmente della promessa serba Krunic. L’ultima arrivata, la giovanissima Camila Giorgi da Macerata, classe 1991, all’esordio assoluto sull’erba, disintegra in meno di un’ora una wild card inglese. L’unica che stona è Corinna Dentoni, non al meglio fisicamente, che cede alla spagnola Cabeza Candela.
Ma ecco, l’attenzione degli appassionati, in un tam tam frenetico, torna in Olanda, sul centrale di Hertogenbosch. In campo, una ragazzona fiamminga, una di quelle parti, insomma, con un passato glorioso, qualche acciacco ma tanto orgoglio: Kim Clijsters. Dall’altra parte della rete, una ragazza italo-svizzera che ha già vissuto 3 o 4 vite: la grande promessa, quella che vince l’Orange Bowl under 14; il portiere di calcio, l’incosciente che per gioco si sfracella un ginocchio e una spalla; la lungodegente, sempre in lotta coi carboidrati e con la linea; la grande sorpresa, quella che arriva a un dito dalla semifinale al Foro Italico, a 20 anni; l’animatrice turistica a Sharm-el-Sheik, dopo che il braccio destro sembrava aver fatto crac, per sempre; e infine, negli ultimi due anni, la Lazzaro degli ITF, la Fenice dei tornei minori,per riguadagnarsi, con gran fatica un posto al sole. Tutte queste cose, e molte altre, è la magnifica Romina Oprandi, che oggi pomeriggio ha letteralmente scherzato, per quasi due ore, la numero due del mondo. Smorzata e pallonetto, rasoiata in back e accelerazione di diritto, angolo stretto e attacco in contropiede. Uno spettacolo, una gioia per gli occhi.
Sono armi antiche, come vedete. In fondo, non troppo diverse da quelle che usano altre azzurre, come la Schiavone, la Vinci, la Brianti, la nuova Pennetta d’attacco di questo 2011 (prima che arrivasse l’infortunio alla spalla), o la piccola Sara Errani, che a forza di doppi con la sua amica Robertina sta finalmente imparando a liberare il suo talento, e ne ha, ve lo assicuro, dalle scorie arrotine che rischiavano di soffocarlo.
In un circuito femminile sempre più dominato dai muscoli, con scambi fatti solo da grandi botte sulle diagonali, creatività zero e noia mortale, le nostre vincono a modo loro: il back, la palla corta, il pallonetto, la volèe.
E’ una storia di successo, un marchio che ci contraddistingue. It is the Italian way… to the WTA.
Quando andiamo a costruire le nostre giovani promesse, cerchiamo di tenerlo a mente. Non mettiamoci anche noi a clonare robot sparapalle, fabbricate in serie, alla catena di montaggio. Insegnamo loro a giocare a tennis. Sarà più lungo e faticoso, ci metteranno forse più tempo ad arrivare. Ma arriveranno. E ci faranno divertire.

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FLAVIA E FRANCESCA: L’ALTALENA E LA FIACCOLA

Dubai, torneo Premier da 2 milioni di dollari di montepremi. Mentre Francesca Schiavone subisce la rivincita di una determinatissima Kuznetsova, ancora furente per la sconfitta subita nella storica maratona di Melbourne, è Flavia Pennetta a fare il botto, centrando una importantissima semifinale, che la porta al n. 8 nella classifica race della WTA.
Flavia Pennetta e Francesca Schiavone. Francesca Schiavone e Flavia Pennetta. L’una perde? No problem, vince l’altra, e il nostro tennis rosa resta sugli scudi, e continua a mietere allori come nessuno, nemmeno il più ottimista dei tifosi, fino ad un paio di anni fa, si sarebbe aspettato.
In effetti, le vicende tecniche di Francesca e Flavia ci spiegano molto bene per quali motivi il nostro tennis per 30 anni non ha ottenuto risultati di livello assoluto.
Si diceva che non avevamo “la tradizione vincente”, l’abitudine ad arrivare ai vertici. Ed era proprio così.
Certo, abbiamo avuto una serie di buoni giocatori e giocatrici, buoni professionisti. Per limitarci alle ragazze: Golarsa, Reggi, Cecchini, Ferrando, Bonsignori, Garrone, eccetera…
Poi è arrivata Silvia Farina che, insieme a suo marito Francesco, ha insegnato a tutte, in primis alle coetanee Rita Grande e Tatiana Garbin, cosa significa esattamente fare il professionista a 360 gradi nel tennis del 2000, curando ogni particolare, in modo certosino e maniacale, 365 giorni all’anno.
Francesca e Flavia le sono andate dietro, ne hanno seguito l’esempio e l’approccio al lavoro. Tutte e tre sono entrate nelle prime 20, tutte e tre fermandosi sulla soglia del Paradiso.
Perché diciamoci la verità: ad un certo punto, diciamo ad inizio 2008, sembrava che anche Flavia e Francesca avessero esplorato i loro limiti.
Francesca, dopo essere andata a un pelo dalle Prime Dieci, sembrava appagata della sua carriera: aveva pur sempre battuto un mare di top 10 e vinto una Fed Cup. Flavia, dal canto suo, pensava già a diventare la signora Moya, e pianificava una vita da moglie e da mamma, a Barcellona.
Poi, ecco che succede qualcosa. Uno di quegli eventi, apparentemente insignificanti, che cambiano la storia.
Succede che Carlos Moya incontra una certa Carolina Cerezuela, starlette della tv iberica, e perde letteralmente la testa, mollando Flavia con un sms.
La pugliese pare affondare nella depressione, ma è una tosta, e si riprende. Decide che il tennis è la sua cura, torna a darci dentro come una matta, ed ecco, nell’estate del 2009 accade una cosa che a noi pareva proibita, impossibile: cade un tabù.
Flavia Pennetta, con una esaltante serie di risultati nella caldissima estate americana, entra, prima italiana nella storia, fra le prime 10 tenniste del mondo. Non ci accadeva da 31 anni, l’ultimo essendo stato Corrado Barazzutti, nel lontanissimo 1978.
Per il nostro tennis è come passare le Colonne d’Ercole, per avventurarsi nell’ignoto, nel periglioso Mare Oceano, come le tre caravelle di Cristoforo Colombo nel 1492.
Ed ecco, arriva la grandine. Tutti i giornali e i media si accorgono del tennis, e di Flavia Pennetta, bellezza mediterranea dolce e rassicurante, che finisce su tutte le copertine, va in tv, concede interviste, diventa un personaggio.
Siamo tutti contenti.
Ma c’è qualcuno, nell’ombra, che osserva con aria torva quel che accade alla sua amica. E’ una piccola, razzente milanese dai capelli ribelli. La rabbia le cova dentro, le infonde motivazione.
Decide di fare come Rocky prima del match contro Ivan Drago.
Fa di Tirrenia la sua dacia siberiana, di Barazzutti e di Furlan i suoi Apollo Creed, si allena come una pazza, con una determinazione mostruosa, decisa a far vedere alla sua amica, e a tutti, di cosa è capace. Decisa a chiudere le sua carriera, quando sarà il momento, senza alcun tipo di rimpianto.
E succedono cose strabilianti, culminate in quel magico momento di maggio in cui, sul Philippe Chartrier, sale un tricolore sul pennone più alto, e 15.000 francesi si ritrovano ad ascoltare l’inno di Mameli dopo 34 anni.
Succede che si va al Master di fine anno, e bum! cade un altro tabù.
Nel frattempo, l’altra, la pugliese, dopo alcuni match girati storti in singolare (clamoroso quello di Parigi con la Woszniacki) si dà al doppio, e fa le cose per bene: diventa n. 1 di specialità, vince addirittura il Master, e poi l’Australian Open. Anche qua, cose mai viste, dalle nostre parti.
Ma nonostante questo, tutti, inevitabilmente, parlano di Francesca, della Leonessa indomabile, che unisce atletismo e tecnica, fantasia e grinta, volèè al bacio e passanti in corsa, smorzate millimetriche e topponi roteanti, riscattando il circuito femminile dalla noia degli armadi sparapalle.
“Ah si? E allora adesso tocca a me!”
Flavia chiama il suo coach Urpi: “Gaby, vieni qua, dobbiamo imparare a variare il gioco. Insegnami l’attacco in controtempo, voglio finire i punti a rete, non posso fare sempre 100 chilometri a partita. E insegnami a variare le traiettorie, che ormai sono maturata, ho capito che non posso fare sempre e solo a pallate con queste dannate slave 10 centimetri più alte e 15 chili più pesanti di me. Guarda, se ci riusciamo, voglio anche imparare il rovescio in back… e usare di più la smorzata, e il rotolone di diritto. Gli faccio vedere io a questi qua: se lei ha vinto uno Slam, beh, a costo di schiattare sul campo, ma ce la posso fare anch’io…”
E in un mese e mezzo la Pennetta ha già risalito undici posizioni nel ranking, superando 3 top 10.
In bocca al lupo ragazze. Chi verrà dopo di voi, seguirà le vostre orme. Perché per la prima volta, dopo tanto tempo nel nostro tennis, la strada è tracciata.
Confidiamo che tra qualche anno voi due, magari assieme a Tatiana e a Rita, sarete là, con i nostri giovani, a tracciare uno schema, a correggere un’apertura. O in giro per il mondo, sedute all’angolo del coach, seguendo quelle a cui avrete passato il testimone, per guidarle, la torcia stretta nella mano, sulle vostre stesse orme.
Perché la fiaccola, che voi avete acceso, non si spenga più sul nostro tennis, e sconfigga definitivamente le tenebre, che ci hanno avvolto per 30 anni. Onore a voi.

