SUPERMARIO E L’URNA MALEDETTA

Alla fine SuperMario Ancic riempie di spine la poltrona sulla quale per due giorni mi sono spremuto ed illuso, coronando il maligno disegno del Fato. Vuolsi così colà dove si puote, e neppure la solidità della nostra giovane squadra può opporsi a quan…

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SUPERMARIO E L’URNA MALEDETTA

Alla fine SuperMario Ancic riempie di spine la poltrona sulla quale per due giorni mi sono spremuto ed illuso, coronando il maligno disegno del Fato. Vuolsi così colà dove si puote, e neppure la solidità della nostra giovane squadra può opporsi a quanto l’ennesimo sorteggio dispettoso aveva predisposto, opponendoci in trasferta ai campioni del mondo del 2005.
A settembre la Croazia avrà l’occasione per tornare là dove i suoi grandi atleti meritano ampiamente di stare, mentre noi – che poi tanto più scarsi di loro abbiamo dimostrato di non essere – dovremo vedercela con la Lettonia per non scendere dal purgatorio del Gruppo I all’inferno del Gruppo II.
La prestazione di SuperMario non solo conferma che la guarigione dalla mononucleosi (una volta detta “malattia del bacio” ma ormai a pieno titolo degna del soprannome di “malattia del tennista”, visto che uno alla volta se la stanno prendendo tutti) restituisce al Grande Circo un giovane campione che ha tutto, ma proprio tutto, per dire la sua in questa fase di vertiginosa transizione al vertice, ma rappresenta anche un esempio da imitare per i nostri giocatori e i nostri coach. L’Italia è cresciuta tanto, però per diventare vincenti come Ancic gli spazi di miglioramento sono ancora vasti. Ci vogliono lavoro, poi altro lavoro e infine ancora tantissimo lavoro. Solo così neppure gli scherzetti londinesi del destino ci impediranno di tornare prima o poi lì dove, per valore complessivo del nostro movimento, meriteremmo di stare assai più di certi Paesi di cui l’urna, e forse non solo quella, è sempre stata amica.

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GIULIANO AMATO: POLITICA E TENNIS

Giuliano Amato, Ministro degli Interni, è l’uomo del giorno. Penso dunque possa essere interessante rileggere l’intervista che mi rilasciò perché venisse pubblicata sul numero di giugno 2006 del mensile federale “SuperTennis””MAGARI LA POLITICAFOSSE C…

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GIULIANO AMATO: POLITICA E TENNIS

Giuliano Amato, Ministro degli Interni, è l’uomo del giorno. Penso dunque possa essere interessante rileggere l’intervista che mi rilasciò perché venisse pubblicata sul numero di giugno 2006 del mensile federale “SuperTennis”

“MAGARI LA POLITICA
FOSSE COME IL TENNIS”

