L’AUTOGOL DEL VECCHIO RINO

Credendo di fare un dispetto al tennis italiano, che odia al punto da aver tentato di distruggerlo candidandosi a diventare presidente della FIT, Rino Tommasi offre sulla Gazzetta dello Sport di oggi 12 gennaio un’altra piccola prova di ciò che nega, …

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L’AUTOGOL DEL VECCHIO RINO

Credendo di fare un dispetto al tennis italiano, che odia al punto da aver tentato di distruggerlo candidandosi a diventare presidente della FIT, Rino Tommasi offre sulla Gazzetta dello Sport di oggi 12 gennaio un’altra piccola prova di ciò che nega, cioè il rilancio del nostro sport operato a tutti i livelli dal Consiglio Federale in carica dal 2001.
Ormai abbiamo rinunciato a illuderci sulla possibilità che Tommasi, dalla vetta su cui pensa di trovarsi, si accorga di quanto avviene in pianura (il boom dei tesserati, dell’attività agonistica, delle iscrizioni alle scuole tennis, il travolgente successo degli Internazionali BNL d’Italia) o a mezza costa (gli juniores italiani protagonisti vincenti del circuito mondiale di categoria). Tolleriamo pure che, per miopia o per imporre i suoi pregiudizi, taccia su quanto avviene sulle vette circostanti (trionfi italiani in Fed Cup, nel circuito WTA, nei doppi dello Slam),
Ma anche limitandoci a prendere in esame soltanto gli unici tornei di cui Tommasi ammette l’esistenza (forse perché pensa di esser lui, andandoci, a certificarla), l’utilizzazione delle cifre che fornisce dimostrano esattamente il contrario dei quello che egli si illude di dimostrare. Eh sì, perché basta leggere la prima colonnina delle sue tabelline per rendersi conto che, da quando la FIT è gestita dall’attuale Consiglio Federale, il numero di partite giocate dagli azzurri nei tornei del Grande Slam sono passate da 61 a 92, con un incremento del 50% (in particolare, quelle dei giocatori uomini sono addirittura raddoppiate: da 17 a 34).
Questi sono i numeri che contano, perché esprimono un trend di crescita globale, non l’esito delle singole partite. E’ veramente meschino approfittare di quattro vittorie in meno su oltre 90 partite per definire “anno più nero” un 2007 al termine del quale l’Italia ha migliorato il suo record storico di presenze nell’élite del tennis mondiale, con 8 ragazze fra le Top 100 della WTA e 5 ragazzi fra i Top 100 dell’ATP.
Voglio solo sperare che l’ennesima mistificazione del vecchio Rino sia soltanto un altro piccolo frutto del suo invecchiar male e non la reazione velenosa di qualcuno che, avendo tentato di intascare 50.000 euro di fondi federali destinati all’attività dei giovani muovendo alla FIT una pretestuosa causa per diffamazione, è talmente infuriato per la sconfitta subita in tribunale da non saper più leggere neppure i propri numeri.