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GLI OSCAR DEL LEMON BOWL

Di seguito una breve carrellata su aspetti, persone e gesti tecnici che più ci hanno colpito in questo 26esimo Lemon Bowl, con l’avvertenza che abbiamo potuto seguire solo pochi incontri e quindi molti ragazzi meritevoli di citazione ci sono sicuramen…

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GLI OSCAR DEL LEMON BOWL

Di seguito una breve carrellata su aspetti, persone e gesti tecnici che più ci hanno colpito in questo 26esimo Lemon Bowl, con l’avvertenza che abbiamo potuto seguire solo pochi incontri e quindi molti ragazzi meritevoli di citazione ci sono sicuramente sfuggiti.

Il Servizio: l’Oscar per il servizio meglio costruito visto all’opera va alla mancina serba Olga Danilovic, figlia dell’ex cestista serbo Sacha, finalista nell’under 10. Un gesto fluido, armonioso, e tecnicamente impeccabile. Rarissimo per l’età.

Il Diritto del torneo: è del ligure Lorenzo Baglietto, finalista nell’under 12 maschile. Presa eastern, apertura contenuta, strepitosa accelerazione di braccio e polso, gran trasferimento di peso sulla palla. Ha macinato tutti gli avversari, fino ad infrangersi sulla solida grinta di Nicholas Merzetti, che lo ha disinnescato chiudendolo nell’angolo sinistro per tutto il match. Ma ha tutto per rifarsi.

Il rovescio (bimane) del torneo. Appartiene ad Andrea Pellegrino, pugliese di Bisceglie, finalista nell’under 14. Un adolescente timido, ma serio e determinato, che da quel lato quando impatta davanti al corpo ricorda Thomas Berdych.

Il rovescio (a una mano) del torneo. Gesto sempre più raro in questo tennis robotizzato. Ma vedere un scricciolo di 9 anni, come Matteo Ledda da Quartu Sant’Elena, eseguire un rovescio piatto ad una mano di pura perfezione estetica, nonostante il fisico fatalmente esile, fa davvero bene al cuore.

Il forcing: E’ quello, asfissiante, che sa praticare Sacha “Bum Bum” Merzetti, vincitore dell’under 14. Un metodico picchiatore, magari un pò monocorde negli schemi, ma molto continuo, dotato di buon senso geometrico e terribilmente efficace.

I piedi più rapidi: sono i piedi strepitosi di Elisabetta Cocciaretto, spavalda marchigianina di Porto San Giorgio, vincitrice dell’under 10. Una ragazzina che ha due molle d’acciaio nelle scarpe, grinta da vendere dietro il sorriso luminoso e un rovescio lungolinea fulmineo e letale come il morso di un cobra. Seguitela, ne vale la pena.

Il tocco di palla. La manina benedetta del torneo è quella di Marco Mosciatti, semifinalista nell’under 14 maschile e interprete, contro l’inesorabile Sacha Merzetti, di una partita memorabile. Le specialità di Marco sono i gesti antichi: palle corte, voleè smorzate, angoli stretti, lob millimetrici. Una festa per gli occhi.

L’esplosività. il titolo va a Martina Zerulo da Manfredonia, la città dei discendenti di Federico II. Una moretta calma e determinata che ha gli occhi grigi dei suoi antenati Svevi e che ha dominato l’under 14 femminile. Una bomba di energia pronta ad esplodere. Non lo dicono solo i test di Pino Carnovale. Basta vederla all’opera per rendersene conto. Quando serve, si alza da terra di almeno 20 centimetri, a 12 anni e mezzo.

La completezza. Il bagaglio tecnico più completo è quello di Marco Furlanetto, toscanino di Massa, vincitore dell’under 10 maschile. Servizio, diritto, rovescio e volèe. Tutto impeccabile. E un fisico agile e longilineo che fa ben sperare, davvero.

Il coraggio: è una dote che spesso si accompagna ad un pizzico di follia, e Nicholas Merzetti, campione dell’under 12, è ben provvisto di entrambi. Per avere la meglio sul bravissimo Baglietto, nei momenti più caldi di un complicato secondo set ha sparato alcuni rovesci lungolinea di sublime incoscienza.

La sorpresa: Il piccolo marchigiano Erik De Santis, in grado di arrivare ai quarti di finale dell’under 12 partendo dalle prequalificazioni. I suoi “strettini” hanno fatto impazzire tutti gli avversari e deliziato il pubblico.

La Difesa. Provate a fare un punto a Eleonora Palumbo, determinatissima mancina di Santa Marinella e semifinalista nell’under 14. Potreste perdere ben presto la pazienza, cozzando contro un piccolo muretto biondo. Una capacità di soffrire in difesa, di andare a prendere tutto, davvero d’altri tempi.

L’asso pigliatutto. Il mitico Silvano Papi, Tecnico Nazionale e maestro dei fratelli Merzetti, che prima ha parlato per quasi un’ora alla conferenza sulla programmazione dei giovani e poi ha dimostrato di non padroneggiare solo la teoria (anzi…) mettendo insieme ben due titoli.

Il Leader. Il maestro Paolo Verna, patron della manifestazione. Un autentico capo carismatico, in grado di far funzionare a meraviglia la complicatissima macchina organizzativa del torneo. Uno schiavista che sa farsi amare da chi lavora con lui. Capitano, mio Capitano.

l’Illuminato. Il maestro Alessandro Galli, dell’Eschilo 2. Il gestore di un pezzo di Florida nei pressi di Roma. Un Circolo dotato di campi veloci, di campi coperti, di una scuola di qualità, in cui si cerca davvero di coniugare le esigenze dei soci con quelle dei giovani agonisti. Solo da lì poteva partire il “Progetto Campi Veloci”. Fateci un salto, potreste scoprire che la vostra Bradenton è proprio dietro casa.

Il lampo d’orgoglio. Quello che ha attraversato, fulmineo, lo sguardo di Michelangelo dell’Edera all’ennesimo diritto vincente della sua “creatura” Martina Zerulo.

Il miglior papà: non ce ne vogliano tutti gli altri, ma il genitore che più ci ha colpito è il maestro Mimmo Pellegrino da Bisceglie, papà di Andrea e Tecnico Nazionale. Grande umanità e serenità d’animo, poche parole e sempre quelle giuste, sussurrate a mezza voce, grande cultura sportiva e non solo. Un grande.

Per chiudere, una raccomandazione finale, doverosa quando si parla di tennis giovanile. E’ bene rammentare che i risultati, a queste età, contano ben poco. Vincere fa piacere, porta visibilità e fiducia, ma non deve mai essere l’obiettivo unico dell’attività. La competizione deve essere vista solo come uno strumento di verifica del lavoro fatto in allenamento, e non come un fine in se. Per avere speranze di arrivare davvero, occorrono umiltà, spirito di sacrificio, applicazione. E soprattutto, occorre un piano di sviluppo tecnico, fisico e tattico da svolgere in un orizzonte di lungo termine, per preparare i ragazzi a vincere domani, quando conterà davvero, sul circuito pro.
Buon lavoro a tutti.