di Giancarlo Baccini

Giuliano Amato è uno di quegli uomini piccoli fuori e grandi dentro, tanto grandi da avere spazio a sufficienza per un sacco di cose. Tra le cose meno voluminose, ma non per questo meno ingombranti, che Amato si porta dentro c’è sicuramente il tennis, che egli pratica e ama sin da bambino e che oggi lo vede attivo presidente di un attivissimo Circolo, quello di Orbetello, quattro campi che stanno per diventare otto. Per parlare di tennis, il presidente Amato accetta di sottrarre, non senza ghiottoneria, uno spicchio tempo all’agrodolce arancia della politica. Le due passioni non sono, almeno in lui, inconciliabili.
“Eh, sì – racconta, per spiegare – Cominciai a giocare a tennis per strada, con un amico, quando avevo dieci-undici anni. A quell’epoca c’erano ancora strade dove due ragazzini potevano tirarsi palline con una racchetta dalle tre alle cinque del pomeriggio senza che passasse una sola macchina. Poi approdai ai campi veri e propri. Un minimo di talento ce l’avevo e arrivai a sostenere le piccole fatiche agonistiche delle competizioni fra circoli. Ci portava in giro a giocare, con la macchina, un avvocato appassionato di tennis. Talvolta ci spostavamo in autobus. Fu così che m’innamorai di questo sport.
“Certe volte, con un po’ di presunzione, penso che se avessi seriamente coltivato il tennis magari sarei potuto diventare un buon giocatore. Invece mi sono messo a fare cose diverse e così quando oggi sono in campo ho sempre la sensazione che avrei potuto far molto meglio di ciò che faccio, che non è un granché… Inoltre, invecchiando e rimanendo appassionato di tennis come sportivo oltreché come praticante, mi sono accorto che ero e sono capace di passare tre ore a guardare una partita di tennis mentre non resisterei dieci minuti davanti a una partita di calcio.
“Da italiano ho constatato, come altri, che abbiamo un grande bisogno di far emergere tutti i talenti di cui potenzialmente disponiamo e dunque di coltivare il più possibile il tennis giovanile. In fondo è stato proprio questo che mi ha spinto ad assumere la presidenza di un circolo e ad orientarlo da una parte verso l’addestramento dei più piccoli e dall’altra verso l’organizzazione di tornei che, oltre a essere spettacolari in sé, potessero funzionare da richiamo per i giovanissimi e stimolarli a dedicarsi al nostro sport. Il mio sogno è di vedere a Wimbledon, un giorno, tanti italiani quanti argentini si sono visti quest’anno al Roland Garros”.
– Cosa pensa sia mancato, al tennis italiano, perché lei potesse aver già coronato questo sogno?
“Beh, intanto va detto che abbiamo avuto una Federazione che per decine di anni ha fatto il verso al mondo della politica. Troppi litigi, troppe contrapposizioni. Questo alla lunga finisce per pesare sul funzionamento di un’istituzione. Poi per ragioni che mi sfuggono: non ho vissuto il tennis sufficientemente dall’interno. Ma, ripeto, la mia impressione è che non si sia sufficientemente coltivato il serbatoio. Infine ci sono anche fatti oggettivi che hanno avuto un loro peso. Mi spiego meglio: io sono fra quelli convinti che quando il nostro Paese era un po’ più povero si trovavano più giovani disposti a fare sul tennis una scommessa di vita. Via via che cresceva il benessere, invece, ci siamo trovati con ragazzi che imparano dal maestro e quando hanno imparato abbastanza per fare buona figura al circolo si fermano e si dedicano ad altre cose. Intendiamoci, si tratta di uno sviluppo positivo per il Paese: non sto dicendo che stavamo meglio quando eravamo poveri. Sto dicendo che quando manca la spinta “sociale” devi intervenire tu, organismo istituzionale, a promuovere fra i giovani condizioni che li ‘portino a…’.
“E’ proprio da questo punto di vista che, mi pare, c’è stata una prolungata assenza della Federazione e che soltanto di recente quest’ultima abbia modificato il suo approccio al problema, lanciando i Piani Integrati di Area. Sono stato fra i primi a verificare in concreto il buon funzionamento dei P.I.A. Ma il fatto che si sia finalmente sentita l’esigenza di dar vita a un progetto di questo tipo sta a dimostrare che prima non s’era fatto abbastanza.
“Aggiunga un terzo elemento che inconfutabilmente conta. L’effetto imitativo è importantissimo per creare attaccamento a uno sport. Se hai dei grandi campioni che stanno sulla scena mondiale questo effetto è elevato, quando li perdi i ragazzi guardano altrove. E’ capitato al tennis, ma anche ad altri sport. Pensi solo allo sci”.
– Lei che è un uomo di Stato non crede che ci sia anche una responsabilità delle istituzioni nel tenere i giovani lontano dallo sport praticato?
“Il problema c’è, e naturalmente riguarda la Scuola. La nostra è una Scuola che soltanto ora, raggiunto il traguardo dell’autonomia, grazie alle singole iniziative degli insegnati che ci credono ha cominciato – sia pur a macchia di leopardo – a riscoprire lo sport come grande fattore formativo. Ma è indiscutibilmente vero che nella nostra tradizione di Scuola centralizzata dal centro non sono mai venuti particolari impulsi perché accanto al greco, al latino o alla storia venisse coltivato e insegnato lo sport. Al di fuori di ogni retorica, lo sport è formativo da tanti punti di vista, a cominciare dal fatto che, mettendoli assieme, evita ai giovani i rischi della solitudine”.
– Tornando a noi: com’è successo che ha accettato di diventare presidente di un circolo?
“E’ successo perché io vivo in Maremma, ad Ansedonia, ormai da trent’anni. Per giocare a tennis cominciai perciò a frequentare regolarmente il club di Orbetello, dove c’era un clima particolarmente simpatico perché il circolo era, ed è, mio, dell’infermiere, del commercialista, del dottore, insomma di gente che ama il tennis ed è attaccata all’ambiente. Siamo tutte persone che con il loro volontariato hanno fatto del club un vero luogo di incontro e di vita sociale. A un certo momento i consoci me lo chiesero, e io accettai volentieri perché mi piaceva assumere un ruolo anche organizzativo, avendo nella testa l’idea di cui accennavo prima: puntare ai giovani raccordandosi con la Scuola e organizzando eventi. Ecco perché sono rimasto così soddisfatto nel vedere che l’anno scorso alla nostra scuola tennis si sono iscritti 90-100 bambini. Magari non tutti continueranno per sempre a giocare, ma se fra loro ce n’è qualcuno con delle qualità noi saremo in grado di scoprirlo e lo potremo così incoraggiare a impegnarsi a fondo.
“Per quanto riguarda i tornei internazionali, devo dire che l’iniziativa è purtroppo partita, anni addietro, in seguito a un evento doloroso. Uno dei nostri soci più in vista, il dottore commercialista Benito Grassi, morì, inaspettatamente perché era ancora giovane, facendo footing. Questo ci gettò nella costernazione, ma ci spinse anche a trovare un modo per ricordarlo. Poiché Grassi amava moltissimo il tennis, decidemmo di dar vita a un torneo importante che fosse intitolato al suo nome. Cominciammo con un torneo WTA da 10.000 dollari, trovando anche gli sponsor. Avemmo subito una buona partecipazione, con giocatrici fra la centesima e la quattrocentesima posizione in classifica mondiale, e col passare degli anni questa cosa si è consolidata. Grande interesse di pubblico. Grande capacità di gestire in modo familiare, direi quasi affettuoso, il rapporto con le giocatrici, facendole sentire a casa loro e spingendole così a ritornare ad Orbetello, magari in compagnia dei genitori, come è talvolta accaduto con qualche ragazza dell’est europeo che non disdegnava la mensa del circolo e restava volentieri anche se perdeva nei primi turni…
“Nato bene, il torneo è cresciuto meglio. Ora è diventato un bel 75.000 dollari e, in appena dieci anni, si è ritagliato un suo posticino fra i tornei di un certo rilievo nel mondo. Pensate solo alla Miskina, vincitrice dell’ultimo Roland Garros: nel 1999 la battezzammo proprio noi, anche se perse la finale contro la Dell’Angelo. L’ho ricordato poche sere fa a Gianni Clerici: una volta, mentre commentava in tv un torneo del Grande Slam insieme con Tommasi, scopersi di saperne più di loro, perché mentre loro non erano in grado di dire granché su una delle giocatrici in campo, una colombiana, io la conoscevo perfettamente. Era la Zuluaga, che aveva vinto ad Orbetello proprio quell’anno e che la mattina della finale ci aveva costretti a cucire con le nostre mani, in fretta e furia, una bandiera della Colombia perché non ce l’avevamo. Un’altra che è venuta da noi è la Schiavone. E sono venute la Pennetta e la Garbin. Adriana Serra Zanetti non si perde un’edizione e torna tutti gli anni. Certo, quelle che diventano molto forti poi non le vediamo più, ma la nostra missione è fare da ponte verso il futuro e perciò vederle approdare a un Grande Slam è una grande soddisfazione.
“Quest’anno al torneo femminile WTA abbiamo abbinato l’Europeo Under 16, del che devo ringraziare la Federazione, perché senza il suo intervento diretto non sarebbe stato possibile ottenere un torneo ufficiale di così grande importanza. Per me è la realizzazione della mia visione del tennis, perché ci troveremo a gestire un evento-chiave di quella fase in cui i giovani giocatori cominciano a passare dai tornei di categoria al grande tennis. Purtroppo per questa prima volta mi sono dovuto accontentare della prova maschile, anche perché stiamo ancora lavorando alla realizzazione di nuovi campi, ma conto di riuscire ad avere, l’anno prossimo, anche quella femminile, come d’altronde la stessa Federazione Europea vorrebbe che avvenisse”.
– Ma secondo lei ci sono affinità nella dialettica agonistica fra due giocatori che si scambiano colpi ai due lati di una rete e la dialettica politica?
“Assolutamente sì, almeno quando la dialettica politica è al suo meglio, perché quando è al suo peggio corrisponde a sport assai più brutali. Ecco, diciamo anzi che quando è al suo meglio la polemica politica ‘si merita’ di assomigliare al tennis, perché il tennis, quando è un buon tennis, è un gioco basato largamente sull’intelligenza, sulla mossa che sorprende l’avversario, sul colpo non ‘sporco’ ma pulito, limpido, chiaro che manda la palla in un punto del campo dove non arrivano le gambe dell’avversario. Il tennis ha una dinamica che sarebbe utile poter trasferire alla politica, perché nel tennis i fatti sono i fatti e non si può trasformare un fatto in un’opinione mentre il viziaccio della politica è che tende a prevalere sui fatti e a far diventare tutto opinabile. E’ vero che un tempo qualcosa del genere accadeva anche nel tennis, quando la palla cadeva nei pressi della riga, ma oggi le tecnologie che tutto vedono e ricostruiscono hanno eliminato anche questo tipo di problema”.
– Il politico Amato sino a che punto somiglia al tennista Amato?
“Beh, mi è sempre piaciuto pensare che mi chiamano il ‘Dottor Sottile’ proprio in omaggio a caratteristiche che si riflettono anche nella mia visione del tennis. Ancor oggi, a dispetto degli anni, preferisco giocare il singolo anziché il doppio proprio perché il singolo ti consente di stabilire in piena libertà d’azione una dialettica con l’avversario per poi, quando è il momento giusto, schiacciarlo”.
– Va qualche volta a rete o preferisce stare a fondo campo?
“No, no: io tendo ad andare avanti, anche se col passare degli anni mi capita sempre più spesso di essere troppo lento nell’attaccare e mi faccio cogliere a metà strada. Ma intendiamoci: adesso sto parlando soltanto di tennis…” .
– Il suo tennista preferito?
“Sono abbastanza vecchio da aver avuto la fortuna di ammirare il grande Drobny”.

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E ADESSO PARLIAMO DI CAMPIONATI A SQUADRE

Uno dei più fedeli e attenti membri della piccola comunità creatasi attorno a questo piccolissimo blog, “giggetto”, sollecita l’apertura di una discussione attorno al tema dei “Campionati a squadre”. Vista la vivacità del dibattito che si è acceso sul tema della riforma dei tabelloni individuali, lo accontento subito, limitandomi a introdurre l’argomento con la constatazione che – così come la partecipazione ai tornei, che è in vertiginosa crescita ormai da parecchio tempo – anche il numero delle squadre iscritte ai vari campionati è di anno in anno più grande.

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E ADESSO PARLIAMO DI CAMPIONATI A SQUADRE

Uno dei più fedeli e attenti membri della piccola comunità creatasi attorno a questo piccolissimo blog, “giggetto”, sollecita l’apertura di una discussione attorno al tema dei “Campionati a squadre”. Vista la vivacità del dibattito che si è acceso sul…

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E ADESSO PARLIAMO DI CAMPIONATI A SQUADRE

Uno dei più fedeli e attenti membri della piccola comunità creatasi attorno a questo piccolissimo blog, “giggetto”, sollecita l’apertura di una discussione attorno al tema dei “Campionati a squadre”. Vista la vivacità del dibattito che si è acceso sul tema della riforma dei tabelloni individuali, lo accontento subito, limitandomi a introdurre l’argomento con la constatazione che – così come la partecipazione ai tornei, che è in vertiginosa crescita ormai da parecchio tempo – anche il numero delle squadre iscritte ai vari campionati è di anno in anno più grande.