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AMARCORD (3): AUSTRALIA ’77

Il 2008 ha appena emesso i suoi primi vagiti e già il tennis ha ripreso il cammino attorno al mondo, ricominciando, com’è ovvio, da là dove fa caldo. Fra qualche giorno, poi, tutti convergeranno a Melbourne per il primo grande appuntamento della stagione. Invidio i giocatori, i giornalisti e tutti coloro che si apprestano a raggiungere quel meraviglioso Paese che è l’Australia, bellissimo e abitato da gente serena nel cui DNA predominano i geni che trasmettono l’amore per lo sport e per i suoi valori. Per noi del tennis, poi, l’Australia è il Paese delle 28 Coppe Davis, di Laver e di Rosewall, di Hoad e di Newcombe, di Margaret Court-Smith e di Evonne Goolagong, una specie di Mecca da visitare con religioso fervore almeno una volta nella vita.
Io ci sono stato un bel po’ di volte, ma adesso non ci vado da oltre dieci anni e ne sento forte la nostalgia. Conosco Sydney e Melbourne, Adelaide e Perth, Port Douglas e le isole della Grande Barriera Corallina. Un giorno, durante un pazzesco viaggio aereo di 36 ore filate da Città del Messico a una cittadina del nordest chiamata McKay, sono persino atterrato a Rockhampton, la città natale di Laver, e se invece di ridecollare subito mi avessero lasciato sbarcare giuro che appena sceso mi sarei inginocchiato per baciare il suolo.
Ricordo ancora con grande emozione la prima volta che andai in Australia. Era il dicembre del 1977, l’occasione la seconda tappa dell’epopea della Nazionale che l’anno prima aveva conquistato la Coppa Davis in Cile. Gli azzurri si erano qualificati per la seconda delle loro quattro finali in cinque anni grazie a un facile successo a Baastad con la Svezia priva di Borg, a una rissosa vittoria per 3-2 in terra di Spagna (l’evento merita un breve excursus: Zugarelli si rifiutò di subentrare a Panatta a risultato acquisito e Adriano, indispettito, si fece battere 61 60 dallo sconosciuto Soler; il pubblico di Barcellona reagì male, insultandolo, e quando qualcuno osò dargli addirittura una cuscinata sulla testa Panatta si tuffò fra la folla come un missile terra-aria, scatenando un parapiglia che quasi tutti i giornalisti italiani condannarono inzuppando la penna nell’ipocrisia), e a una mezza passeggiata romana contro la Francia.
23 ore di volo, comprensive di due tramonti, ci portarono a Sydney dopo scali a Bahrein, Bombay, Bangkok e Singapore. Eravamo i soliti, con in più l’esordiente Oliviero Beha. Stavolta c’era anche Guido Oddo, il telecronista che la Rai aveva lasciato a casa in occasione della finale dell’anno prima. Oddo, maniaco dell’abbronzatura, salì in aereo nero di lampada e atterrò pallido e scolorito, beccandosi micidiali sfottò, ma poi ebbe modo di rifarsi sulla mitica spiaggia dei surfisti, Bondi Beach.
Nonostante l’enorme vantaggio orario sull’Italia (10 ore), posate le valigie andammo subito allo stadio White City, che all’epoca ospitava anche l’Open d’Australia (ad anni alterni: l’altra sede era Melbourne), per vedere gli allenamenti degli azzurri e raccogliere materiale per i nostri articoli. Trovammo un Nicola Pietrangeli molto nervoso, e non soltanto per le fastidiosissime mosche cavalline che imperversavano dovunque, costringendoci a spalmarci di un semi-inutile liquido repellente. Quella sarebbe stata la sua ultima panchina di capitano e lui, che viveva da giorni a fianco dei congiurati, lo sospettava già. Ci rilasciò dichiarazioni pepate, che edulcorammo per amicizia ma che comunque contribuirono a complicare le cose.
Furono giorni caldi, e non solo per via dell’estate australe. Sydney si rivelò bellissima, la città più bella del mondo, e irresistibile, popolata da gente meravigliosa (tutti tipo Crocodile Dundee, anche le possenti donne) e ricca di attrattive: acquari, musei, ristoranti raffinati e carissimi (Eliza’s nel quartiere di Double Bay, soprannominato “double pay” per via dei prezzi), quartieri a luci rosse, spiagge, battelli, squali ed altri spettacolari animali.
Anche la finale fu caldissima. Nel primo match Panatta prese un liscio e busso memorabile da Tony Roche e subito dopo Barazzutti, a causa delle baruffe della vigilia preferito a Zugarelli nonostante si giocasse sull’erba, non fece più di un set contro Alexander. Sembrava già finita perché il doppio australiano, Alexander-Dent, era uno dei più forti del mondo, e invece Adriano e Bertolucci giocarono forse la più bella delle loro partite e li batterono tre set a zero.
A quel punto l’Italia intera si mobilitò per assistere in diretta, nella notte fra sabato e domenica, agli ultimi due singolari. Gruppi di amici si riunirono davanti al televisore, muniti di cibarie e sigarette, per vivere di persona le emozioni che grazie ai satelliti quel confronto avrebbe proposto loro da 18.000 chilometri di distanza. Panatta perse il primo set ma poi ribaltò l’esito dell’incontro e si portò avanti per 2-1. In Italia quasi albeggiava ma il tifo era alle stelle. A quel punto, però, il tempo si guastò. A White City si alzò un vento capriccioso e fastidioso, una raffica di qua e una di là, con velocità sempre diverse. Sia Alexander sia Panatta, entrambi molto alti, lo pativano quando si trovavano al servizio. Adriano, però, lo patì un po’ di più, e perse i successivi due set 8-6 e 11-9 (all’epoca in Davis non c’era ancora il tie break). Il sogno di un bis mondiale svanì così, in una caliginosa serata australiana e nel corrispondente mattino italiano, lasciandoci ancor più amaro in bocca perché nell’inutile match successivo Barazzutti dimostrò di poter tenere testa a Roche prima che la notte li fermasse sul 12-12 nel primo set.
A ripensarci oggi, credo che nel nostro Paese il tennis abbia toccato proprio in quei giorni il vertice massimo della sua popolarità. All’epoca non c’era ancora l’Auditel (la Rai era monopolista), ma nonostante fossero gli anni dei trionfi di Lauda con la Ferrari do per certo che nei gusti degli sportivi e negli spazi di cui godeva il tennis era secondo soltanto al calcio e sopravanzava la Formula 1. Poi vennero la cacciata di Pietrangeli e il patetico tracollo di Budapest. La magìa di quella squadra si era incrinata a Sydney e neppure le finali del ’79 a San Francisco e dell’80 a Praga furono sufficienti a ricostruire l’incanto della vigilia australiana.

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IL DOLCE FAR NIENTE DELL’ATP

Alcuni giorni dopo la diffusione della notizia in Italia, l’Atp ha confermato ieri, 27 dicembre, le sanzioni patteggiate con Potito Starace e Daniele Bracciali per la grottesca vicenda delle poche decine di euro da loro puntate circa due anni fa su un sito di scommesse online. La conferma è arrivata con un lungo comunicato che aveva quale principale scopo quello di difendersi dall’accusa di aver perseguito con sospetto ritardo il comportamento non regolamentare dei due giocatori azzurri. Tale ritardo, a parere di noi della FIT e di molti osservatori indipendenti, stava infatti a indicare che le sproporzionate sospensioni altro non erano state che il patetico tentativo di nascondere sotto una foglia di fico l’evidente incapacità dell’Atp di individuare e punire i colpevoli del vero scandalo: le partite truccate.
“The Atp dismisses in the strongest terms claims made by both players and the Italian Federation that the Atp had deliberately held back these cases, recita il comunicato. E per dimostrare l’infondatezza delle accuse italiane, l’Atp spiega di aver ricevuto la “notizia di reato” soltanto nell’agosto del 2007 a seguito di un accordo firmato nel gennaio dello stesso anno con l’ESSA, l’ associazione che riunisce le più grandi società europee di scommesse.
Purtroppo per i suoi maldestri comunicatori, poco oltre l’Atp si dà però la zappa sui piedi, perché il vicepresidente addetto alle Regole e alla Competizione, David Bradshaw, dichiara letteralmente: “Il Programma Anti Corruzione, costantemente comunicato ai giocatori, indica in modo chiaro e non ambiguo che lo scommettere sul tennis da parte dei giocatori o del loro staff non è tollerato. E’ sempre stato così sin da quando è nato l’Atp Tour, nel 1990”. Incredibile ma vero: con queste parole Bradshaw mette nero su bianco che dal 1990, anno in cui le scommesse sono state espressamente proibite, al gennaio del 2007, quando è stato siglato l’accordo con la ESSA, l’Atp non ha fatto nulla per controllare se le sue regole venivano rispettate o no. Tant’è vero che le antidiluviane scommessine di Starace e Bracciali non erano state scoperte. E’ l’ammissione di una colpa molto più grave di quella di aver fatto finta di niente di fronte alla scoperta di piccole ed innocue infrazioni: è l’ammissione che per 17 lunghissimi anni chi doveva far rispettare le regole ha passato il tempo a girare i pollici…
Con controllori così era inevitabile che fra i controllandi qualcuno si convincesse di potersi impunemente spingere fino a truccare le partite. O magari, allargando il discorso ad altre forme di frode sportiva, fino a doparsi senza timore di venire scoperto.