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ROBERTA VINCI: LA MACCHINA DEL TEMPO

Per celebrare la bellissima vittoria nel Wta di Lussemburgo, ripercorriamo la vicenda sportiva della più spettacolare delle nostre tenniste, dotata di un gioco tanto antico quanto bello da vedere, ma frenata da un fisico fragile e da un carattere trop…

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ROBERTA VINCI: LA MACCHINA DEL TEMPO

Per celebrare la bellissima vittoria nel Wta di Lussemburgo, ripercorriamo la vicenda sportiva della più spettacolare delle nostre tenniste, dotata di un gioco tanto antico quanto bello da vedere, ma frenata da un fisico fragile e da un carattere troppo sensibile. Ora, con la ritrovata condizione atletica, Robertina può essere uno splendido testimonial per il nostro tennis.

Roma, 2 maggio 1999 – Al Foro Italico si gioca il secondo turno delle qualificazioni del torneo femminile. C’è un pubblico variegato, anche se non troppo numeroso, in cui si mescolano veri appassionati a semplici curiosi, che girano fra i campi interessati più alle fattezze delle giocatrici che all’aspetto agonistico. A poco a poco, però, tutti quanti si ritrovano a guardare lo stesso match. “Aho, venite qua, c’è
una che serve e va a rete…”. Sul campo n. 1 va in scena un affascinante contrasto di stili, fra due ragazze giovanissime. Da una parte, una diciottenne slava, splendida atleta, fisico da sprinter, piedi che sembrano volare sul campo, due fondamentali fluidi, potentissimi, ma anche un servizio tremebondo, funestato da un lancio di palla spesso sciagurato. La sua avversaria italiana è una ragazza piccolina, di soli 16 anni, dall’aspetto decisamente mediterraneo: forme generose, piuttosto sfornita di muscoli, non troppo potente, né troppo veloce. Ma dotata di un braccio fatato. Nettamente inferiore nello scambio di forza da fondo campo, la sedicenne mette in mostra un armamentario tecnico di rara bellezza, che illumina il pomeriggio. Un back di rovescio tagliente e sicuro, con cui anestetizza la potenza della rivale, serve & volley impeccabili, palle corte imprevedibili, improvvise accelerazioni di diritto, uso sapiente degli angoli stretti, pallonetti millimetrici. Uno spettacolo. La ragazza slava si guarda intorno, smarrita. Non ha mai affrontato una che gioca così. Piega più che può le sue magnifiche gambe, ma fa una fatica enorme ad imprimere potenza alle bassissime rasoiate di rovescio con cui la sua avversaria la sta torturando. Tra l’entusiasmo del pubblico, la piccolina si aggiudica il primo set con un netto 62, e a suon di colpi vincenti si procura un break di vantaggio nel secondo. Ma la russa non molla. Inizia a trovare il ritmo, cerca di spostare la rivale, di stancarla, di tenerla lontana dalla rete. Il match si fa più duro ed equilibrato. Fa caldo. La piccolina è al servizio, avanti 43, 40-30. Cerca una traiettoria esterna, e la segue a rete. La slava risponde con un rabbioso lungolinea di rovescio. La piccola italiana arriva in equilibrio precario sulla volèe bassa di diritto, ma trova un ottimo impatto, e manda di là una profonda traiettoria incrociata, che atterra nei pressi della riga. Le magnifiche gambe della ragazza slava sprintano, e la portano a un gran passante lungolinea. La piccolina, intelligente, ha chiuso l’angolo alla sua sinistra, ma la palla è molto bassa e violenta. Ne esce una bella volèe incrociata di rovescio, che pare definitiva. Pare. La slava riparte a mille, arriva sul rovescio di gran corsa. L’italiana, di puro istinto, si appiccica a rete, per chiudere l’angolo. E viene scavalcata da un magnifico lob liftato, che atterra ben dentro al campo, fra gli oooohhh! di meraviglia del pubblico. E’ la resa. Il fiato della nostra si fa sempre più corto, l’altra prende fiducia. L’atletismo slavo prevale sulla fantasia mediterranea, e il match si chiude con un netto 26 64 62. Il pubblico sfolla, un po’ deluso, ma soddisfatto per lo
spettacolo. “Certo però che gioca bene questa russa… Come hai detto che si chiama?” “Aspetta… Dementieva, Elena Dementieva. Pare sia una grande promessa.” Peccato per la nostra però… Bellissima da vedere, fa i miracoli, ma se non hai il fisico, oggigiorno…”.

Quel match, che la talentuosa Roberta Vinci, giocò sedicenne, da n. 650 Wta, contro una tennista che sarebbe diventata ben presto una delle protagoniste del tennis mondiale, racchiude un po’ tutta la sua vicenda sportiva. La vicenda di una tennista d’altri tempi, dotata di un talento notevole e di un gioco altamente spettacolare, che ha avuto forse un solo torto. Quello di nascere con un paio di decenni di ritardo.

Roberta Vinci da Taranto, classe 1983, si fa notare ben presto per la sensibilità del
tocco e per la pulizia dei suoi gesti. A livello juniores, gioca spesso con la sua quasi coetanea e corregionale Flavia Pennetta, più anziana di un anno, sotto la guida tecnica di Michelangelo Dell’Edera. Le due pugliesi in quel 1999 si aggiudicano il titolo di doppio al Roland Garros juniores.

Poi, con l’ingresso nel professionismo, le due ragazze prendono strade diverse. La determinata brindisina si accasa a Milano, con Barbara Rossi, mentre la nostra tarantina si sistema a Roma, al Parioli, alla corte di Vittorio Magnelli. E lì per lì, non
sembra credere troppo alla possibilità di emergere in singolare, in un circuito dominato da possenti valchirie. Le sue prime affermazioni Roberta le coglie in doppio, dove affianca la “francese de Roma” Sandrine Testud, moglie di Magnelli. Il sodalizio ha successo. L’azzurra arriva, diciottenne, al n. 12 delle graduatorie mondiali di specialità, e le due ragazze nel 2001 si qualificano per il master finale Wta.

Poi piano piano, iniziano ad arrivare soddisfazioni anche in singolare, per lo più sulle superfici veloci. Nel 2002, una semifinale sul cemento di Tashkent, dove la palla rimbalza bassissima.

Per l’exploit vero e proprio, tuttavia, bisogna aspettare il 2005, e la stagione sull’erba. La tarantina, ancora fuori dalle prime 100 del mondo, si iscrive alle qualificazioni del torneo di Eastbourne, prestigioso prologo di Wimbledon. Le passa di slancio, e si ferma solo in semifinale, mettendo in fila, per strada, gente come Zvonareva e Myskina, con il suo impeccabile tennis d’attacco. Sul sito della Wta nelle news del torneo inglese, scrivono: Anastasia Myskina of Russia defeated by Italian serve-and-volleyer Roberta Vinci… A leggere l’asciutta prosa anglosassone, c’è da inorgoglirsi.

Pochi giorni dopo, ai Championships di Church Road, la nostra arriva al terzo turno, dove ha l’onore di sfidare, sul centrale, nientemeno che Kim “Kong” Clijsters, in diretta tv su Sky. In termini di chili e di centimetri, è un match impari, ma Roberta, pur sconfitta, ne esce bene, ricevendo una valanga di complimenti da un ammiratissimo Gianni Clerici. Rino Tommasi, dal canto suo, non tradisce la sua estrazione statistica: “Epperò… 3 aces di fila. A mia memoria, non ricordo una tennista italiana capace di mettere a segno tre aces consecutivi”. Insomma, un
figurone. Il segreto di questa nuova Roberta Vinci è in realtà uno solo: l’amore. Il rapporto con il tecnico siciliano Francesco Palpacelli, avviato in quel periodo, le conferisce stabilità psicologica, le infonde fiducia e convinzione nei propri mezzi. E la porta da Roma a Palermo, dove, seguita da Francesco Cinà, trova finalmente l’habitat ideale per affermarsi nel circuito professionistico.