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LA LOVE STORY DI LEA

Intervista con Lea Pericoli apparsa su “SuperTennis” nel 2006

di Giancarlo Baccini

Qualche settimana fa Lea Pericoli è stata insignita di un importante premio dalla Federazione Internazionale Tennis, diventando la prima donna italiana a ricevere un’onorificenza tanto prestigiosa. “Per i servizi resi al Gioco”, dice la motivazione, mirabilmente sintetizzando una vita interamente dedicata, prima da giocatrice e poi da giornalista, al nostro sport.
Certo, è quantomeno singolare che a rendere giustizia alla First Lady del tennis tricolore sia dovuta intervenire la massima organizzazione mondiale mentre l’intellighenzia nazionale l’ha sempre trattata con un pizzico di snobismo, a naso arricciato. Magari a Lea non hanno giovato, nell’inquadrare questo rapporto, la familiarità ai tempi in cui giocava e la rivalità professionale quando è diventata la prima telecronista delle cosiddette “tv private”, ma sta di fatto che sono davvero risicati, e non privi di qualche acida pennellata, i ritratti che i nostri più acclamati storici ne han tracciato nelle loro opere.
Tanto per fare un esempio, ecco le uniche righe che Gianni Clerici le ha dedicato nel suo pur voluminoso capolavoro “500 anni di tennis”:
“Per alcuni anni avevamo dovuto accontentarci di un’attenzione non solo sportiva, propiziata dall’apparire di Lea Pericoli, splendente nelle più audaci toilettes di Teddy Tinling. Il giorno prima di Wimbledon, tra i verdi fondali del club di Hurlingham, Lea appariva in tute trapuntate d’oro, sottanine piumate, trafori, reti, lamé sconvolgenti. Non mancava mai, la sua foto, sui giornali inglesi della domenica, e ci consolava un tantino della sua imminente eliminazione, perché la Pericoli fu certo più affascinante donna che grande tennista.
“Sui nostri campi rossi, di fronte ad avversarie infinitamente meno attrezzate, il suo piglio di ragazza di campagna, cresciuta tra Nairobi e Addis Abeba, era sufficiente a sgominarle tutte. Contro le amazzoni, Lea giocò qualche stupenda partita con le sue armi di autodidatta”.

Dal canto suo, in “Storia del Tennis” (1983), Rino Tommasi arriva a ridurne il ritratto a una sola riga di piombo: “Lea Pericoli ha imposto la sua superiorità e la sua personalità nei nostri confini”.
E invece Lea Pericoli è stata splendida ambasciatrice del tennis tricolore e con il suo charme, il suo calore e il suo sempre positivo entusiasmo ha giovato all’immagine del nostro movimento e alla diffusione del Gioco molto più di certi pessimisti di professione. Sebbene non sia stata forte come le eroine tricolori contemporanee, tipo Silvia Farina e Francesca Schiavone, ancor oggi chi pensa al tennis femminile italiano pensa prima di tutto a lei. Perché per la gente comune lo sport non è soltanto arida somma aritmetica di successi, non è statistica: è cuore. E la storia d’amore fra Lea e il tennis ha una grandezza epica impossibile da non avvertire nel profondo.
“Il mio amore per il tennis non ha confini. E’ stata una vera, smisurata, emozionante passione – racconta lei – La cosa che più sorprende anche me è che non accenna a diminuire. Nella vita tutto può finire, e spesso, anzi, sono proprio i grandi amori quelli che si bruciano più in fretta nel fuoco della passione. Se non ci fosse ‘sta storia con tennis io all’amore eterno avrei già smesso di crederci. Pensa che l’amo così tanto da aver deciso di smettere di giocare non appena mi sono resa conto di non essere più in grado di onorarlo a modo mio. Il giorno dopo aver vinto gli ultimi tre dei miei ventisette titoli italiani mi son detta: ‘Basta gare!’. Da allora, solo attività di club. E mai contro altre donne.”.
– Come è cominciata, la love story?
“Cominciò dopo la guerra, quando, ritornando indietro dall’Asmara dove eravamo sfollati, mio padre ci riportò ad Addis Abeba. Nel giardino della grande, splendida villa in cui andammo vidi per la prima volta un campo da tennis. Avevo nove anni. Il tennis mi folgorò subito. E’ un gioco bellissimo, in cui si assommano la forza, la tecnica, l’intelligenza, il coraggio. Non ti sazia mai. Il sabato e la domenica venivano a giocare in tanti. Notabili, ambasciatori… Stavo lì a guardare, affascinata, e aspettavo il momento giusto per fare anch’io quattro palle. Passo dopo passo, sono diventata una giocatrice ‘vera’”.
– Anche se all’epoca non c’era il professionismo, essere giocatrici ‘vere’ significava essere come le superstar di oggi, con tutto il corollario di fatica, di stress che il tennis di vertice comporta. Come si conciliava tutto questo con la pura e semplice passione amorosa?
“Come nella vita: l’amore spesso significa angoscia. Figurati!… Io ho sempre avvertito molto forte la pressione del gioco. I campionati italiani ‘dovevo’ assolutamente vincerli. Sai, all’epoca il titolo tricolore era quello più prestigioso. Te lo portavi dietro per un anno. Ci tenevamo tutti tantissimo. Pensa solo a Raul Gardini, che ci si faceva venire l’esaurimento nervoso ma che grazie alla combattività raggiungeva risultati impensabili contro avversari molto più dotati di lui. Insomma: era durissima. Ricorda che io di titoli ne ho vinti ventisette. Caprai da solo che cosa può aver comportato, a fine carriera, conquistare gli ultimi contro ragazze molto più giovani e potenti di me. Certe volte andare in campo era come accingersi a vivere in prima persona una tragedia greca. Ad aiutarmi, per fortuna, c’era il pubblico, che ha sempre tifato per me. Il segreto per farcela era in realtà la mia grande ambizione. L’ho scoperto in maturità, di essere così spaventosamente ambiziosa, e di tenere assai ai miei record, tipo quello dei chilometri percorsi in campo. Conservo ancora un articolo in cui Tommasi sosteneva che dopo due ore di gioco neppure Paola Pigni era in grado di correre come me. La forza del mio amore e della mia ambizione sono testimoniate proprio dal fatto che all’epoca correvo come un demonio mentre adesso che non gioco più sono diventata la donna più pigra del mondo. Insomma, il desiderio di primeggiare compensava l’angoscia e alimentava l’amore”.
– Oltre che per le tue doti di agonista tu, comunque, sei stata famosa anche, se non soprattutto, per lo charme che ha sempre contraddistinto la tua presenza in campo. I giornali inglesi ti mettevano in prima pagina con i tuoi celebri vestitini. Quando te li facevi fare da Teddy Tingley eri mossa dall’ambizione di figurare o da altri motivi?
“Sì, lo facevo per farmi notare, per essere diversa dalle altre. Ancor oggi non concepisco il motivo che spinge i tennisti a sembrare tutti uguali. Il tennis è uno sport che ti insegna a essere solo, a cavartela da solo. Anche il look serve a sottolineare questa unicità, questa solitudine. Io sono sempre stata una solitaria. Pensa a Panatta, che ai suoi tempi girava sempre con due-tre scagnozzi al seguito: beh, io mi sarei messa sotto a un mattone piuttosto che fare altrettanto. Tu mi hai mai visto con qualcuno al seguito?”.
– No. Però ho girato mezzo mondo con te e tutto mi sei sembrata tranne che una misantropa…
“Che c’entra? Quel che voglio dire è che ho sempre preteso di camminare con le mie gambe, non che non mi piace stare in compagnia. Non mi va di essere uniformata agli altri, e il fatto di vestirmi in modo eccentrico mi divertiva molto. Vedere la mia foto sui giornali mi piaceva. E poi, lo confesso, ero anche abbastanza furba, in questo gioco. I ‘vestitini’ me li mettevo soltanto quando sapevo che avrei vinto. Sai, col mio modo di giocare era impossibile che venissi battuta da qualcuna più debole di me, e magari qualche volta, invece, ero io a riuscire a battere qualcuna delle più forti. Così guardavo il tabellone, mi dicevo ‘qui si vince-qui si vince-qui si perde’ e sceglievo la tenuta giusta. Non si può scendere in campo coperte di piume di cigno e perdere”.
– Il fatto di essere una bella donna e di farti notare ti ha aiutata, prima in campo e poi nella vita?
“Mi ha aiutato tantissimo, perché allora, sennò, come cavolo facevi a far parlare di te? Nel tennis le donne venivano giudicate figlie di un dio minore, noiose da guardare… Invece io venivo invitata dappertutto perché giocassi nei tornei. Caraibi, Russia, Sudamerica… Manco avessi vinto Wimbledon! Viaggi che a quei tempi te li sognavi. E poi, sì, anche nella vita avere un po’ di charme aiuta. Se la scelta è fra una bella e una brutta ci sono pochi dubbi su come va a finire. Oggi comunque le donne hanno a disposizione molti mezzi per diventare più belle di quel che sono in realtà, dunque distinguersi è più difficile”.
– E’ anche per questo che sei stata fra le primissime ex-atlete che sono diventate giornaliste?
“Sì, sono stata abbastanza fortunata. Quando Montanelli fondò ‘Il Giornale’ mi chiamarono e la mia ambizione mi spinse a fare questo salto nel buio: allora non sapevo se sarei riuscita o no, anche se credevo in me stessa. Da cosa nasce cosa. E sono diventata anche la prima donna a fare delle telecronache sportive. Questo però fu una donna, a chiedermelo. Avevo un accordo con la Tv svizzera per fare dei servizi sul tennis femminile da Wimbledon, ma all’improvviso mi chiamò madame De Covingny, di TeleMontecarlo, e mi chiese di fare le telecronache di tutto il torneo. Proprio tutti i match, tutto il giorno e tutti i giorni, da sola. Lì per lì provai paura all’idea di accettare ma poi mi convinsi che era un’opportunità più unica che rara e accettai di correre questo rischio”.
– Se dovessi scegliere fra i tuoi ricordi da giocatrice e quelli da giornalista, quale diresti che è stata la parte più soddisfacente della tua vita?
“Beh, ci ho scritto su anche un libro, ‘Questa bellissima vita’, che ha vinto il Premio Bancarella Sport. Sono una donna fortunata. Ho avuto una vita meravigliosa. Ancora oggi ho delle soddisfazioni enormi. Io credo che se hai dentro una scintilla che ti fa amare le cose, che ti dà passione, tutto diventa bello. Il tennis mi ha dato grandissime soddisfazioni, specie considerando i mezzi che la natura mi aveva messo a disposizione e il fatto che mio padre non voleva che giocassi, per cui dovevo guadagnarmi da vivere lavorando. Segretaria d’azienda, ché parlavo perfettamente inglese e francese, dattilografa, pubblicità e Caroselli: tanti mestieri. Sennò dove li trovavo i soldi per andare a Wimbledon? Mica mi pagava nessuno… Però sono stata ricompensata. Pensa soltanto a questo bellissimo premio che la Federazione Internazionale ha voluto darmi! Per me è stata una gioia immensa apprendere di essere stata premiata ‘per i servizi offerti al Gioco’, scoprire che il Tennis prova riconoscenza nei miei confronti”.
– D’altronde, nel corso della tua vita hai fatto tanto anche nel campo della solidarietà, non soltanto per il Tennis…
“Sì, ma la mia attività in favore dell’Associazione per la Ricerca sul Cancro è una forma di riconoscenza verso chi mi ha aiutata a guarire da una malattia così terribile. Quando seppi di essere malata pensavo davvero di morire, e io della morte ho paura. Così, sono più di trent’anni che do il mio piccolo contributo alla lotta contro il cancro”.
– C’è qualcuno, nel tennis di oggi, in cui in qualche misura rivedi te stessa?
“No. Non del tutto, almeno. Confesso un piccolo debole per Maria Sharapova. E’ così bella, solare, dorata, ‘presente’ sul campo. Mi piace anche la Mauresmo. E mi piacciono le nostre ragazze. La Pennetta è una delizia. La Schiavone è così dinamica, così anticonvenzionale, un po’ strana forse, e complicata, comunque notevole”.
– Tu hai vissuto dal di dentro, o comunque da vicino, molte delle epoche del tennis italiano. Sapresti riassumere in poche frasi questo lungo percorso?
“Dobbiamo essere orgogliosi del nostro tennis. Nel corso della sua storia ci ha dato grandissime, bellissime soddisfazioni. Sebbene sia strano che molti dei nostri più celebri campioni – Cucelli, Nicola, io stessa – siano nati all’estero, i talenti non ci sono mai mancati, e uno diverso dall’altro. Pensa alla grinta di Gardini, all’estro ingovernabile di Beppino Merlo, alla baldanza di Panatta. Credo che abbiamo veramente dato al tennis mondiale qualcosa di molto vicino all’arte. Chiaro che ci sono gli alti e i bassi. Adesso stiamo venendo fuori da un periodo difficile piuttosto lungo, in cui fra l’altro il tennis è stato un po’ dimenticato. Non siamo i soli, intendiamoci: pensa agli inglesi, che hanno Wimbledon e un sacco di soldi ma pochissimi giocatori, sia di vertice sia di club.
“La cosa che più mi rende felice è che, sebbene le epoche da me attraversate siano davvero tante, non ho mai avuto dei nemici. Nel tennis italiano mi hanno sempre voluto tutti bene e sono rimasta fuori da ogni polemica, a cominciare da quelle politiche. Dunque mi considero una privilegiata e ho grandissima riconoscenza sia per i dirigenti di oggi che per quelli di ieri. Galgani, per esempio, mi considerava la sua reginetta e oggi, dal canto suo, Binaghi mi consente di avere un ruolo di ambasciatrice cui tengo moltissimo.
“Mi considero fortunata anche per questo: perché il tennis mi ha regalato così tanti cari amici”.