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L’ONESTA’ DEGLI ITALIANI

Sapete che vi dico? Non tutto il male vien per nuocere. Perché, alla fin fine, l’unica cosa chiara che finora si sa sul fenomeno delle scommesse è la seguente: Starace, Bracciali e Di Mauro non hanno mai truccato una partita né sfruttato informazioni “riservate” sul conto dei propri colleghi per far soldi puntando. Sono, insomma, tre persone oneste che si sono macchiate di una (secondo me) imperdonabile leggerezza, e che quando hanno scoperto l’errore hanno prontamente smesso di scommettere.
Da appassionato di tennis mi auguro che l’ATP accerti che nessuno si è mai reso colpevole di corruzione, cioè del crimine peggiore di cui, assieme al doping, uno sportivo possa macchiarsi. Da lettore di giornali temo invece che non sarà così. Ed è anche per questo che, paradossalmente, ritengo positivo il fatto che i nostri tre ragazzi siano già usciti dall’inchiesta con punizioni, sì, ingiustamente pesanti ma anche con la patente di persona per bene. Sono almeno una ventina, stando ai “si dice”, quelli che dovrebbero vedersela più brutta. E ci sarà gente di molte nazionalità diverse…
A chi si chiedesse perché per ora ci siano andati di mezzo soltanto gli italiani mi sembra di poter rispondere con gran semplicità. Bando alle dietrologie, perché ciò è dipeso soltanto dalla diversità del comportamento “processuale” dei tre giocatori azzurri rispetto a quello degli altri attualmente sotto inchiesta. Di Mauro ha infatti subito una procedura, come dire?, abbreviata perché non aveva risposto alle prime contestazioni degli inquirenti, sottovalutandole. Starace e Bracciali, dal canto loro, hanno invece deciso di togliersi il dente e di patteggiare pene che, per quanto eccessive, non danneggiassero troppo la loro attività. Se avessero atteso la fine di gennaio per essere ascoltati dagli inquirenti, come accadrà ad altri “imputati”, avrebbero rischiato uno stop non soltanto più lungo ma soprattutto destinato a bloccarli durante gli importantissimi tornei di primavera.
Un’ultima annotazione. Fra i commentatori c’è stato persino chi si è spinto a rimproverare la FIT di non essere riuscita a evitare che i giocatori italiani commettessero superficialità del genere nonostante il “Club Italia”, che durante la stagione agonistica offre ai nostri migliori rappresentanti servizi di vario tipo, sia nato anche per far gruppo e fornire guida e indirizzo. Il rimprovero è non solo risibile ma soprattutto infondato. Starace e gli altri, infatti, scommettevano prima della creazione del “Club Italia” e, guarda un po’, hanno smesso di farlo quando sono entrati a farne parte…

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BUON COMPLEANNO, DAVIS!

Oggi ricorre il trentunesimo anniversario della conquista della Coppa Davis da parte dell’Italia e mi sembra giusto celebrarla non con i miei ricordi personali, oltretutto un po’ appannati, ma usando le parole di un giornale dell’epoca, la “Gazzetta d…

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BUON COMPLEANNO, DAVIS!

Oggi ricorre il trentunesimo anniversario della conquista della Coppa Davis da parte dell’Italia e mi sembra giusto celebrarla non con i miei ricordi personali, oltretutto un po’ appannati, ma usando le parole di un giornale dell’epoca, la “Gazzetta dello Sport”, scritte da uno dei mostri sacri del giornalismo specializzato, Rino Tommasi.
Quale miglior maniera di rievocare l’irripetuto entusiasmo di quelle ore che riviverle attraverso la prosa del grande Rino?
Ecco dunque quelle parole, riportate esattamente come campeggiano nel mio ufficio, sulla parete alle mie spalle, riprodotte dalla gigantografia della prima pagina della “rosea” del 19 dicembre 1976. Peccato che il pezzo girasse alla pagina numero 3 e che, dunque, non ci è possibile riproporvelo integralmente, ma penso che la lettura di questo lungo “cappello” sarà sufficiente a trasmettervi la forza della partecipazione emotiva di Tommasi a quello storico evento.

“Con un secco tre a zero inflitto al Cile ad opera del doppio (Panatta-Bertolucci hanno vinto rimontando in quattro set ), l’Italia entra, con pieno merito, nel prestigioso libro d’oro della Coppa Davis. E’ un privilegio che per 73 anni e per 62 edizioni era toccato soltanto a quattro paesi: l’Australia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Francia.
Negli ultimi due anni si sono infine inserite Sud Africa e Svezia. Quanto fosse considerato tale è provato dal fatto che queste nazioni hanno sempre goduto, a livello di federazione internazionale, notevole vantaggi, non ultimo quello di un maggior numero di voti.
Lo stesso ”Grande Slam” raccoglie tutt’ora, indipendentemente dai grossi cambiamenti avvenuti anche in campo organizzativo, i tornei dei “ quattro grandi”, vale a dire i Campionati d’Australia, il Roland Garros, Wimbledon e Forest Hills. Il mondo del tennis, così sensibile alla tradizione, ha dunque affidato una precisa gerarchia al risultato della sua competizione più importante e più rappresentativa e non l’ha tradita nemmeno quando certi valori tennistici (come il caso della Francia e della Gran Bretagna) non sono stati più rispettati.
Nel 1974 la Davis ha cambiato corso. L’hanno vinta prima i sudafricani, poi gli svedesi, ed ora gli italiani. Per quanto sia impossibile inquadrare storicamente questa variante, torna difficile considerarla occasionale.
Peraltro corre l’obbligo di verificare alcune differenze che sono alla base dei successi che hanno turbato la tradizione “quadrangolare” della Davis. Vediamo così che il successo del Sud Africa è legato a ragioni politiche che hanno impedito – per la prima ed unica volta nella storia della competizione – lo svolgimento della finale; che il successo della Svezia è stato quello di un solo giocatore – Bjorn Borg – in contraddizione tecnica con il significato di una gara a squadre; invece il successo dell’Italia è stato otte-