L’anno successivo l’azzurra raggiunge il suo best ranking (37 Wta), ma poi a causa di una lunga serie di guai fisici, esce nuovamente dalle prime 100, per rientrarci fragorosamente nel 2007, con la vittoria sulla terra in altura di Bogotà, la sua prima
affermazione in un torneo del circuito maggiore. Poi, ancora infortuni su infortuni: il ginocchio, la spalla, la schiena. Un calvario.

E finalmente ecco l’ultima resurrezione, targata 2009. Una gran battaglia contro la Ivanovic a Brisbane, i quarti a Marbella mettendo paura alla Jankovic, fino alla cavalcata trionfale di Barcellona. Nell’ultimo anno, l’azzurra si conferma a buoni livelli: raggiunge ancora una finale a Barcellona (persa da una Schiavone intenta a scaldare i motori per il Roland Garros) e poi ritrova la miglior condizione in questo ultimo scampolo di stagione, dove tra tournee asiatica e indoor europei si permette di battere gente come Petrova, Pironkova, Kuznetsova e Bondarenko. A Linz la ferma solo una Ivanovic mostruosa, ma poi a Lussemburgo trova la settimana perfetta, dominando in finale la potente ma acerba pin-up tedesca Goerges.

Le interviste ci parlano una Roberta Vinci ancora diversa, più matura e sicura di sè. La sua storia con Francesco Palpacelli è finita ormai da tempo, ma Roberta sembra non risentirne, e pare anzi aver ancora migliorato il suo repertorio tecnico. Vediamolo nel dettaglio.

Un colpo molto importante per l’azzurra è il bellissimo servizio. Un gesto di grande fluidità e coordinazione, con una azione della spalla e del braccio armoniosa e continua, splendidamente sincronizzata con la spinta delle gambe e culminante in un mulinello rapidissimo. Roberta conosce benissimo ogni traiettoria e ogni variazione di effetto. E nonostante la statura contenuta, i muscoli non certo da wonder woman, grazie alla sua tecnica di esecuzione strepitosa è in grado di sparare prime palle a oltre 170 km/h, di eseguire slice esterni di grande precisione e servire robusti kick avvelenati. Un servizio, insomma che se lo avesse Karin Knapp, con le sue spalle da canottiere, farebbe le buche per terra.
Altra caratteristica vincente del gioco di Roberta è la perniciosa (per le avversarie) disomogeneità dei fondamentali, dai quali scaturiscono due tipi di palla profondamente diversi, su cui trovare ritmo è impresa davvero improba.

Il rovescio è giocato sistematicamente in back, si giova di un gran controllo della profondità del colpo (micidiali e ben fintate le palle corte) e consente a Roberta di mettere in gran difficoltà le atletiche colpitrici del tennis attuale, non abituate a
fronteggiare queste rotazioni. Con il diritto invece l’azzurra, grazie ad una classica impugnatura eastern e ad una azione estremamente fluida del polso, è in grado di alternare parabole alte e morbide, cariche di top spin, ad improvvise accelerazioni perfettamente piatte, colpite con grande anticipo, che spesso le procurano il punto diretto o le propiziano la via della rete. A causa dell’apertura un po’ troppo ampia, questo colpo è il termometro del gioco dell’azzurra: quando funziona a dovere, vuol dire che Roberta è on fire.

Il gioco al volo è un grande punto di forza per la tarantina, e in genere vale da solo il
prezzo del biglietto per i suoi match. I gesti sono eleganti e sicuri (la voleè di rovescio in particolare coniuga splendidamente bellezza ed efficacia) e anche lo smash è impeccabile. Purtroppo, come è ovvio, la struttura fisica tutt’altro che imponente impedisce a Roberta di coprire sufficientemente la rete, e la costringe a centellinare le sue discese. Un gran peccato, perché la tecnica di esecuzione delle volèe è forse la migliore di tutto il circuito femminile.

Contro un simile modo di giocare, quando è sorretto, come in queste settimane, da una adeguata condizione atletica e da una sufficiente mobilità, molte delle tenniste contemporanee vanno in grandissima difficoltà. Parafrasando certe trame di fantascienza, il gioco di Robertina è come un virus estinto, appartenente ad una lontana era geologica, rimasto congelato per migliaia di anni, che improvvisamente si risveglia e va ad attaccare organismi che non hanno sviluppato i necessari anticorpi, con esiti devastanti.

Se ne è avuta la riprova anche nella finale di ieri. Julia Goerges, nettamente superiore per muscoli e centimetri, non è quasi mai riuscita a trovare continuità e ritmo, contro le incessanti variazioni della nostra. Variazioni che le hanno consentito, in carriera, di raccogliere un palmares già invidiabile: 3 titoli WTA (su quattro finali) in singolo e 5 in doppio, due Fed Cup (per ora) e quasi 2 milioni di dollari di prize-money… Tra i maschi sarebbe l’indiscussa n. 1 d’Italia.

Insomma, la nostra Robertina mette d’accordo davvero tutti: esteti e tifosi nazionalisti. Se riuscirà a mantenere questa condizione atletica (suo storico tallone d’achille) la ragazza tarantina può diventare un magnifico testimonial per il nostro
movimento. Un’ultima provocazione. A veder giocare la Vinci viene spontaneo chiedersi: ma perché i tecnici moderni non insegnano più questo tipo di tennis? Possibile che al mondo non nasce più una ragazzina dotata di sensibilità di tocco?
Non sarà forse che costruire in serie delle giocatrici basate sulla sola potenza è più semplice e rapido e quindi i ritorni economici arrivano prima?

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NON CHIAMATELE SECONDE LINEE

Molti appassionati, tra streming vari e tivù satellitare, hanno potuto seguire il derby azzurro andato in scena nel primo quarto di finale del Wta indoor di Linz (220.000 euro, sintetico indoor). Sara Errani contro Roberta Vinci, numero 3 e numero 4 d’Italia. Compagne di Fed Cup, compagne di allenamento, da oltre un anno coppia fissa in doppio. Ha vinto Roberta (per la seconda volta in altrettanti confronti) ma conta poco. Quel che conta, è che in tanti abbiano potuto apprezzare il gioco di due tenniste non troppo note al grande pubblico, piccole di statura, ma dalle grandi qualità tecniche, atletiche e nervose. Si è visto un tennis diverso. Non è stato il solito match fra i tanti, omologati incontri sull’odierno circuito femminile. Un circuito dove vedi il primo game di una partita, e sai già quel che succederà, ogni punto uguale al precedente: grandi botte sulle diagonali, seguite da accelerazioni lungolinea, alla prima occasione utile. Mai una variazione, un cambio di ritmo, una discesa a rete. La monotonia eretta a sistema, in omaggio a sua maestà il muscolo, che l’avvento delle sorelle Williams e l’ondata slava hanno eretto a ingrediente fondamentale per il successo.

Ebbene, niente di tutto questo, in Errani-Vinci. Loro non hanno i bicipiti luccicanti, non tirano fulminanti cannonate. Ma in compenso, sanno giocare a tennis. Dietro ogni colpo un’idea di gioco, dietro ogni scelta una strategia, una tela da tessere, uno schema da impostare.

Prendete Sara. Per anni le hanno dato della pallettara senza talento, scambiando corsa e agonismo per scarsa qualità di braccio. E invece Sara Errani è una giocatrice completa, temibile per tutte le avversarie e su tutte le superfici: certo corre, si difende, lotta, ti fa giocare tante palle, allunga gli scambi. Ma sa anche alternare le rotazioni, sa staccare benissimo la mano dal rovescio bimane, sa eseguire palle corte millimetriche, trovare angoli stretti e toccare di fino nei pressi della rete.Tutte soluzioni che non solo portano punti, ma che fanno anche spettacolo, e restano poco familiari alle tante clavatrici slave di cui rigurgita il circuito.

E che dire di Roberta Vinci, il panda della Wta? Come non entusiasmarsi di fronte ad una giocatrice così minuta, ma in possesso di un bagaglio tecnico tanto antico quanto esaltante? Diritto praticamente piatto eseguito con presa eastern, rasoiate di rovescio in slice a scavare il terreno, colpi al volo che sembrano usciti dai filmati d’epoca del torneo di Wimbledon, un gesto di servizio di una fluidità impressionante, tecnicamente strepitoso, che le consente, a lei che nemmeno arriva a 1,65, di sparare prime palle a oltre 170 orari. Un armamentario che, quando è assistito, come in queste settimane, da condizione atletica e convinzione, produce un tennis bellissimo ed efficace.