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TOTTI: “IO E IL TENNIS”

da SuperTennis / anno 2004

di Mimmo Ferretti

Francesco Totti, capitano della Roma, leader della Nazionale di Giovanni Trapattoni che fra pochi giorni terrà l’Italia incollata davanti ai televisori tentando di conquistare il titolo europeo in Portogallo. Uno dei campioni più amati dagli sportivi del nostro Paese, e non soltanto per quanto combina su un campo di calcio. Di lui, la gente apprezza anche la sensibilità che mostra nei confronti dei bambini e degli anziani: qualche settimana fa, ha donato ai meno giovani della Capitale parte dei proventi del suo ormai famoso libro di barzellette. E, intorno a Natale, aveva destinato un somma simile all’Unicef, di cui è ambasciatore. Un campione a trecentosessanta gradi che in quest’intervista parla della sua passione per il tennis, sport amato e praticato fin dagli anni dell’adolescenza.
– Il suo rapporto con il tennis?
“Di amicizia, se così posso dire…”.
– Cioè?
“Gioco a tennis da quando avevo dodici, tredici anni. Mi piace molto, anche se non sono propriamente un campione”.
– Come ha cominciato?
“Tutto merito (o colpa) di mio zio Alberto, che qualche anno fa frequentava un circolo dalle parti della Laurentina, il TC Le Querce: siccome a me piaceva fare qualsiasi tipo di sport, ogni tanto – quando il tempo era bello – mi portava con sé Così, molto semplicemente, ho cominciato a giocare”.
– Mai preso una lezione?
“No, niente lezioni se non i consigli di zio Alberto”.
– Il suo stile di gioco?
“Me la cavicchio con il dritto, mentre con il rovescio sono meno bravo. Ma posso migliorare”.
– Sfide con qualche suo collega?
“L’estate scorsa, quando eravamo in ritiro a Irdning, in Austria, nel giorno di riposo che ci aveva concesso Capello io e Candela ci siamo sfidati in una doppia partita di tennis. Un avvenimento vero e proprio, ripreso dalle telecamere di Roma Channel. Così, tutti i tifosi hanno potuto vedere anche il Totti tennista”.
– Chi ha vinto?
“Ho fatto vincere il mio amico Vincent…”.
– Il suo tennista preferito?
“Il brasiliano Kuerten. Mi piace la sua fantasia. L’ho visto giocare parecchie volte agli Internazionali di Roma e, un paio di anni fa, è venuto a trovarci a Trigoria. A proposito: mi è stato chiesto più volte di ‘esibirmi’ al Foro Italico ma, finora, non me la sono mai sentita. In futuro, non è detto…”.
– E’ vero che quest’anno potrebbe giocare contro Federer?
“Me ne hanno parlato… So che lo svizzero mi stima moltissimo e, se capiterà l’occasione, mi farà molto piacere incontrarlo. Per stringergli la mano, non certo per fare due scambi…”

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IL DOTTOR DIVAGO

Per arricchire un pochino questo blog, che sempre più spesso risente della mancanza di tempo da dedicargli, ho pensato di riproporre di tanto in tanto qualcuna delle interviste da me realizzate per la rubrica “Io e il tennis”, che compare sul mensile federale “SuperTennis”. Spero che suscitino un po’ di interesse nei visitatori di www.federtennis.it che non hanno avuto occasione di leggerle quando apparvero sul giornale. Per cominciare ho scelto quella che un paio di anni fa mi fu concessa dal grande Gianni Clerici.

