Giovedì sera, durante la Festa che ha riunito a Roma tutti coloro che vogliono bene al tennis, guardando Lea Pericoli e Nicola Pietrangeli insieme sul palcoscenico dove transitavano i nostri campioni e i vertici dello sport italiano, sono stato assalito da una tamburellante sequenza di flash-back che mi hanno riportato per qualche minuto indietro di 31 anni, ai giorni di Santiago del Cile.
Gli agenti scatenanti sono stati Lea e Nick perché figurano tra gli interpreti principali di gran parte degli spezzoni del filmato su quell’unica vittoria azzurra in Coppa Davis archiviato nel mio vecchio cervello. Purtroppo non possiedo la formidabile memoria eidetica di Rino Tommasi, e i ricordi che serbo di quella trionfale settimana non hanno alcuna organizzazione. Però domani è il compleanno della finale cilena (17-19 dicembre 1976) e siccome m’ero ripromesso di celebrare l’occasione raccontando qualche aneddoto ai più pazienti fra i lettori di questo blog, sfrutto il flusso di flash-back dell’altra sera per onorare l’impegno.
Provo ad andare con ordine, anche se non sono sicuro che corrisponda a quello nel quale gli eventi si svolsero davvero. Ricordo prima di tutto un viaggio complicato, lunghissimo. I giornalisti italiani che rivedo presenti, oltre al sottoscritto, sono Rino Tommasi ed Enrico Campana (La Gazzetta dello Sport), Alfonso Fumarola (Il Corriere dello Sport), Vittorio Piccioli (Stadio), Onorato Cerne (Tuttosport), Rino Cacioppo (La Stampa), Daniele Parolini (Il Corriere della Sera), Lea Pericoli e Silvano Tauceri (Il Giornale), Gianni Clerici (Il Giorno), Roberto Mazzanti (Match-Ball e Resto del Carlino), Mario Giobbe (Radio Rai).
Non mi sembra che ci fosse nessuno di Repubblica, che aveva meno di un anno di vita e non usciva il lunedì. Sono sicuro che l’anno dopo a Sydney, quando l’Italia affrontò in finale l’Australia, Repubblica inviò Oliviero Beha, ma non ricordo Oliviero anche a Santiago. Sono ragionevolmente sicuro, invece, che ci fosse pure Ubaldo Scanagatta (La Nazione) però non riesco a visualizzarlo. Il telecronista Rai Guido Oddo non c’era (venne pure lui a Sidney nel ’77, ma credo che, non mandandolo in Cile, la Rai dell’epoca avesse voluto tenersi fuori dalle polemiche politiche che avevano preceduto la spedizione) e fece poi la telecronaca via tubo insieme con Giampiero Galeazzi, aprendo una “finestra” sul TG1 delle 20.30 quando, sabato 18, il trionfo azzurro maturò nel doppio. Fotografi? Di sicuro Angelo Tonelli, ho qualche incertezza su Ettore Ferreri. C’era forse Granata, o lui entrò nel tennis più tardi?
Con noi c’erano anche una trentina di appassionati, la gran parte dei quali romani ( il tennis di quegli anni era soprattutto figlio dei circoli romani). Ricordo che durante la tratta Buenos Aires-Santiago del Cile vidi da finestrino l’Aconcagua, la montagna più alta del Sudamerica. Ricordo che, essendomi pesantemente schierato contro il regime di Pinochet durante la lunga e turbolenta vigilia della finale, una volta messo piede all’aeroporto avevo un po’ di paura, anche perché l’anno prima in Colombia me l’ero vista brutta per motivi analoghi durante i Mondiali di nuoto. Ricordo che invece l’ingresso nel Paese fu rapido e che tutti i cileni sembravano simpatici, sereni, cordiali.
Se non ricordo male, in tutta la settimana che rimanemmo laggiù soltanto Tauceri e Parolini passarono un brutto quarto d’ora quando, avendo scattato delle foto a dei poliziotti di guardia a una installazione militare, vennero inseguiti e fermati (dovettero consegnare il rullino). Gli italiani emigrati in Cile ci invitavano a casa loro. Una sera finimmo in una villa dove si beveva “pisco sour” (un’aguardiente locale miscelata a succo di limone), si mangiava pasta scotta, si cantavano struggenti canzoni andine dedicate ai condor e si giocava a biliardo sotto lo sguardo severo di un busto di Mussolini.