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AMARCORD (2)

Giovedì sera, durante la Festa che ha riunito a Roma tutti coloro che vogliono bene al tennis, guardando Lea Pericoli e Nicola Pietrangeli insieme sul palcoscenico dove transitavano i nostri campioni e i vertici dello sport italiano, sono stato assalito da una tamburellante sequenza di flash-back che mi hanno riportato per qualche minuto indietro di 31 anni, ai giorni di Santiago del Cile.
Gli agenti scatenanti sono stati Lea e Nick perché figurano tra gli interpreti principali di gran parte degli spezzoni del filmato su quell’unica vittoria azzurra in Coppa Davis archiviato nel mio vecchio cervello. Purtroppo non possiedo la formidabile memoria eidetica di Rino Tommasi, e i ricordi che serbo di quella trionfale settimana non hanno alcuna organizzazione. Però domani è il compleanno della finale cilena (17-19 dicembre 1976) e siccome m’ero ripromesso di celebrare l’occasione raccontando qualche aneddoto ai più pazienti fra i lettori di questo blog, sfrutto il flusso di flash-back dell’altra sera per onorare l’impegno.
Provo ad andare con ordine, anche se non sono sicuro che corrisponda a quello nel quale gli eventi si svolsero davvero. Ricordo prima di tutto un viaggio complicato, lunghissimo. I giornalisti italiani che rivedo presenti, oltre al sottoscritto, sono Rino Tommasi ed Enrico Campana (La Gazzetta dello Sport), Alfonso Fumarola (Il Corriere dello Sport), Vittorio Piccioli (Stadio), Onorato Cerne (Tuttosport), Rino Cacioppo (La Stampa), Daniele Parolini (Il Corriere della Sera), Lea Pericoli e Silvano Tauceri (Il Giornale), Gianni Clerici (Il Giorno), Roberto Mazzanti (Match-Ball e Resto del Carlino), Mario Giobbe (Radio Rai).
Non mi sembra che ci fosse nessuno di Repubblica, che aveva meno di un anno di vita e non usciva il lunedì. Sono sicuro che l’anno dopo a Sydney, quando l’Italia affrontò in finale l’Australia, Repubblica inviò Oliviero Beha, ma non ricordo Oliviero anche a Santiago. Sono ragionevolmente sicuro, invece, che ci fosse pure Ubaldo Scanagatta (La Nazione) però non riesco a visualizzarlo. Il telecronista Rai Guido Oddo non c’era (venne pure lui a Sidney nel ’77, ma credo che, non mandandolo in Cile, la Rai dell’epoca avesse voluto tenersi fuori dalle polemiche politiche che avevano preceduto la spedizione) e fece poi la telecronaca via tubo insieme con Giampiero Galeazzi, aprendo una “finestra” sul TG1 delle 20.30 quando, sabato 18, il trionfo azzurro maturò nel doppio. Fotografi? Di sicuro Angelo Tonelli, ho qualche incertezza su Ettore Ferreri. C’era forse Granata, o lui entrò nel tennis più tardi?
Con noi c’erano anche una trentina di appassionati, la gran parte dei quali romani ( il tennis di quegli anni era soprattutto figlio dei circoli romani). Ricordo che durante la tratta Buenos Aires-Santiago del Cile vidi da finestrino l’Aconcagua, la montagna più alta del Sudamerica. Ricordo che, essendomi pesantemente schierato contro il regime di Pinochet durante la lunga e turbolenta vigilia della finale, una volta messo piede all’aeroporto avevo un po’ di paura, anche perché l’anno prima in Colombia me l’ero vista brutta per motivi analoghi durante i Mondiali di nuoto. Ricordo che invece l’ingresso nel Paese fu rapido e che tutti i cileni sembravano simpatici, sereni, cordiali.
Se non ricordo male, in tutta la settimana che rimanemmo laggiù soltanto Tauceri e Parolini passarono un brutto quarto d’ora quando, avendo scattato delle foto a dei poliziotti di guardia a una installazione militare, vennero inseguiti e fermati (dovettero consegnare il rullino). Gli italiani emigrati in Cile ci invitavano a casa loro. Una sera finimmo in una villa dove si beveva “pisco sour” (un’aguardiente locale miscelata a succo di limone), si mangiava pasta scotta, si cantavano struggenti canzoni andine dedicate ai condor e si giocava a biliardo sotto lo sguardo severo di un busto di Mussolini.
Ricordo il centro di Santiago addobbato per Natale e lo strano effetto che facevano gli abeti spruzzati di neve finta in un posto dove c’erano quasi 30 gradi di temperatura. Ricordo Lea Pericoli con i capelli tenuti indietro da una fascia colorata e, accanto a lei, il sorriso dolce ed enigmatico di Bitti Bergamo, lo sfortunato Bitti che nel 1978 avrebbe preso il posto di Nicola Pietrangeli sulla panchina azzurra e che nel 1979, quando stavamo preparando la trasferta di San Francisco (terza delle quattro finali giocate da quella squadra), morì sull’autostrada perché un TIR gli fece un’inversione a U davanti, mentre diluviava. Ricordo i giornali locali dare un sacco di spazio all’evento, intervistando anche noi ospiti italiani (me compreso: solo che mi fecero dire quello che gli pareva, non quel che avevo detto io). Un quotidiano dedicò una doppia pagina al servizio di Panatta, analizzandolo con una sequenza fotografica sotto al titolo “El tremendo saque del senor Panatta”).
Ricordo lo Stadio Nacional – quello di cui i golpisti di Pinochet avevano fatto un campo di concentramento – come un bell’impianto con spalti ovali dipinti di bianco e celeste, non affollatissimo ma con un pubblico caldo e abbastanza competente. Gridavano “Ci-ci-cì! Le-le-lè! Vi-va-ci-le!” e battevano le mani a tutti, a partire dai nostri. Enrique Morea, il gran signore argentino che svolgeva il ruolo di giudice arbitro, non dovette fronteggiare alcun problema.
Ricordo che il clan azzurro si portava dietro le sue tensioni e le sue divisioni (Panatta e Bertolucci da una parte, Barazzutti e Zugarelli dall’altra, Pietrangeli nel mezzo e Belardinelli, uomo di campo, tirato per la giacca da tutte le parti perché c’era appena stato il rinnovo delle cariche federali ed a quell’epoca la “politica” non era semplice e lineare come adesso). A un certo punto Belardinelli si prese un’arrabbiatura storica che lo portò per qualche ora in ospedale.
Poi tutto andò come doveva andare. Barazzutti penò un pochino contro il numero 1 cileno Jaime Fillol, che aveva pure un piccolo stiramento ai muscoli addominali, ma vinse in quattro set quello che era l’incontro sulla carta più difficile della finale. Dopo, il cammino fu tutto in discesa. Panatta lasciò sette games all’indio Patricio Cornejo, nero nero e non attrezzato a competere a quel livello (non dimenticate che il Cile era arrivato in finale solo grazie al fatto che l’URSS s’era rifiutato di incontrarlo). Un po’ di braccino fece perdere il primo set del doppio a Bertolucci e Panatta e li fece penare fino al 9-7 nel terzo, ma poi tutto andò come doveva e alla fine eccoli lì, i nostri eroi, a fare il giro di campo con l’insalatiera e il tricolore, le mani sulla Coppa, Nick sulle spalle, immagini che irruppero in diretta anche nelle case italiane grazie al TG1, un evento mai verificatosi prima nel nostro Paese.
Curiosamente non ricordo come festeggiammo quella sera. Ricordo le solite litigate del giorno dopo per chi doveva giocare a risultato acquisito (oltretutto la consuetudine di passare al due su tre in situazioni del genere non era ancora stata inventata – la inventò Pietrangeli in Spagna l’anno successivo, mi sembra) e che alla fine Panatta dovette scannarsi con Fillol per vincere 10-8 al quarto set mentre l’ombroso Zugarelli perse in tre set secchi con la riserva cilena Prajoux, un brevilineo peloso di mediocre livello.
Ricordo una ripartenza davvero caotica, con il nostro aereo che si rompe sulla pista e l’assalto all’arma bianca a un DC-10 della Swissair parcheggiato lì accanto (“Ai mejo posti!”, come gridava Aldo Fabrizi nei film della famiglia Passaguai saltando sul trenino Roma-Ostia). Ricordo tre giorni di meravigliosa vacanza a Rio de Janeiro e le strepitose vittorie all’italiana ai danni dei giovanotti locali nelle partite di beach-soccer sulla spiaggia di Copacabana: Cacioppo, ex pallavolista, in porta (“Zoff! Cioff!”, lo sfottevano gli avversari), Pietrangeli libero in difesa a intercettare palloni e a rilanciarli con il piede fatato verso l’unico che corresse, Barazzutti, in una letale esecuzione del più classico schema catenaccio-contropiede.
E infine, tutti a casa. A Fiumicino, quando atterrammo con la Coppa, c’erano solo i parenti che erano venuti a prenderci.