PERMETTE? PARADOSSO DIVAGO

Quest’intervista ha rischiato di non essere raccolta. E’ infatti cominciata con una discussione, perché Clerici – Gianni Clerici, proprio lui, il più celebre e acculturato storico-collezionista-narratore della storia del tennis, il testimone oculare di quasi sessant’anni di diritti e di rovesci, l’inventore della poetica dell’autoironia, il Lombroso del tifo sportivo, il più anticonvenzionale telecronista di tutti i tempi, l’ultimo vate della lingua lombardo-ticinese, e via aggettivando – Clerici, dicevo, non riusciva proprio a ricordare l’episodio che secondo me lo descrive meglio di qualsiasi autopsia lessical-comportamentale, e a forza di discutere, con tanto di convocazione di possibili testi a carico o discarico, il tempo se ne fuggiva e non mi riusciva di fargli la prima domanda.
Cominciavo già a disperare quando la situazione, misteriosamente, si sbloccò. D’un colpo, senza alcun motivo – o forse perché sulla scena aveva fatto irruzione Rino Tommasi: chi può dirlo? – Clerici dimenticò la diatriba e mi lasciò libero di interrogarlo (ma non di smettere di interrogarmi su di lui, a dispetto delle risposte che ha dato e dei sette lustri di frequentazioni che ci legano).
Alla fine, dopo tutti questi anni e tutte queste parole, che cos’è il tennis, per te?
“Una scusa… Un scusa per non esser diventato un grande industriale, come mio padre o mio nonno, oppure un giornalista di un certo rilievo. Una scusa per sentirmi un gigante… Nel tennis non c’è concorrenza. Come dice, il proverbio latino? ‘In regnum monoculi…’”…
‘Nel regno dei ciechi beato chi è orbo’?
“Sì. Io nel tennis mi ci sono nascosto. Però, intendiamoci, mi ci sono trovato benissimo! Li vedi questi signori qua? (indica Tommasi e l’amico americano di sempre, Bud Collins, i quali siedono al nostro stesso tavolo – ndr). Posso incontrarli tutti i giorni, mangiarci assieme…”
Ti sei trovato benissimo perché ti è piaciuto l’ambiente del tennis o perché non sei stato costretto a competere in altri ambienti?
“Tutt’e due le cose. Sai, fondamentalmente io sono un vigliacco. Un vigliacco con infinito coraggio. E quindi sono un ossimoro. Una volta mi hanno domandato come vedevo il mio rapporto con Tommasi. Risposi che anche io e Rino siamo un ossimoro. Non so… Che cosa vorresti sapere, veramente?”.
Beh, insomma, dimmi alla fin fine che cosa è diventato, ‘sto tennis, per te. I motivi che ti hanno spinto a viverlo così a lungo e così intensamente.
“Ma te l’ho detto!… E’ stato un modo per sfuggire a impegni più seri. Un limbo. E poi, scusa, scrivere di tennis può anche essere il mezzo col quale un povero si guadagna da vivere!”.
Vuoi dirmi che non ti ha arricchito per niente?
“Mi hanno arricchito i viaggi. Le amicizie. La possibilità di vincere la mia pigrizia. Quando sto in una città per un torneo spesso finisco per andare a vedere una mostra che altrimenti non avrei visto. E insomma, sì, probabilmente il tennis mi ha arricchito”.
E tutte le vicende umane che hai esplorato e raccontato? Personaggi, campioni, amori…”
“Sì, sì, anche quelle… Non solo nel tennis, eh? Penso allo sci di fondo, per esempio. Però in realtà io sono un giocatore fallito. Sai: il giocatore, quando si mette a giocare, pensa di fare la Coppa Davis, di vincere Wimbledon. Io a Wimbledon ho fatto il primo turno e in Coppa Davis mi hanno messo la sera e levato la mattina. Un certo signore mi fece fuori poche ore dopo la convocazione perché ero già un giovane giornalista e gli scrivevo certe cose che a confronto quello che trent’anni dopo avrei scritto su Galgani sembra un panegirico. (Segue racconto dettagliato che, su preghiera successiva, viene qui tagliato per rispetto nei confronti degli eredi dell’autore di cotanto misfatto. Segue quindi anche una lunga discettazione su che cosa voglia dire mettersi a fare il dirigente sportivo: tagliata anche questa – ndr). Una breve e misera carriera…”
Insomma, mi stai dicendo che le innumerevoli vite che hai frequentato e vissuto non ti hanno segnato?
“Ma sì, moltissimo. Non prendermi sempre così sul serio… Sai, a me piacciono i paradossi. Io stesso sono un paradosso vivente. Rino mi ha dato un soprannome, ‘il dottor Divago’, ma io potrei anche essere chiamato Paradosso. Ecco, se vuoi darmi un nome e un cognome che mi descrivano devi chiamarmi proprio così: Paradosso di nome e Divago di cognome, Paradosso Divago. Noooo, ma certo che mi han segnato, quelle cose lì. Poi le amicizie, gli amori, nel tennis, grazie al tennis… E’ stata un’altra vita, che ho vissuto al posto di quella vera, nascondendomi dietro a questo paravento. Magari è stato meglio così”.
Ma se tu dovessi darmi una definizione seria, non paradossale, e allo stesso tempo sintetica del tennis?…
“Denis Lalanne ha scritto sull’Equipe che è ‘una lente d’ingrandimento della vita’. Sebbene pensi che possa essere vero anche il contrario, è una definizione che faccio volentieri mia”.
C’è qualcosa di particolare, che ricordi nella tua vita col tennis?
“Persone, tante. Alcune di notevole intelligenza. Di cultura. Gil de Kermadec, per esempio”.
Ma insomma, se ti guardi indietro, te la senti di fare un bilancio? Sei felice oppure no?
“Ma come si fa, a dire una cosa così? Non si può mica sapere… Sei felice se hai fatto felice quelli che ti hanno incontrato nella vita. Questa è la felicità”.
Ancora oggi giochi a tennis, però.
“Certo, perché i miei bioritmi me lo consentono. Sai, io facevo Yoga quando ancora in Italia non ne aveva sentito parlare nessuno. Lo facevo con un grande maestro che adesso è morto. e così ho smesso. Il tennis può sostituire lo yoga, perché è un’attività psicofisica di grande rilievo. A patto che tu sappia come gestirla. Se vai al club a giocare e ti arrabbi, se cerchi disperatamente di vincere non hai capito niente. Bisogna giocare con religiosa…”
Ma questo è zen!
“Si, certo, il tennis è un momento zen. Però di recente io ho giocato tantissimo, al punto che adesso neppure il dottor Parra riesce a guarirmi dai miei dolori. Vedi, alla fine due risposte serie te le ho date. A dire la verità, mi rendo conto che non ci ho mai pensato seriamente, a tutte le cose che mi stai chiedendo. Quindi uno alla fine cerca di non prenderle in considerazione, si difende con l’ironia.”
L’esser diventato anche telecronista ha cambiato un po’ il tuo approccio?
“Divertente, è divertente. Non solo perché alla fine puoi dire di non aver fatto soltanto lo scrittore – come Bassani e Soldati sostenevano che avrei dovuto fare, forse a ragione ma fors’anche a torto – ma perché col microfono hai l’opportunità di combinare qualche bel casino, a patto di riuscire a non diventare ripetitivo. Un po’ come quando scrivo sul giornale. Io ho la fortuna di poter scrivere quello che voglio: non parlo delle partite, a volte non do neppure il risultato. Nessuno mi dice niente e dunque questo piccolo esercizio quotidiano di scrittura può diventare divertente. Invece una telecronaca ti lega di più a quello che succede sul campo. Ma io credo sia gratificante lasciar lo stesso libero sfogo all’invenzione. Sai, ci sono già alcune tesi universitarie sul modo in cui io e Rino facciamo le telecronache. Un modo casuale, occasionale. E’ gratificante accorgerci che alla gente piace. Qui ho firmato tanti di quegli autografi da convincermi che il mio stile rende felice chi mi ascolta. Forse sono un po’ troppo altruista…”
PS – L’episodio che secondo me chiarisce tutto sul conto di Gianni Clerici, quello che lui non ricorda e sul conto del quale abbiamo discusso prima di registrare questa intervista, è accaduto nel 1971. Durante la finale degli Internazionali d’Italia fra Laver e Kodes ci fu una contestazione proprio sotto alla tribuna stampa del Centrale del Foro Italico. Né l’arbitro, né i giudici di linea né i due giocatori riuscivano a mettersi d’accordo su quale fosse il segno lasciato dalla palla. Clerici, che invece aveva visto benissimo, saltò in campo per indicare quello giusto. Era giugno, e lui portava bermuda color kaki, canottiera rossa e cappello da cacciatore bianco con tanto di striscia di leopardo. Eppure tutti si fidarono.