In questi mesi, in casa nostra si è parlato tantissimo delle nostre due punte: Francesca la vincitrice di Slam e Flavia, la prima top10 azzurra di sempre, e nuova numero 1 in doppio. Ma un grande movimento, come è il nostro tennis in rosa, non è fatto solo di punte: dispone anche di un corposo gruppo di rincalzi. 4 atlete fra le prime 50, 7 fra le prime 100, 15 nelle prime 300, e tante ragazzine emergenti (le varie Giorgi, Caregaro, Burnett, Mayr, Remondina, e altre ancora) che, sia pure in lieve ritardo sulle migliori pari età straniere, hanno dimostrato di avere le carte in regola per diventare ottime giocatrici.

E’ solo che, a guardare Robertina e Sara, e il tennis che sanno esprimere, la definizione di “seconde linee” appare davvero ingenerosa e riduttiva.

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CON TE SARÀ DIVERSO…

Così cantava Mina nei ruggenti anni ’70, e così sperano, ogni volta, gli appassionati italiani, nei confronti delle nostre giovani promesse, non sempre capaci di confermarsi fra i professionisti.

La vittoria di Gianluigi Quinzi su Filippo Baldi nella finale dei campionati europei under 14, manifestazione dominata dalla squadra azzurra (i due hanno anche fatto finale nel doppio), ha destato parecchia attenzione sui media: non solo i siti specializzati, ma anche la stampa scritta, hanno riservato all’evento un risalto inconsueto per le manifestazioni giovanili. Immediatamente, tra gli appassionati si è scatenato il dibattito: da un lato gli ottimisti, tra cui qualcuno che si spinge a parlare dei due azzurrini come di sicuri top 10, dall’altro lato quanti invece mettono in guardia sulla presunta poca importanza delle vittorie nei campionati giovanili, che non sempre si traducono in splendenti carriere nel difficilissimo circuito professionistico.

In passato, altri azzurrini erano riusciti a centrare vittorie molto prestigiose nelle competizioni under. I campionati europei under 14 li vinse nel 1994 il povero Federico Luzzi, mentre a livello under 16 si registrano i successi di Pietro Ansaldo nel 2000 e di Fabio Fognini nel 2003.

Altre affermazioni di grande prestigio i nostri giocatori le hanno ottenute, in tempi più remoti, fra gli under 18. Nel 1985 Claudio Pistolesi vinse l’Orange Bowl e fu proclamato campione del mondo junior. Nel 1987 Diego Nargiso si aggiudicò il torneo juniores di Wimbledon, mentre Andrea Gaudenzi, nel 1990, fece ancora meglio: si affermò al Roland Garros e agli Us Open juniores a soli 17 anni (al primo anno under 18) e fu anche lui proclamato campione del mondo juniores.

Come sappiamo, non sempre le grandi speranze suscitate da queste vittorie si sono tradotte in carriere all’altezza delle aspettative, ma è opportuno effettuare dei distinguo. Per quanto riguarda le vittorie fra gli under 18 ottenute negli anni ’80, va detto che in quel periodo il livello tecnico del circuito juniores era poco significativo, dal momento che gran parte degli junior più forti erano già molto competitivi nel circuito maggiore. Ad esempio, alla vittoria di Pistolesi all’Orange Bowl, faceva da contraltare l’affermazione del suo coetaneo Boris Becker a Wimbledon. Gaudenzi è una parziale eccezione: il faentino, con il suo best rank di n. 18 del mondo, ha avuto una carriera pro di tutto rispetto, anche se inferiore, ad esempio, a quella dello svedese Enqvist, da lui sconfitto nella finale di Parigi juniores.

In anni più recenti si situano le vittorie di Luzzi, Ansaldo e Fognini nei campionati europei. Anche qui, tre storie profondamente diverse. Il compianto Federico, classe 1980, a 14 anni batteva tutti i più forti suoi coetanei, incluso Marat Safin. L’azzurrino, dotato di buona tecnica e di ottimo tocco, era agonista precocissimo ed era tatticamente molto smaliziato. Quel che mancò, nella sua costruzione, fu soprattutto il necessario lavoro di potenziamento atletico e muscolare, che lo rese troppo “leggero” per il power tennis degli anni 2000, e ciò gli impedì (assieme con un carattere un po’ particolare e alcuni sciagurati infortuni) di andare oltre la 92° posizione del ranking. Storia tutta diversa quella di Pietro Ansaldo, un ragazzo ligure che pareva avere tutte le carte in regola per diventare un giocatore coi fiocchi, ma che poi fece una scelta di vita, e preferì una sicura carriera da manager nell’azienda di famiglia. Arriviamo infine a Fognini, anch’egli precocissimo agonista. A sedici anni Fabio, rapidissimo negli spostamenti, solidissimo in difesa, dotato di gran tocco e di un gioco vario, era superiore ai suoi coetanei Murray e Djokovic. Poi, negli anni successivi, il gap fisico (in chili e centimetri), l’inferiore efficacia del servizio, la minore adattabilità alle superfici rapide, la minore solidità nervosa, hanno portato alla situazione attuale, con l’azzurro buon professionista, con sprazzi di ottimo tennis, ma ben distanziato dagli altri due, da tempo top10 affermati.

E così l’appassionato, in bilico tra speranza e scetticismo, si domanda quale sia il corretto significato da attribuire agli exploit di Quinzi e Baldi. E’ lecito sperare?

Ebbene, è lecito. Tanto per cominciare, un campionato europeo under 14 rappresenta un ottimo punto di partenza. Se si va a spulciare l’albo d’oro della manifestazione, si trovano, è vero, parecchi carneadi, ma anche, in una proporzione diciamo di 1 a 1, molti nomi eccellenti: partendo dagli anni ’90, abbiamo Beto Martin, Tommy Robredo, Mario Ancic, Richard Gasquet, Novak Djokovic e, tra i vincitori più recenti, le grandi promesse Boluda e Dimitrov. Tra i finalisti figurano altri affermati top 100: il belga Rochus, il tedesco Benjamin Becker, lo slovacco Lacko, e, last but not least, Marin Cilic.

Ma soprattutto, quello che fa ben sperare è la futuribilità dei nostri due ragazzi. Intanto, sul piano fisico entrambi sembrano avere le carte in regola per il tennis moderno: Gianluigi a 14 anni è già intorno all’1,85, Filippo poco meno. Ma oltre all’elevata statura hanno tutti e due un’ottima rapidità di piedi e sono molto rapidi negli spostamenti. Entrambi devono migliorare la forza della parte superiore del corpo, ma quello verrà a suo tempo, con una preparazione mirata. Quel che più conta, però è il loro approccio tecnico e tattico alle gare. Questi ragazzi sono entrambi dotati un gioco moderno e aggressivo: cercano il vincente, a partire dal servizio e dalla risposta, non stanno lì ad aspettare l’errore dell’avversario, e hanno un repertorio tecnico completo, basato su un servizio già pungente e su fondamentali pesanti, corredati da una mano sensibile e dalla capacità di variare e verticalizzare il gioco.

Insomma, l’impressione è che dietro le loro nascenti carriere ci sia un progetto a lungo termine, con ambizioni vere, e che queste vittorie, pur importanti siano interpretate nel modo giusto: ovvero, come una verifica dei progressi fatti nel livello di gioco, e non come degli obiettivi a se stanti, a cui sacrificare la crescita.

Nessuno può dire oggi, con certezza, dove arriveranno questi due ragazzi. Ma intanto, non facciamo loro mancare il nostro incoraggiamento, e lasciamoli crescere tranquilli.

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ROMA CAPITALE DEL TENNIS GIOVANILE

Gli Internazionali BNL d’Italia, la grande kermesse del tennis italiano, si arricchiscono quest’anno con tre importanti eventi dedicati ai giovani giocatori, con l’obiettivo di coniugare aspetti agonistici e promozionali.

Nella settimana del torneo femminile, infatti, verranno disputati due tornei giovanili validi per il circuito Tennis Europe: uno di categoria under 12 (presso il Circolo Canottieri Roma) e uno riservato agli under 14 (presso il Circolo Tennis Parioli). I due eventi hanno la prestigiosa denominazione di “Internazionali BNL d’Italia under 12 e under 14”.