2 – continua

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IL “COPIA E INCOLLA” DELL’AVVOCATO

L’avvocato delle cause perse, che in fatto di tennis non ne azzecca una neppure per sbaglio, ha usato la sua rubrichetta per accusare la FIT di aver trascurato ogni “comunicazione mediatica” (lo so che non è un buon italiano, ma sono parole sue…) de…

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IL “COPIA E INCOLLA” DELL’AVVOCATO

L’avvocato delle cause perse, che in fatto di tennis non ne azzecca una neppure per sbaglio, ha usato la sua rubrichetta per accusare la FIT di aver trascurato ogni “comunicazione mediatica” (lo so che non è un buon italiano, ma sono parole sue…) de…

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IL “COPIA E INCOLLA” DELL’AVVOCATO

L’avvocato delle cause perse, che in fatto di tennis non ne azzecca una neppure per sbaglio, ha usato la sua rubrichetta per accusare la FIT di aver trascurato ogni “comunicazione mediatica” (lo so che non è un buon italiano, ma sono parole sue…) della Serie A1 by Peugeot. E’ un vecchio ritornello che ogni anno, grazie probabilmente all’uso del “copia e incolla”, si sente libero di riciclare.
Purtroppo l’avvocato delle cause perse ha l’abitudine, pessima anche per un giornalista semidilettante, di scrivere senza documentarsi, come gli capitò quella volta che pronosticò vincente in un torneo giovanile una ragazzina che era stata eliminata il giorno prima. Non leggendo i giornali, devono essergli sfuggite sia le 10 pagine intere dedicate alla Serie A1 ogni martedì dal Corriere dello Sport sia le altre 10 dedicatele da Tuttosport. Inoltre, non guardando la tv, deve aver poi mancato anche le due ore dedicate alle finali di Torino ieri pomeriggio da Rai Sport Sat.
Gli manderemo una copia del volumetto con le 400 pagine di rassegna stampa che stiamo finendo di preparare. Magari trova qualcuno che glielo legge o glielo spiega.