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DIBATTITO SUI NUOVI TORNEI NAZIONALI

Ricevo da Alessandro Tosi e pubblico:
“So che non c’entra niente …ma come si fa a ideare una formula come quella dei nuovi tornei agonistici (dagli Open ai Quarta Categoria). Per ogni torneo sono obbligatori addirittura tre tabelloni di qualificazioni e un tabellone principale… Chi ha inventato questa formula non ha pensato che porterà al collasso dei circoli, visto che dal primo turno del primo tabellone di qualificazione alla finale ci sono 12/13 turni: quindi o si fanno durare i tornei due settimane (ma voglio vedere a quel punto come si farà a gestire la presenza contemporanea degli altri tornei e dei campionati a squadre?) oppure si fanno una marea di doppi turni, falsando palesemente il torneo e impedendo alla gente che lavora (l’80% dei Terza e Quarta Categoria) di partecipare. Forse in Federazione pensano che tutti i tesserati siano dei professionisti…
In secondo luogo questa formula di fatto rende molto difficile incontrare persone sopra classifica: soltanto 3-4 qualificati, e con 2/3 partite dure alle spalle, potranno giocarsi un positivo. Vedrete che così crollerà il numero di persone che salgono in classifica, e non tener di conto di questo incentivo è una grave mancanza.
Insomma il mio parere è che questa nuova formula non abbia alcun senso e porterà al collasso dell’attività agonistica, anche se credo che nel giro di qualche mese sarà accantonata a causa della marea di proteste che arriveranno in Federazione….Quello che mi chiedo è se le persone che impongono queste “idee innovative” abbiano mai preso una racchetta in mano…”

Risponde il Settore Organizzativo della FIT:
“L’ultima riforma del regolamento tecnico sportivo è semplicemente il completamento di un progetto che la Federazione Italiana Tennis ha avviato otto anni fa e la cui attuazione è stata confortata da un crescente gradimento da parte dei praticanti, come dimostrano in maniera inequivocabile il boom dei tesserati agonisti (che in precedenza calavano da più di un decennio) e soprattutto quello del numero delle partecipazioni ai tornei.
La riforma del regolamento è ampiamente ispirata all’innovativo sistema adottato prima in Francia e poi in Belgio e nei cantoni Svizzeri di lingua francese. I giocatori sono altamente motivati a partecipare a questo tipo di torneo perchè gli viene garantito un esordio nelle gare contro giocatori di classifica pressochè uguale, e, in caso di vittoria, gli è possibile incontrare giocatori via via meglio classificati e realizzare il famoso “positivo”. Inoltre, la suddivisione verticale dei tabelloni permette la conclusione dei tornei limitatamente alle varie categorie (seconda, terza, quarta categoria ed anche ai quarta categoria non classificati). In questo modo il giocatore “medio” può trovare la propria soddisfazione vincendo il torneo della propria categoria e totalizzando più punti – dunque più promozioni in classifica – grazie ai “bonus” attribuiti dai successi intermedi.
Per quanto riguarda gli appunti tecnici, desidero osservare che il torneo organizzato con le nuove regole consta del medesimo numero di incontri rispetto ai tabelloni tradizionali (che siano ad estrazione o a selezione). Ovviamente se si concludono le sezioni, che ricordo non essere obbligatorie, verranno disputati pochi incontri in più, programmabili nei giorni finali del torneo stesso in modo da concentrare tutte le finali in contemporanea.
Per quanto riguarda la durata del torneo ed il numero dei turni, credo che si tratti di un falso problema. Infatti il torneo può essere dimensionato sulla base delle esigenze del singolo circolo, prevedendo un numero limitato di partecipanti oppure limitando il torneo ad una determinata categoria di giocatori. I circoli dovrebebro ragionare sempre più su un impegno dei campi meno massiccio e più diluito nel tempo (15 gg.) come succede in Francia. Dove sta scritto che i tornei devono durare 7 gg. e non 3 o 15 ? E’ solo un’abitudine.
Tanto per fare un esempio, vorrei far notare come il torneo numericamente più grande che si organizza in Italia, ovvero il Lemon Bowl di Roma, è stato nello scorso dicembre-gennaio disputato nell’arco del medesimo tempo previsto anche negli anni precedenti, nonostante il numero degli iscritti sfosse ancora maggiore (oltre 1700). Anche all’ASD Remador di Torino è stato organizzato un torneo open indoor maschile e femminile in soli otto giorni. Entrambi i tornei sono stati organizzati tenendo conto delle nuove normative e hanno riscusso l’unanime gradimento degli atleti partecipanti.
Esistono delle grandissime potenzialità nascoste dietro a questi nuovi tornei, ed il tempo aiuterà a scoprirle tutte, ma di sicuro il Giudice Arbitro impegnato a dirigere queste manifestazioni sarà in grado di proporre incontri interessanti ed equilibrati sin dal primo turno evitando il noioso incontro che finisce 60 60 senza il divertimento di nessuno dei contendenti…
Un ulteriore vantaggio è la possibilità di cadenzare le iscrizioni e quindi consentire una maggiore partecipazione dei giocatori ai tornei. Basti pensare che prima un giocatore impegnato in un torneo open che veniva sconfitto al primo turno doveva aspettare almeno sette giorni per poter disputare un nuovo incontro. Ora invece potrà iscriversi subito in un torneo in corso di svolgimento.
Una considerazione circa i “doppi turni” E’ assolutamente vero che saremo spesso di fronte a tornei che prevederanno la disputa di doppi turni, ma è anche vero che gli stessi verranno programmati dai Giudici Arbitri prevalentemente nei giorni festivi sopratutto per quanto riguarda i giocatori di classifica elevata, gia abituati ad impegni del genere. E poi, bisogna incentivare a tutti i livelli la disputa del doppio turno giornaliero (anche pomeridiano), primo perchè è formativo (anche per i più giovani), secondo perchè è la cosa che veramente consente a tutti i giocatori di fare 3 tornei alla settimana e quindi va incontro a chi lavora e studia e vuole fare in un tempo breve molti incontri e/o molti tornei.
Infine, a proposito del numero dei giocatori qualificati, è sbagliato pensare che saranno 3 o 4. Il loro numero è assolutamente proporzionale a quello dei partecipanti, perchè queste nuove regole sono molto più elestiche di quelle del passato e la loro elasticità consente di confezionare un “tabellone su misura” in base alla quantità degli iscritti, evitando il casuale ed approssimativo incasellamento dei giocatori in moduli prestabiliti”.