Inoltre, la settimana precedente, quella del torneo maschile, si disputerà presso il Circolo Due Ponti una tappa dell’importante circuito Nike Tour (che ha di norma un livello tecnico leggermente inferiore a quello delle competizioni Tennis Europe); l’evento Nike metterà in palio alcune wild card per i due tornei Tennis Europe della settimana successiva: 4 per la categoria under 12 e una per la categoria under 14, offrendo così a un gran numero di ragazzi l’opportunità di accedervi.

Per i giovani con ambizioni di agonismo la possibilità di disputare dei match in un evento Tennis Europe è molto importante sul piano tecnico, perché consente di misurarsi con i migliori pari età europei. Ma soprattutto, è un’esperienza proficua per la loro maturazione come persone e come tennisti, perché offre ai nostri ragazzi l’esempio e il confronto con l’approccio all’allenamento e alla competizione dei migliori giovani stranieri, di norma più precoci nello sviluppare un comportamento e un atteggiamento professionale.

Fin qui l’aspetto tecnico-agonistico. Ma non va dimenticato l’altro obiettivo della manifestazione, ovvero quello promozionale: a tutti i giovani giocatori iscritti al Nike e ai Tennis Europe, infatti, saranno distribuiti biglietti omaggio per assistere alle sessioni serali degli Internazionali d’Italia. In più, i tre circoli coinvolti (Due Ponti, Canottieri Roma, Parioli), fungeranno da sede secondaria di allenamento per i professionisti e le professioniste impegnati al Foro Italico. In tal modo, i giovani partecipanti potranno assistere agli allenamenti dei loro beniamini, scambiarci qualche palleggio e addirittura incontrarli in spogliatoio.

Un’esperienza davvero indimenticabile.

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FABBIANO E TREVISAN – LA DISFIDA DI BARLETTA

Un sorteggio beffardo mette l’uno contro l’altro, nel primo turno del challenger di Barletta, i due migliori prodotti della classe ’89 del tennis italiano, il potente toscano Matteo Trevisan e l’intelligente pugliese Thomas Fabbiano.

Il match è affascinante, anche alla luce dei buoni risultati che entrambi hanno raggiunto nelle ultime settimane. Matteo è reduce dalla bellissima finale nel challenger di Caltanissetta, Thomas viene da una buona tourneè in Medio Oriente dove ha colto una vittoria e una finale a livello Future. In palio, tra l’altro, la supremazia in classifica, dal momento che i due sono separati da sole 5 posizioni (372 Thomas, 376 Matteo) e da un solo punto Atp.

Tre anni fa i due ragazzi, i primi prodotti del Centro Federale di Tirrenia, erano fra i più forti juniores del mondo. Matteo è stato anche numero 1, Thomas n. 6 delle graduatorie ITF, ed entrambi hanno agguantato 2 semifinali negli Slam Junior, oltre a molte prestigiose affermazioni nei tornei giovanili.

Poi, per tutti e due, un travagliato ingresso nel professionismo, sia pure per motivi diversi.

Matteo ha pagato i tanti infortuni, una perniciosa mononucleosi, ma anche una certa immaturità giovanile, alla base di un rapporto mai decollato con il tecnico argentino Infantino.

Il piccolo Thomas, più sicuro, più maturo, più volenteroso e costante negli allenamenti, è stato fin da subito competitivo a livello future, ma ha fatto molta fatica a inserirsi nei tornei di categoria challenger, soprattutto a causa della mancanza di potenza, e ha dovuto lavorare tantissimo per potenziarsi fisicamente.

Due giocatori differenti come il giorno e la notte, sia sul piano caratteriale, sia sotto il profilo tecnico.

Thomas, è uno stratega. Alto circa 1,70, è velocissimo, tenace, saldissimo negli appoggi bassi, tatticamente abilissimo, e dotato di un repertorio tecnico molto completo. Sa fare bene molte cose, e quasi sempre sceglie quella giusta. Il suo colpo migliore è il diritto, ma anche il rovescio bimane è ben impostato ed è molto a suo agio nel gioco al volo. Il servizio negli ultimi 2 anni è cresciuto a poco a poco, con un certosino lavoro di perfezionamento. Ad alto livello il ragazzo può sopperire con l’anticipo e la rapidità di esecuzione alla fisiologica mancanza di potenza, come ha dimostrato due anni fa passando le qualificazioni al Foro Italico.

Matteo è un picchiatore. 1,80 di fibre muscolari potenti ed esplosive, un servizio incisivo, continuo, vario negli effetti e nelle traiettorie, con cui alterna botte piatte violentissime a kick altissimi e velenosi. Un diritto che è un maglio perforante, un autentico missile, letale da tutte le posizioni, E un rovescio bimane un po’ più ballerino, ma comunque molto pesante. Un po’ monocorde negli schemi, la mano non proprio educatissima, una voleè scolastica (ma sta iniziando a prendere confidenza). Ma soprattutto, una presenza agonistica notevole e la capacità di alzare il livello nei momenti importanti. Un braccio da fabbro, insomma, che non trema nell’assestare la martellata decisiva.

Entrambi sono probabilmente, in prospettiva, due tennisti naturali da cemento: gesti compatti, con aperture contenute, piedi vicini alla riga di fondo.

Thomas sul rapido può far valere le sue doti di reattività e di anticipo, e sfruttare al meglio la potenza dei colpi altrui per rendere più penetrante il suo gioco. Matteo può ovviamente meglio far valere la grande incisività delle sue armi migliori, servizio e diritto.

La partita non sarà certo come le altre. Si sono affrontati innumerevoli volte, per quattro anni, sui campi del centro di Tirrenia e nei tornei di categoria. Si conoscono a memoria, sono probabilmente in grado di leggere l’uno sulla faccia dell’altro i pensieri più remoti, le emozioni più recondite. Il coach di uno dei due (Brandi, che segue Thomas) è stato a lungo nell’angolo di Matteo, nel periodo migliore della sua carriera juniores.

E non sono mai stati troppo amici. Rispetto si, moltissimo, ma anche una inevitabile rivalità.

L’augurio è che la loro Disfida di Barletta – in attesa di vederli su palcoscenici più prestigiosi – sia solo un inizio. L’inizio di nuova stagione per il nostro tennis maschile.

Forza ragazzi, vinca il migliore.