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AMARCORD (1)

31 anni fa, proprio di questi giorni, un gruppetto di appassionati e di giornalisti italiani – fra i quali il sottoscritto – si apprestava a partire per Santiago del Cile, dove dal 17 al 19 dicembre l’Italia avrebbe disputato la sua terza finalissima di Coppa Davis. Ve ne parlo perché quei giorni li rivivo quotidianamente in quanto nel mio ufficio ho, alle spalle, la riproduzione delle prime pagine della Gazzetta dello Sport (“La Davis è nostra”) e del Corriere dello Sport (“Missione compiuta”) che celebrano la conquista dell’insalatiera, e, dirimpetto, un collage di vecchie foto fra cui una che ritrae Rino Cacioppo della Stampa, Daniele Pariolini del Corriere della Sera, Rino Tommasi e me, in abiti ovviamente estivi, a passeggio per le strade di Santiago già addobbate per l’imminente Natale australe.
Magari vi racconterò un’altra volta qualche squarcio di quell’entusiasmante e per certi versi esilarante trasferta. Qui vorrei invece chiarire bene quale fu il mio (trascurabilissimo) ruolo nelle vicende che precedettero la partenza. Ricostruendo in varie maniere la pubblica diatriba che si innescò sull’opportunità “politica” di andare in Cile per giocare la finalissima di Coppa Davis, Gianni Clerici e altri colleghi hanno infatti avuto l’amabilità di inserirmi fra coloro che assediarono la FIT gridando lo slogan “Non si tirano volées / con il boia Pinochet”. Modo pittoresco di descrivere una realtà che fu diversa nelle forme (lo slogan è frutto esclusivo del talento poetico del mitico Gianni) ma non nella sostanza.
Lo sfondo della diatriba, come probabilmente sapete, era costituito dal fatto che la finalissima si sarebbe giocata nello Stadio Nacional, un impianto sportivo che tre anni prima, quando il generale Pinochet aveva compiuto il suo sanguinoso golpe, era stato utilizzato come campo di concentramento e dove molti oppositori erano stati torturati e uccisi. Quando l’Italia si qualificò, sconfiggendo l’Australia al Foro Italico, si sapeva già che avrebbe dovuto affrontare il Cile di Pinochet che in finale ci era arrivato senza giocare perché l’URSS si era rifiutata di icnontrarlo in semifnale. Quindi il caso era già politicamente bollente.
Prima di procedere nel racconto mi permetto di ricordare che quelli furono gli anni più turbolenti dei rapporti sportivi internazionali, anni in cui la ragion di Stato fece definitivamente strame dell’autonomia dei Comitati Olimpici e delle Federazioni, tramutando i grandi appuntamenti mondiali dello sport in occasioni di propaganda politica. Pochi mesi prima della finale di Coppa Davis, per esempio, i Paesi africani avevano boicottato le Olimpiadi di Montreal perché il CIO aveva ammesso la Nuova Zelanda, rea, pensate un po’, di aver giocato a rugby contro il Sudafrica razzista. Poi sarebbero venuti il boicottaggio occidentale dei Giochi Olimpici di Mosca 1980 e quello del blocco comunista dei Giochi di Los Angeles 1984.
Sono cose che a dirle adesso fanno ridere – anzi, fanno pure un po’ senso – ma che allora tutti prendevano terribilmente sul serio.
Così, il giorno dopo la vittoria azzurra su Newcombe e soci, durante la riunione del mattino al mio giornale, “Il Messaggero”, divampò subito il dibattito “Cile sì – Cile no”. Io avevo trent’anni e in me confliggevano la cultura dell’uomo di sport e quella del giovane figlio dei tempi. Pensavo che si dovesse giocare ma che non fosse eticamente accettabile farlo in un posto che grondava sangue. E poi non mi andava giù il fatto che l’argomento preferito dai favorevoli al viaggio fosse il classico “sport e politica vanno tenuti distinti”, quando tutti sanno che da quasi tre millenni è vero il contrario.
“Il Messaggero” dell’epoca era un quotidiano che con orgoglio si definiva “laico, democratico e antifascista”. Due anni prima, di fronte al pericolo che il giornale passasse in mano a un editore di destra vicino al Vaticano, la redazione aveva fatto 17 giorni consecutivi di sciopero, interrompendolo soltanto in occasione del referendum sul divorzio per pubblicare una prima pagina che – incentrata su un gigantesco “NO” – avrebbe cambiato il modo di fare informazione in Italia. La spuntammo: poco tempo dopo i vecchi proprietari ci cedettero alla Montedison, allora controllata dal Partito Socialista Italiano. Era pertanto inevitabile che nel ’76 stessimo da una parte anziché dall’altra.
Così finì che decidemmo di schierarci contro il viaggio in Cile e io scrissi un pezzo in cui spiegavo che c’erano soltanto tre categorie di persone che sostenevano la necessità di tenere separati sport e politica: “i cretini, gli ipocriti e i fascisti”.
Seguirono polemiche, dibattiti, proclami e pubbliche battaglie. L’assalto alla FIT ci fu (se non ricordo male l’iniziativa venne dal defunto PdUP, il Partito di Unità Proletaria) e si concluse con l’esposizione della bandiera cubana dalle finestre, ma non è vero che io vi presi parte: ero lì come giornalista e rimasi per strada. In compenso, sul “Guerin Sportivo” Italo Cucci mi dedicò un pezzo in cui mi definì “cretinetto polisportivo”.
Fu in sostanza una di quelle colossali sceneggiate all’italiana durante le quali – come avrei appreso con l’esperienza – tutti si sentono obbligati a recitare con gran foga il ruolo che gli è stato attribuito senza curarsi veramente del risultato finale. L’importante, qui da noi, è apparire. L’unico che si battè per un obiettivo reale fu capitan Nicola Pietrangeli, che in Cile voleva naturalmente andarci, e alla fine, com’era logico e giusto, la spuntò lui. Il governo Andreotti non si mise di traverso e noi del tennis partimmo in tromba, me compreso, col volo “low cost” organizzato da Puli Bonomi, un uomo al quale il tennis italiano deve sicuramente qualcosa.
1 – continua

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EH, SI’… L’ITALIA E’ IN CRISI (4)