Ricordo il centro di Santiago addobbato per Natale e lo strano effetto che facevano gli abeti spruzzati di neve finta in un posto dove c’erano quasi 30 gradi di temperatura. Ricordo Lea Pericoli con i capelli tenuti indietro da una fascia colorata e, accanto a lei, il sorriso dolce ed enigmatico di Bitti Bergamo, lo sfortunato Bitti che nel 1978 avrebbe preso il posto di Nicola Pietrangeli sulla panchina azzurra e che nel 1979, quando stavamo preparando la trasferta di San Francisco (terza delle quattro finali giocate da quella squadra), morì sull’autostrada perché un TIR gli fece un’inversione a U davanti, mentre diluviava. Ricordo i giornali locali dare un sacco di spazio all’evento, intervistando anche noi ospiti italiani (me compreso: solo che mi fecero dire quello che gli pareva, non quel che avevo detto io). Un quotidiano dedicò una doppia pagina al servizio di Panatta, analizzandolo con una sequenza fotografica sotto al titolo “El tremendo saque del senor Panatta”).
Ricordo lo Stadio Nacional – quello di cui i golpisti di Pinochet avevano fatto un campo di concentramento – come un bell’impianto con spalti ovali dipinti di bianco e celeste, non affollatissimo ma con un pubblico caldo e abbastanza competente. Gridavano “Ci-ci-cì! Le-le-lè! Vi-va-ci-le!” e battevano le mani a tutti, a partire dai nostri. Enrique Morea, il gran signore argentino che svolgeva il ruolo di giudice arbitro, non dovette fronteggiare alcun problema.
Ricordo che il clan azzurro si portava dietro le sue tensioni e le sue divisioni (Panatta e Bertolucci da una parte, Barazzutti e Zugarelli dall’altra, Pietrangeli nel mezzo e Belardinelli, uomo di campo, tirato per la giacca da tutte le parti perché c’era appena stato il rinnovo delle cariche federali ed a quell’epoca la “politica” non era semplice e lineare come adesso). A un certo punto Belardinelli si prese un’arrabbiatura storica che lo portò per qualche ora in ospedale.
Poi tutto andò come doveva andare. Barazzutti penò un pochino contro il numero 1 cileno Jaime Fillol, che aveva pure un piccolo stiramento ai muscoli addominali, ma vinse in quattro set quello che era l’incontro sulla carta più difficile della finale. Dopo, il cammino fu tutto in discesa. Panatta lasciò sette games all’indio Patricio Cornejo, nero nero e non attrezzato a competere a quel livello (non dimenticate che il Cile era arrivato in finale solo grazie al fatto che l’URSS s’era rifiutato di incontrarlo). Un po’ di braccino fece perdere il primo set del doppio a Bertolucci e Panatta e li fece penare fino al 9-7 nel terzo, ma poi tutto andò come doveva e alla fine eccoli lì, i nostri eroi, a fare il giro di campo con l’insalatiera e il tricolore, le mani sulla Coppa, Nick sulle spalle, immagini che irruppero in diretta anche nelle case italiane grazie al TG1, un evento mai verificatosi prima nel nostro Paese.
Curiosamente non ricordo come festeggiammo quella sera. Ricordo le solite litigate del giorno dopo per chi doveva giocare a risultato acquisito (oltretutto la consuetudine di passare al due su tre in situazioni del genere non era ancora stata inventata – la inventò Pietrangeli in Spagna l’anno successivo, mi sembra) e che alla fine Panatta dovette scannarsi con Fillol per vincere 10-8 al quarto set mentre l’ombroso Zugarelli perse in tre set secchi con la riserva cilena Prajoux, un brevilineo peloso di mediocre livello.
Ricordo una ripartenza davvero caotica, con il nostro aereo che si rompe sulla pista e l’assalto all’arma bianca a un DC-10 della Swissair parcheggiato lì accanto (“Ai mejo posti!”, come gridava Aldo Fabrizi nei film della famiglia Passaguai saltando sul trenino Roma-Ostia). Ricordo tre giorni di meravigliosa vacanza a Rio de Janeiro e le strepitose vittorie all’italiana ai danni dei giovanotti locali nelle partite di beach-soccer sulla spiaggia di Copacabana: Cacioppo, ex pallavolista, in porta (“Zoff! Cioff!”, lo sfottevano gli avversari), Pietrangeli libero in difesa a intercettare palloni e a rilanciarli con il piede fatato verso l’unico che corresse, Barazzutti, in una letale esecuzione del più classico schema catenaccio-contropiede.
E infine, tutti a casa. A Fiumicino, quando atterrammo con la Coppa, c’erano solo i parenti che erano venuti a prenderci.
2 – continua
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