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PICCOLO GRANDE EROE – SARA ERRANI CAMPIONESSA DIMENTICATA

Il tennis femminile nel nostro paese continua a scontare, anche fra gli appassionati, un forte gap di popolarità rispetto a quello maschile. L’interesse della maggioranza resta focalizzato sul circuito Atp e solo di recente, soprattutto per merito delle nostre giocatrici, i media e il grande pubblico hanno rivolto maggiore attenzione alle racchette rosa, in primis a Flavia Pennetta, la nostra numero 1.
La bella brindisina, tuttavia, cui resta il grandissimo merito di essere stata la prima azzurra nella storia del nostro tennis ad arrivare fra le prime 10, non è un fenomeno isolato, ma rappresenta la punta di diamante di un movimento – quello del tennis femminile azzurro – di notevole spessore complessivo. Oltre a Francesca Schiavone, trionfalmente tornata fra le prime 20 del mondo, scorrendo la classifica Wta troviamo altre 4 ragazze comprese fra le prime 100: Sara Errani, Roberta Vinci, Tattiana Garbin e Alberta Brianti.
Fra queste, la meglio piazzata è la piccola biondina romagnola Sara Errani, n. 50 delle ultime classifiche. L’azzurra, anche per la sua indole schiva, è poco abituata alla luce dei riflettori, e non è molto considerata dai media e dai tifosi. Un vero peccato, perché il suo percorso di carriera e le sue vicende agonistiche dovrebbero essere invece oggetto di analisi minuziosa, rappresentando un fulgido esempio di ambizione, determinazione, coraggio e professionalità.
Tra l’altro Saretta, il soldatino d’acciaio del nostro movimento femminile, in questa settimana di vigilia degli Australian Open, con la semifinale centrata nel Wta di Hobart (220.000 dollari, cemento) è l’ultima superstite della pattuglia azzurra.
Una semifinale raggiunta con grande merito, non tanto per la vittoria nei quarti contro la qualificata belga Kristen Flipkens, (classe ‘86 n. 80 del mondo, ma fin qui una carriera quasi tutta passata nei tornei minori), quanto per le due magnifiche battaglie ingaggiate nei primi due turni contro due temibili giovani emergenti: la stellina americana Melanie Oudin, sconfitta 75 al terzo dopo una estenuante maratona, e la potente ucraina Katerina Bondarenko, (prossima avversaria di Fed Cup) fatta fuori nel secondo turno.
Personalità dalle due facce, la nostra Sara. Timida e mite fuori dal campo, il sorriso ad illuminare due occhioni dolcissimi, in gara – ma anche in allenamento – si trasforma e diviene un belvetta sanguinaria. Una combattente di razza, dotata di un coraggio incredibile e di una sconfinata capacità di soffrire.
E così, nonostante una taglia atletica non certo da wonder woman, nonostante i cronici problemi nell’esecuzione del servizio (complicato da una perniciosa rigidità nell’articolazione della spalla), nonostante il peso di palla non possa essere, inevitabilmente, quello delle “Big Babies” delle ragazzone tutte muscoli e centimetri che dominano il circuito femminile, Sara a soli 22 anni si è ritagliata un posto al sole di tutto rispetto: due tornei Wta vinti in carriera (Palermo e Portorose 2008), due finali, 5 semifinali, un best rank di n. 31 del mondo e tante battaglie ingaggiate contro tenniste di livello, tra cui spiccano le due magnifiche – ancorché sfortunate – prestazioni contro Lindsay Davenport agli Australian Open nel 2008 e contro la n. 1 del mondo Dinara Safina nella finale di Portorose 2009, rimaste indelebili nella memoria degli appassionati che hanno avuto la fortuna di assistervi.
“Volli, sempre volli, fortissimamente volli”. Sara è la dimostrazione vivente che Vittorio Alfieri avrebbe qualcosa da insegnare, nell’atteggiamento e nelle scelte di carriera, ai nostri aspiranti tennisti.
Perché il tennis professionistico non è solo una questione di chili e centimetri. Vi sono anche altre qualità, che possono farti emergere: rapidità di spostamento, intelligenza tattica, capacità di variare ritmo e traiettorie, tenuta mentale, tocco di palla (la nostra Sarita non disdegna le apparizioni a rete, dove se la cava sorprendentemente bene) enorme capacità di resistere in difesa, straripante personalità agonistica.
Sul piano tecnico, il gioco di Sara è basato su un diritto arrotato e pesante, dal rimbalzo alto e fastidioso, e su un rovescio bimane più piatto, giocato splendidamente in corsa, con cui l’azzurra tiene molto bene la diagonale e trova buone variazioni.
Ma a fare la differenza, nel gioco della romagnola, non sono tanto gli aspetti tecnici.
E’ quella piccola cosa che batte nel petto, che ti fa sentire vivo, che accelera quando sei emozionato, che ti salta in gola quando arriva il momento cruciale, che marca la differenza fra il coniglio e il leone. Il cuore.

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GIOVANI TALENTI ED ESPOSIZIONE SUI MEDIA. – I PRO E I CONTRO

Per un fenomeno di nicchia come il tennis, la rivoluzione tecnologica portata dalla diffusione generalizzata della rete internet è stata una autentica benedizione. Grazie alla sterminata galassia di siti istituzionali, livescores, forum di discussione, personal blog (di giornalisti e aspiranti tali, ma anche di atleti, allenatori e semplici appassionati) la mole di informazioni che si può raccogliere in rete sul fenomeno tennis è cresciuta in modo esponenziale. Più di recente, un contribuito decisivo è stato fornito dalla grande diffusione dei social network come Facebook e Twitter, che hanno aperto nuove frontiere alle possibilità di aggregazione e di comunicazione fra gli addetti ai lavori e gli appassionati.

Ormai si può sapere tutto di tutti. Se si sa come e dove cercare, si riesce a conoscere in tempo reale o quasi persino l’esito di un torneo giovanile under 14 giocato dall’altra parte del mondo.

In questo contesto, le giovani speranze, i ragazzi promettenti, vengono inevitabilmente sottoposti ad una pressione mediatica sempre più forte e più precoce. Su Internet si trovano interviste a ragazzini under 14 e ai loro allenatori; si trovano juniores che raccontano i loro match su Facebook; negli interminabili dibattiti sui tanti forum della rete i più appassionati fantasticano sulla prevedibile evoluzione futura della carriera di questo o di quel ragazzino, magari senza averli mai visti giocare: “Eh, Tizio a 15 anni compete già fra gli under 18…” “Vedrai che l’anno prossimo giocherà i futures e i challenger, come facevano Nadal e Djokovic a 16 anni…” … “Si però dai, fino ad ora Tizio chi ha battuto? E’ andato a prendere punti in tornei facili, mentre Sempronio ha una classifica più bassa ma ha giocato con gente molto più tosta. Per me va più lontano…”. E via così, fra speranze e congetture.

Per un paese come il nostro, ormai da molti anni alla ricerca di un grandissimo campione, di quelli che fanno interrompere i telegiornali, questa tendenza è forse ancora più diffusa che altrove.

Se ne è avuta la dimostrazione nelle ultime settimane: mentre la stagione agonistica volge al termine, l’attenzione degli appassionati italiani, degli irriducibili patrioti, di quelli che scrutano i tabelloni dei tornei di mezzo mondo alla ricerca di un azzurrino promettente, è tutta rivolta alle gesta di due minorenni di notevole talento, su cui si appuntano tante speranze: Camila Giorgi da Macerata, classe ’91, n. 229 Wta, e il mancino Gianluigi Quinzi da Cittadella, addirittura un ragazzino del 96, che però al primo anno da under 14 è già nei primi 10 del ranking Tennis Europe di categoria.

Due storie diverse, due percorsi diversi. Camila, che con il papà Sergio ha girato le accademie di tutto il mondo, dalla Florida alla Spagna, da Mouratoglu a Lagardére. Gianluigi che ormai da qualche anno si divide fra l’Academy di Bollettieri a Bradenton e il Circolo paterno di Porto San Giorgio, studiando via Internet.

Camila che gioca un tennis rischiatutto, iper anticipato e iper aggressivo, in cui alterna giocate fantastiche a disperanti serie di errori non forzati. Gianluigi che brilla per completezza tecnica, capacità di verticalizzare il gioco, lucidità tattica e abilità difensiva, anche se manca ancora di un po’ di potenza.

In comune, questi due ragazzi hanno la precoce, precocissima attenzione che i media – anche quelli tradizionali – hanno loro rivolto. Interviste, analisi tecniche, proclami. Sergio Giorgi qualche anno fa all’esordio della figlia al Bonfiglio, in una famosa intervista alla Gazzetta dello Sport assicurò che Camila, fisico impressionante, potenza travolgente, anticipo entusiasmante, ma anche ingenuità tattica commovente, sarebbe diventata in poco tempo la numero uno del mondo.
E anche su Gigi Quinzi, i media ci hanno già raccontato molte cose. Di come, a 7 anni, portato dai genitori negli USA, da perfetto sconosciuto, partendo dalle qualificazioni, vinse il prestigioso “Little Mo” il campionato americano under 8 degli Stati Uniti, intitolato alla memoria della compianta Maureen Connolly. Di come da Bollettieri, quando lo videro, gli offrirono di punto in bianco una scholarship gratuita e lo fecero mettere sotto contratto dalla IMG.

Insomma, con due storie così, è difficile pretendere che i media allentino la loro morsa soffocante.

Si discute se questo sia un bene o un male per i ragazzi.

Gli ottimisti ritengono che l’esposizione mediatica precoce sia positiva, perché aiuta a reperire risorse finanziarie dagli sponsor. E i soldi, nel processo di costruzione di un giocatore professionista, sono molto utili, per poter avere uno staff di coach e preparatori atletici di livello, per poter effettuare una programmazione internazionale ambiziosa e mirata alla crescita tecnica e del bagaglio di esperienza.