Il tennis italiano in crisi? Sentiamo che cosa ne pensano gli addetti ai lavori, cioè gli uomini delle aziende del settore, intervistati dal mensile “Il Tennis Italiano” (sì, sì: proprio quello che dedicava i propri fondi al presidente Binaghi chiamandolo “Un sardo nel buio” e che nel 2004 si schierò apertamente con il clan-Panatta nelle elezioni federali).
“Mi sembra che si possa confermare un ritorno d’interesse sul tennis, soprattutto a partire dal boom dei bambini nelle scuole – dice Riccardo Pietra della Babolat – Nei circoli che si sono dati da fare si è registrata un’affluenza notevole che non si verificava più da anni. Questo è un segnale incoraggiante. Se poi vogliamo stimare la crescita del mercato dell’attrezzo, posso dire che la nostra si attesta, in termini di quantità, tre il 15 e il 20 per cento, e penso che questo incremento rispecchi la crescita del mercato in generale. Fino all’anno scorso si parlava di una quantità inferiore ai 200.000 telai. Se oggi fossero 250.000, come crediamo, l’incremento sarebbe del 25 per cento”.
“Girando per i circoli ho potuto constatare personalmente l’aumento della gente che va in campo. – dice Francesco Tolusso della Fischer – Provando a fare una stima direi che c’è un aumento della pratica almeno del 10-15% rispetto alla passata stagione”.
Ed ecco Corrado Macciò della Head: “Il 2007 ha confermato una ripresa del mercato del tennis con un incremento del 10 per cento circa e noi ci aspettiamo che questa crescita possa proseguire. I segnali li abbiamo e sono positivi”.
Gianni Lanfranco della Prince: “La nostra sensibilità dice che la crescita 2006 e 2007 del mercato dell’attrezzo è stata tra il 10 e il 15 per cento. Sono convinto che nella prossima stagione il mercato crescerà ancora di più, anche grazie al lavoro della Federazione, in termini di pezzi venduti e di palline consumate”.
E ancora. “Ci aspettiamo che nel 2008 la ripresa del tennis si vada consolidando. Un dato che fa ritenere che sarà così sono le iscrizioni alle scuole 2007/2008, che hanno fatto segnare ancora un notevole aumento – A parlare è Mauro Monesi della Pro Kennex – Nella scuola che gestiamo a Brescia abbiamo registrato un incremento del 20% rispetto al 2006. L’aumento delle ore prenotate dal pubblico adulto, specie fra i 30 e i 45 anni, è stato veramente esponenziale negli ultimi tre anni”.
Ed infine Marco Goretti della Wilson e Matteo Bernasconi della Yonex. “Tre il 2006 e il 2007 abbiamo registrato una crescita nelle vendite dell’attrezzo interono al 10-12% e nel 2008 ci aspettiamo di continuare la striscia positiva. La mia sensazione è molto buona”, dice il primo. “Da tre anni registriamo un incremento stagionale del 20%. Il mercato è in ripresa e noi stiamo andando forte”, conclude il secondo.
Eh, sì. Tommasi e compagnia bella hanno proprio ragione: il tennis in Italia è in crisi irreversibile.

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EH, SI’… L’ITALIA E’ IN CRISI (4)

Il tennis italiano in crisi? Sentiamo che cosa ne pensano gli addetti ai lavori, cioè gli uomini delle aziende del settore, intervistati dal mensile “Il Tennis Italiano” (sì, sì: proprio quello che dedicava i propri fondi al presidente Binaghi chiamandolo “Un sardo nel buio” e che nel 2004 si schierò apertamente con il clan-Panatta nelle elezioni federali).
“Mi sembra che si possa confermare un ritorno d’interesse sul tennis, soprattutto a partire dal boom dei bambini nelle scuole – dice Riccardo Pietra della Babolat – Nei circoli che si sono dati da fare si è registrata un’affluenza notevole che non si verificava più da anni. Questo è un segnale incoraggiante. Se poi vogliamo stimare la crescita del mercato dell’attrezzo, posso dire che la nostra si attesta, in termini di quantità, tre il 15 e il 20 per cento, e penso che questo incremento rispecchi la crescita del mercato in generale. Fino all’anno scorso si parlava di una quantità inferiore ai 200.000 telai. Se oggi fossero 250.000, come crediamo, l’incremento sarebbe del 25 per cento”.
“Girando per i circoli ho potuto constatare personalmente l’aumento della gente che va in campo. – dice Francesco Tolusso della Fischer – Provando a fare una stima direi che c’è un aumento della pratica almeno del 10-15% rispetto alla passata stagione”.
Ed ecco Corrado Macciò della Head: “Il 2007 ha confermato una ripresa del mercato del tennis con un incremento del 10 per cento circa e noi ci aspettiamo che questa crescita possa proseguire. I segnali li abbiamo e sono positivi”.
Gianni Lanfranco della Prince: “La nostra sensibilità dice che la crescita 2006 e 2007 del mercato dell’attrezzo è stata tra il 10 e il 15 per cento. Sono convinto che nella prossima stagione il mercato crescerà ancora di più, anche grazie al lavoro della Federazione, in termini di pezzi venduti e di palline consumate”.
E ancora. “Ci aspettiamo che nel 2008 la ripresa del tennis si vada consolidando. Un dato che fa ritenere che sarà così sono le iscrizioni alle scuole 2007/2008, che hanno fatto segnare ancora un notevole aumento – A parlare è Mauro Monesi della Pro Kennex – Nella scuola che gestiamo a Brescia abbiamo registrato un incremento del 20% rispetto al 2006. L’aumento delle ore prenotate dal pubblico adulto, specie fra i 30 e i 45 anni, è stato veramente esponenziale negli ultimi tre anni”.
Ed infine Marco Goretti della Wilson e Matteo Bernasconi della Yonex. “Tre il 2006 e il 2007 abbiamo registrato una crescita nelle vendite dell’attrezzo interono al 10-12% e nel 2008 ci aspettiamo di continuare la striscia positiva. La mia sensazione è molto buona”, dice il primo. “Da tre anni registriamo un incremento stagionale del 20%. Il mercato è in ripresa e noi stiamo andando forte”, conclude il secondo.
Eh, sì. Tommasi e compagnia bella hanno proprio ragione: il tennis in Italia è in crisi irreversibile.