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SEGRETI E BUGIE

Rino Tommasi ha lungamente risposto tramite il blog di Ubaldo Scanagatta alle poche righe da me dedicategli. Ecco che cosa ha scritto:
”Caro Ubaldo,
vengo meno ad una regola che mi sono dato in quanto sollecitato da un intervento di uno dei frequentatori del tuo blog. “Anto” mi chiede se io mi sento lusingato o infastidito dagli attacchi che il signor Baccini mi rivolge sul sito della Fit.
Mi ha lusingato a suo tempo il 34,5 per cento dei voti che, senza aver fatto una telefonata, tanto meno una campagna elettorale, ho raccolto all’Assemblea di Fiuggi dove mi sono presentato solo per evitare che la cordata Binaghi-Panatta prendesse il 90 per cento dei voti. Mi crediate o meno l’ultima cosa che vorrei o avrei voluto fare è il presidente della Federazione perché non ho alcuna intenzione, a questo punto della mia carriera e della mia vita, cambiare un’attività che mi ha dato molte soddisfazioni.
In quanto a Baccini lui non ha nessuna responsabilità. Un presidente più attento di Binaghi non gli consentirebbe di fare un uso così personale del sito federale ma questo è un problema loro.
Di Baccini ricordo solo una pianta di fiori che molti anni fa mi ha inviato a casa per ringraziarmi di avergli dato un incarico ed uno stipendio in una rivista, Tennis Club che io dirigevo.
Ricordo anche che nel 1976, alla vigilia dell’unica finale di Coppa Davis che l’Italia ha vinto, si è fatto promotore dell’occupazione simbolica (mi auguro) della sede della Fit perché sosteneva che l’Italia non avrebbe dovuto giocare quella finale.
Io, che – secondo Baccini – odio il tennis italiano al punto tale di essermi voluto candidare alla Presidenza, mi sono battuto in ogni sede perché i nostri giocatori andassero in Cile perché sapevo che era un’occasione utile per conquistare un trofeo che rimane il più prestigioso nella storia del nostro tennis. I più importanti sono invece stati le due vittorie di Nicola Pietrangeli e quella di Adriano Panatta nelle prove del Grande Slam.
Perdo volentieri qualche minuto di più per raccontare quanto è successo il giorno in cui Francesca Schiavone ha battuto la Henin. Non ho visto quella partita perché dovevo registrare la mia settimanale rubrica calcistica per Sky e scrivere un articolo di pugilato per il Tempo, il quotidiano romano al quale collaboro da molti anni. Quando ho saputo il risultato ho chiamato il Tempo per essere sicuro che avessero almeno la notizia ma non avevano più lo spazio.
Il blog federale ha scritto “Il silenzio dei Colpevoli” accusandomi di avere deliberatamente trascurato la vittoria della Schiavone perché la mia attività giornalistica sarebbe unicamente indirizzata a sottolineare le sconfitte dei nostri tennisti. Ho visto invece la partita che la Schiavone ha perduto, giocando peraltro molto bene, contro la Dementieva e ne ho scritto, pur sapendo che potevo essere accusato di avere atteso la sua sconfitta per occuparmene.
L’ultima prodezza del blog federale è un “penalty point” che mi è stato dedicato nell’ultimo numero della loro rivista. Non meriterebbe risposta ma mi limito a riferire l’ultimo passaggio:
“gli juniores sono diventati strumentali al suo antitalianismo, Tommasi li ha ricoperti di bava e di aggettivi ingiuriosi. Che pena, ragazzi, assistere ad un così disastroso sfacelo intellettuale.”
No comment. Non ho riletto i miei articoli perché ho buona memoria ma anche perché la bava e gli aggettivi ingiuriosi non fanno parte del mio giornalismo. Al contrario trovo l’una e gli altri nella rivista federale.
Un’ultima notazione per Nicola Pietrangeli. Io gli devo, come tutti gli appassionati, troppa gratitudine per quello che ha fatto e per le gioie che ci ha dato per prendermela con qualche disinvolto intervento sulla rivista della Federazione. Nicola cerca invano di giustificare la brutta sconfitta subita l’anno scorso dalla nostra squadra di Davis ricordandoci che in Israele hanno perso anche i cileni. La differenza è che noi abbiamo perso in due giorni, che Bolelli ed il doppio hanno perso in tre set e che Seppi ha perso un singolare contro un avversario in preda ai crampi perdendo il quinto set da 3 a 1. I cileni hanno perso il doppio per 10-8 al quinto ed ugualmente in cinque set ha perduto Gonzalez il match decisivo nella terza giornata.
Dopo tutti i match che ha vinto, a Nicola un doppio fallo si deve perdonarlo
Poiché Baccini ogni tanto fa riferimento alla mia età, io mi limito ad augurargli di invecchiare come sto invecchiando io. In quanto al Memorial Tommasi temo che dovranno avere un po’ di pazienza.
Ti mando queste righe per l’amicizia che ci unisce da tanti anni e per la simpatia che mi hanno manifestato molti frequentatori del tuo blog, compresi quelli che qualche volta non sono d’accordo con me.

Rino Tommasi
Dunque.
Atto primo. Le elezioni del 2000.
Tommasi dice di essere “lusingato” di aver preso il 34,5% dei voti senza aver fatto né “campagna elettorale” né “una telefonata”. Bene. Si tratta di due affermazioni che mi lasciano a bocca aperta.
La prima perché tutto mi sarei aspettato da Tommasi tranne che si dicesse “lusingato” dall’aver riscosso il consenso elettorale dei dirigenti di tre Comitati Regionali che – si è poi acclarato – commettevano gravi irregolarità amministrative, sottraendo al controllo della FIT parte dei contributi che ricevevano. Se avessi amici così io non me ne vanterei troppo in giro, specie se la candidatura l’avessi accettata proprio su loro richiesta…
La seconda perché ci vuole una bella faccia tosta a sostenere di non aver fatto campagna elettorale. Forse Rino non avrà telefonato a nessuno (forse), ma è proprio sicuro di non aver spedito qualche letterina ai Circoli italiani? Sicuro sicuro?… E di non aver fatto neppure una conferenzina stampa piccola, piccola?… Vogliamo dargliela, un’occhiatina, ai giornali del 6 dicembre 2000?
“Il Messaggero” / Titolo: “Tommasi si candida per contrastare Binaghi”. Citazioni dal testo: “Conferenza stampa al Canottieri Roma. Presentazione di Nicola Pietrangeli, presidente del Circolo. Pare siano candidati vecchie conoscenze come Maritati, Frola, Francia”.
“Il Corriere dello Sport” / Titolo: “Tommasi: Il nuovo sono io”. Pillole di testo: “Rino Tommasi ha ufficializzato ieri la sua candidatura alla presidenza della Fit. Scarse indicazioni sui nomi dei componenti la squadra (ha concesso solo quelli di Virgilio Giavoni e Ettore Trezzi). I miei avversari sono giovani ma rappresentano il vecchio modo di gestire la politica sportiva”. E poi un’esilarante profezia: “Bisogna portare via gli Internazionali dal Foro Italico. In quella sede non c’è futuro”.
“La Gazzetta dello Sport” / Titolo: “Il candidato Tommasi si presenta. Esperienza e competenza per la Fit”. Il testo cita una sua frase: “Me l’hanno proposto alcuni amici tre giorni fa. Ho accettato perché penso che la mia sia una candidatura forte e credibile. C’è gente che da 3 anni studia da presidente ma io da 40 mi occupo di tennis”.
Strano modo di “non farsi” campagna elettorale, vero? E che bella prova di coerenza e di integrità, no?, presentarsi come “uomo nuovo” in nome e per conto di “amici” che nel tennis italiano avevano comandato per 30 anni (e sui quali si è sparato sempre ad alzo zero, come Tommasi aveva fatto fino al giorno prima…)!
Atto secondo. Il Cile. Ho già avuto modo di raccontare ai lettori di questo blog come mi fossi opposto alla trasferta dalle colonne del mio giornale (“Il Messaggero”) perché la finale si sarebbe giocata in uno stadio di Santiago che poco tempo prima era stato usato come lager e dove erano stati trucidati molti oppositori politici del golpista Pinochet (un dittatore che il buon Rino, fra il serio e il faceto, ha sempre detto di considerare “di sinistra”). Ma ho anche chiarito che la mia presunta partecipazione all’”occupazione” della Fit è solo una leggenda nata in seguito a una simpatica boutade di Gianni Clerici. Quel giorno a Viale Tiziano c’ero, ma come inviato del mio giornale, e rimasi in strada.
Atto terzo. La “pianta di fiori”. Non è vero che Tommasi mi abbia “dato un incarico ed uno stipendio in una rivista” che lui dirigeva (Tennis Club). L’incarico e lo stipendio me li diede, nel 1978, Carlo Della Vida, l’editore della rivista, disperato perché il direttore Tommasi non era in grado di garantirne la regolare pubblicazione, disinteressato com’era a qualsiasi forma di lavoro manuale. Per me era un meraviglioso e affascinante secondo lavoro (ero professionista già da 10 anni) che poco dopo fui però costretto ad abbandonare perché “Il Messaggero” mi affidò responsabilità incompatibili con l’impegno supplementare. Quando lasciai il giornale Della Vida fu costretto a chiuderlo. E’ vero invece che mandai un pensiero a Rino (così come lo mandai al mio amatissimo “Zio Carlo”, il miglior editore della mia vita). Ho l’abitudine di essere riconoscente, io. Non come certi ex-vati, che prima vengono a supplicarti di regalargli quattro biglietti-omaggio per le semifinali degli Internazionali BNL d’Italia e poi si dimenticano persino di dirti “grazie”.