I critici ribattono invece che stare perennemente sotto le luci dei riflettori, ad una età così verde, quando il carattere non è ancora formato, è fortemente diseducativo e complica notevolmente il compito di tecnici e genitori. Le pressioni rischiano di diventare soffocanti, l’ansia del risultato può soffocare i migliori talenti, portare a stress eccessivo, delusione, nausea, fino all’abbandono precoce, al fallimento totale. E’ successo tante volte, in passato, con tanti ragazzi.

Difficile dire chi ha ragione.
La sensazione, tuttavia, è che la capacità di gestire le pressioni, di restare con i piedi per terra e focalizzati sul risultato, non sia altro che uno dei tanti, tantissimi prerequisiti necessari per emergere ad alto livello nel nostro difficilissimo sport, esattamente come le qualità tecniche e fisiche, come un buon diritto o una buona capacità di coordinazione: tutti i grandi campioni sono diventati tali anche perché hanno saputo resistere all’assalto dei media.

In conclusione, data la fame atavica di grandi personaggi che abbiamo in Italia, specie nel settore maschile, il prossimo campionissimo del nostro tennis dovrà avere le spalle larghe. E magari, terminato l’allenamento, abituarsi a fare un’ora di atletica in più, invece di andare ad accendere il personal computer.

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WTA, MANAGER E RETRIBUZIONI. – IL MALE OSCURO DEL TENNIS IN ROSA

La Wta attuale: crisi tecnica, soldi a palateC’è qualcosa che non funziona nella rutilante giostra del circuito femminile. Addii precoci e ritorni vincenti, troppo vincenti; numeri 1 fasulle e tenniste part time che vincono gli Slam; classifiche poco …

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WTA, MANAGER E RETRIBUZIONI. – IL MALE OSCURO DEL TENNIS IN ROSA

La Wta attuale: crisi tecnica, soldi a palate
C’è qualcosa che non funziona nella rutilante giostra del circuito femminile.
Addii precoci e ritorni vincenti, troppo vincenti; numeri 1 fasulle e tenniste part time che vincono gli Slam; classifiche poco attendibili e calendario sempre più caotico, con Master di fine anno giocati nel deserto (deserto, beninteso, sia fuori dallo stadio che sugli spalti).
E in campo, uno spettacolo francamente bruttino: tennis sempre più omologato, giocatrici che sembrano fatte con lo stampino e punti spesso, troppo spesso, giocati in fotocopia. Prestanti ragazzone dai bicipiti luccicanti, grandi pallate sulle diagonali, variazioni sconosciute, noia. Al punto che il ritorno di braccio fatato Justine Henin, previsto per l’inizio della prossima stagione, ha suscitato fra gli appassionati di tutto il mondo una attesa spasmodica.
Eppure, questo circuito in crisi ha portato a casa, negli ultimi 4-5 anni, sensazionali incrementi del montepremi. Solo fra il 2008 e il 2009, il prizemoney complessivo della Wta è cresciuto del 40%. Una enormità nel momento attuale, che vede l’economia mondiale alle prese con la più grave recessione degli ultimi 60 anni.
Merito dei faraonici contratti stipulati dall’ex CEO Larry Scott, dimissionario lo scorso anno, e dal nuovo Grande Capo, la canadese Stacey Allaster, che hanno legato al marchio WTA sponsor generosissimi, quali Sony, Ericcson, Whirlpool, Dubai Duty Free, eccetera.
Tuttavia, come si sa, tutto ha un costo, a questo mondo. Gli sponsor mettono i soldi, tanti soldi, ma poi vogliono anche dire la loro sulle politiche di gestione del Tour, con effetti spesso pericolosi. Le multinazionali vogliono portare il tennis (e i loro marchi) sui mercati emergenti, dove i margini di crescita del fatturato sono elevatissimi, ben più che non nella vecchia Europa, e non si curano delle conseguenze di queste scelte sull’organizzazione complessiva del circuito e sulla sua attendibilità tecnica.
Prendiamo ad esempio la riforma del calendario decisa alla fine dello scorso anno. L’obiettivo era quello di accorciare la stagione per salvaguardare le atlete dagli infortuni, e aumentare il numero dei tornei a partecipazione obbligatoria, anche per rendere la classifica WTA più aderente agli effettivi valori tecnici.
Il tutto, però, si è risolto in un inaudito spostamento del baricentro del circuito verso il Medio e l’Estremo oriente: sostanzialmente immutati per numero e importanza i tornei americani, sono cresciuti quelli asiatici mentre sono stati allegramente sacrificati ben 3 tornei indoor europei di ottimo fascino e lunga tradizione: Anversa, Zurigo e Stoccarda. In compenso, è stato “inventato” dal nulla l’inutile “master” di seconda fascia, organizzato manco a dirlo a Bali, e per giunta in concomitanza con la finale di Fed Cup. Da qui, poi, le relative polemiche sul danno pecuniario e di classifica procurato alla nostra Pennetta, tra l’altro scavalcata in extremis nel ranking mondiale dalla Bartoli, finalista a Bali, nell’indifferenza dei vertici della Wta. E anche il calendario 2010 ripropone la medesima situazione, senza che né l’ITF, né tantomeno la Wta siano state finora in grado di porre rimedio.

Il problema del management
Insomma, qualcosa non quadra. L’impressione è che, come in altri campi di attività economica (vedi ad esempio il settore finanziario) il difetto stia nelle modalità di remunerazione del management, modalità che incentivano il perseguimento a tutti i costi di risultati a breve termine, portando all’adozione di strategie che a lungo andare risultano perdenti e controproducenti.
E’ il caso, per fare un esempio, delle grandi banche d’affari americane, dalla cui gestione è scaturita la grave crisi finanziaria dello scorso anno: se i manager ottengono cospicui bonus in base ai profitti conseguiti in un anno, o addirittura in sei mesi, essi sono portati a prendere rischi eccessivi, imbarcandosi in operazioni avventurose, pur di avere elevati ritorni. Una volta incassati i bonus miliardari, i manager lasciano l’azienda, nella quale però si cominciano a manifestare i danni causati dalla loro gestione “predatoria“. Da questi comportamenti, reiterati nel tempo in forma sempre più grave, è alla fine scaturita la crisi attuale.
Qualcosa di simile, ovviamente con conseguenze molto più circoscritte, accade alla Wta: l’ex CEO, Larry Scott ha sicuramente intascato percentuali milionarie sui contratti che ha spuntato per portare il Master di fine anno a Doha. Lui infatti ha lasciato l’incarico ricco e felice. Lì per lì, sono state contente anche le giocatrici, che hanno visto salire i montepremi. Ma poi, inevitabilmente, i nodi arrivano al pettine.
Ed ecco che il Master finale, giocato in un deserto spettrale, in un paese completamente privo di tradizione e di cultura tennistica, in un clima infame, caldissimo e umido, è risultato, sul piano tecnico e mediatico, un clamoroso fiasco. Nonostante l’impegno (per una volta) delle sorellone Williams, abbiamo avuto infortuni a ripetizione, giocatrici bollite, risultati falsati e spettacolo scadente.
Insomma, davvero un pessimo spot per la Wta, che vede la sua credibilità, il suo marchio, il suo appeal pubblicitario svalutarsi. Se si va avanti così, per quanto tempo ancora si riusciranno a trovare sponsor tanto generosi?

Conclusioni
Come dimostrato anche dalla vicenda Agassi (con le sue sconvolgenti – ed inquietanti – rivelazioni in tema di doping) non solo nel mondo della finanza, ma anche nello sport l’eccessivo orientamento al mercato, la ricerca del profitto ad ogni costo, l’autoregolamentazione selvaggia, possono causare guasti gravi, fino a rompere il giocattolo.
Ovviamente nessuno vuole tornare all’inizio dell’era Open. Ma forse, nel complessivo governo del tennis, è necessario pervenire ad una più equilibrata divisione dei poteri fra i manager delle associazioni professionistiche e la Federazione Internazionale, in cui l‘antiquato status dilettantistico dei dirigenti, se per certi versi viene considerato un fardello, dall‘altro lato può costituire un efficace antidoto all’adozione di scelte poco lungimiranti.

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CIRCOLI, GIOVANI E SPONSOR

Il prestigioso circolo romano lancia il “Due Ponti Tennis Team” un interessante esperimento di sostegno diretto ai giovani agonisti. Un esempio da seguire, una novità per Italia, ma anche il segreto del successo del tennis spagnolo.Nel tennis moderno,…

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