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CHE FESTA, A TORINO!

C’era un sacco di gente, oggi al circolo della Sisport, a Torino, per vedere le semifinali della Serie A1. Non meno di 1.000 persone, probabilmente di più, assiepate sulle tribunette dei quattro campi sui quali si giocavano, a coppie di due, le sfide tra Alba e Olbia e fra Capri e Bassano. E sciamanti anche fuori, nei vialetti tra campi all’aperto e capannoni indoor. Un sacco di gente che oltretutto aveva pagato il biglietto, dunque che era venuta non soltanto per trascinare in finale i piemontesi dell’Alba ma proprio per veder giocare a tennis un bel gruppetto dei nostri migliori rappresentanti e qualche straniero di buon nome.
Ci sono gli azzurri di Coppa Davis. C’è qualche vecchietto di chiara fama quali l’ineffabile Gianluca Pozzi, cui i 42 anni suonati non impediscono di muoversi sui campi veloci con la grazia felina dei suoi giorni migliori (e se non si fosse storto una caviglia poteva persino vincere…), e Davide Sanguinetti, che mi dice di avere voglia e motivazioni intatti ma un ginocchio che proprio non vuol saperne di tornare alle dimensioni e alla funzionalità originali. C’è l’eroe di Ramat Hasharon, Noam Okun, giustiziere di Italia e Cile in Coppa Davis.
Ci sono divise eleganti e tifo organizzato, un servizio di transportation a livello di Grande Slam, squadre con l’addetto stampa, giornali e tv. Applausi competenti per tutti. Ci sono la neo-signora Galimberti e Rita Grande col bellissimo figlioletto Fabio, 16 mesi e una stazza che se continua a crescere così diventa numero 1 del mondo a 18 anni. C’è persino il sole. Davvero una grande e bella festa, che domani e dopodomani, quando ci sposteremo al Palaruffini per le due finalissime, assumerà una dimensione d’eccellenza.
L’ultimo grande evento del 2007 conferma insomma che il tennis è tornato di moda anche nel nostro Paese. Non c’è stato torneo, quest’anno, che non abbia fatto il pienone. Ben vengano perciò quelli che per antico vezzo ne parlano male e quelli che se ne sono ricordati solo quando è scoppiato il presunto scandalo delle scommesse. Come dicono gli americani? “Parlate di me. Parlatene male purché ne parliate”. Appunto. Il merito di questa rinascita è anche loro.

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BECKER PROFESSIONISTA DI POKER

dal sito www.repubblica.itDimenticata la racchetta, messi in soffitta i tre trofei di Wimbledon, smessi pantaloncini, maglietta e scarpe da tennis, a 40 anni, Boris Becker si inventa una nuova carriera: gambe sotto al tavolo verde, mani sopra colonnin…

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BECKER PROFESSIONISTA DI POKER

dal sito www.repubblica.it

Dimenticata la racchetta, messi in soffitta i tre trofei di Wimbledon, smessi pantaloncini, maglietta e scarpe da tennis, a 40 anni, Boris Becker si inventa una nuova carriera: gambe sotto al tavolo verde, mani sopra colonnine di fiches, l’ex stella del tennis anni Novanta, si trasforma in professionista del poker.
Non è uno scherzo, Becker è infatti appena entrato a far parte della squadra di Pokerstars, l’azienda leader nel mondo per quanto riguarda il poker on-line e soprattutto l’organizzazione di tornei sportivi che le televisioni (a cominciare da Sky e Mediaset) trasmettono con risultati di audience non immaginabili. L’ex campione tedesco, sarà così protagonista di tutti i principali tornei che si terranno sia via internet, sia live nelle tappe che compongono il tour mondiale.
“Quando ancora giocavo a tennis professionalmente – spiega Becker – ho imparato a giocare a poker tra un incontro e l’altro, perché mi aiutava a migliorare la concentrazione. Ora voglio sviluppare le mie capacità nel poker e mettermi alla prova cercando di essere veramente competitivo nel poker al più alto livello”.
Le immagini del tennis aggressivo giocato sull’erba londinese e le sfide con Edberg e Lendl, saranno montate in un difficile gioco di spot con le scelte che Becker dovrà prendere nei confronti di avversari ben più preparati a trascorrere decine di ore al tavolo verde. “Becker è uno sportivo di fama internazionale che è divenuto celebre per il suo spirito aggressivo e per la sua competitività oltre che per il gioco sempre appassionante – spiega Tamar Yaniv, direttore del marketing di PokerStars – siamo felici che sia entrato a far parte della nostra squadra. Il suo impegno a battersi su ogni singolo punto, quando giocava a tennis, fa sì che Becker rappresenti alla perfezione lo spirito competitivo che è alla base di questo gioco”.
Becker sta ora seguendo un programma di allenamento intensivo per affinare la propria abilità al tavolo per poi impegnarsi nelle restanti tappe dello “European Poker Tour” a partire proprio dal torneo a Dortmund dal 29 gennaio al 2 febbraio 2008.

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200 VOLTE FEDERER

dal sito www.gazzetta.it MILANO – Roger Federer festeggia oggi l’ennesimo record: la 200esima settimana consecutiva da numero uno del mondo. Un periodo lungo il quale il campione svizzero ha vinto 41 tornei, su 65 ai quali ha partecipato, con un bilan…

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EH SI’…L’ITALIA E’ IN CRISI (3)

A conferma che l’Italia tennistica è in crisi, essendo soltanto quinta al mondo per numero di giocatori e giocatrici fra i Top 100 delle classifiche ATP e WTA, invito tutti a leggere l’articolo di Luca Marianantoni pubblicato oggi, 21 novembre, dalla Gazzetta dello Sport, momentaneamente disponibile anche su questo sito, nella rubrica “L’articolo del giorno”.

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