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IL SILENZIO DEI COLPEVOLI

Grande spazio su tutti i giornali, oggi, per l’impresa di Francesca Schiavone a Dubai. Così come grande spazio aveva avuto, qualche giorno fa, la vittoria di Andreas Seppi su Nadal.
Fra tante celebrazioni, mi avrebbe fatto piacere leggere il commento di Rino Tommasi, il veterano del giornalismo tennistico nazionale, l’uomo che larghi settori del nostro movimento accusano di anti-italianità pregiudiziale. Invece niente. Neppure una riga. Neppure un centesimo dello spazio che Rino ottenne l’anno scorso da uno dei giornali ai quali collabora per scrivere un articolo nel quale criticava gli altri giornali, colpevoli di aver dedicato troppo spazio al primo successo della Schiavone in un torneo della WTA, quello di Bad Gastein.

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RIFORMIAMO LA COPPA DAVIS

Fra appassionati si discute da tempo immemorabile sulla validità della formula della Coppa Davis e sulla sua reale capacità, a oltre un secolo dalla nascita, di rappresentare ancora in misura adeguata il valore tennistico di una Nazione e, allo stesso tempo, di conservare un ruolo di primo piano sul palcoscenico mondiale.
L’esperienza ci ha insegnato che sono parecchie le cose che non funzionano. Per esempio, bastano un giocatore e mezzo per vincere la Davis, e se questo poteva avere senso nel 1900, di certo nell’era moderna non è più così. Poi ci sono il problema della sempre decrescente propensione dei grandi campioni a giocare “per la patria”, quello della difficoltà a trovare spazi adeguati in calendario e quello dei criteri cervellotici con i quali vengono compilate le classifiche per nazioni e dunque i tabelloni (ci sono squadre mediocri che si affrontano fra loro nel World Group e squadre molto più forti che si dibattono nelle serie inferiori). Il tutto con l’inevitabile conseguenza della scarsa visibilità televisiva globale di una competizione che, non dimentichiamolo, è il più antico campionato del mondo a squadre del calendario sportivo internazionale.
Sebbene tutti concordino nel considerare la Davis un’anomalia nell’ambito di uno sport prettamente individuale come il tennis, resta il fatto che questa anomalia esercita tuttora immutato fascino sul pubblico, al punto da suscitare passione anche in chi non è particolarmente interessato all’attivitò “normale” e ai grandi tornei. Una passione che, di fronte all’insorgere dei problemi di cui sopra, meriterebbe più attenzione da parte degli organismi che gestiscono l’attività internazionale del nostro sport. Anche perché si tratta di una passione fortemente appetibile per gli sponsor.
E’ in questo quadro che il direttore generale della Federtennis inglese, qualche giorno fa, ha “buttato lì” l’idea di tramutare la Coppa Davis in una sorta di Coppa del Mondo di calcio, con gironi di qualificazione e una fase finale a 32 squadre in sede unica dalla durata di un mese, durante il quale il calendario dovrebbe ovviamente essere sgomberato da ogni torneo maschile.
Sebbene l’ITF abbia prontamente replicato che a nessuno è mai passata per il cervello neppure l’ombra dell’idea di studiare un simile progetto, e persino al federazione inglese abbia preso le distanze dal suo dirigente, noi di www.federtennis.it abbiamo chiesto ai nostri lettori che ne pensavano. Poiché è risaputo che è elevatissima la percentuale di coloro che – con molta ragione – individuano nel rispetto delle tradizioni uno dei punti di forza del tennis, mi aspettavo un uragano di voti per la risposta “E’ una boiata pazzesca”. E invece è risultato che oltre la metà dei 1.834 votanti è favorevole alla modifica della formula della Coppa Davis, oltretutto con larghissima prevalenza (37%) di coloro che vedrebbero di buon occhio proprio la formula “Coppa del Mondo” su coloro che invece suggeriscono genericamente di modernizzare la competizione (17%).
Un piccolo ma non trascurabile segnale che dovrebbe far riflettere chi regge le sorti mondiali del nostro sport.

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COME 30 ANNI FA IN UNGHERIA

Corsi e ricorsi storici? Come non crederci? Quanto è accaduto oggi al PalaVesuvio di Napoli era già successo trent’anni fa, paro paro, a Budapest. Stessa, identica storia. L’Italia vinse la Coppa Davis nel 1976 in Cile, poi fece la finale nel 1977 in Australia e l’anno dopo perse al primo turno con l’Ungheria, una squadretta di cui faceva parte l’ormai celeberrimo “cameriere” Peter Szoke. Stavolta è toccato alle donne in Fed Cup, equivalente femminile della Davis: campionesse nel 2006 in Belgio, finaliste nel 2007 in Russia e un anno dopo sconfitte al primo turno dalla Spagna, una squadretta di cui fa parte una giocatrice come la Llagostena Vives, numero 136 del mondo.
Se tanto mi dà tanto, dobbiamo concluderne che il ciclo delle nostra meravigliosa squadra azzurra non si è concluso con questa inattesa bastonata. Dopo Budapest, infatti, il quartetto di Coppa Davis si issò ad altre due finali consecutive, nel ’79 a San Francisco e nell’80 a Praga. Tanto più che l’unica vera differenza fra l’oggi e lo ieri riguarda il parco giocatori: negli anni ’70 Barazzutti, Bertolucci, Panatta e Zugarelli erano tutto quel che di buono il tennis italiano era in grado di schierare mentre ora di squadroni ne abbiamo due: a quello impegnato qui a Napoli potremmo affiancarne un altro composto dalle campionesse del mondo Santangelo e Vinci (attualmente infortunate), dalla Top 50 Karin Knapp e da Maria Elena Camerin.
Restano l’amarezza per una sconfitta davvero inattesa e lo sconcerto per come è maturata, cioè in casa, su una superficie scelta dalle nostre giocatrici e contro avversarie di livello globalmente inferiore. Le nostre stelle Francesca Schiavone e Flavia Pennetta hanno fatto 10 games in due contro la numero 1 spagnola, Anabel Medina Garrigues. La sensazione, insomma, è che questo match le nostre lo avessero perduto prima di giocarlo, schiacciate dall’insostenibile peso della propria grandezza. E forse non fu solo per il gusto della battuta che Francesca, a chiusura delle conferenza stampa di venerdì dopo il sorteggio, chiese ai giornalisti presenti: “Ma che cosa scrivereste se dovessimo perdere?”. Domani avrà la risposta. E magari leggere i giornali le farà pure del bene, perché, come dice Kipling, le servirà a capire una volta per tutte che vittoria e sconfitta sono due imbroglione.

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ALBATROS E RONDINELLE

Le nostre meravigliose ragazze ci hanno abituato a ogni tipo di miracolo, dunque non è davvero impossibile che riesca loro di ribaltare l’esito dell’incontro di Fed Cup contro la Spagna. Anche se ci riuscissero, tuttavia, il mio giudizio su quanto è successo oggi a Napoli non cambierebbe. Perché le sconfitte patite da Francesca Schiavone e Flavia Pennetta sulla veloce superficie stesa per loro espressa richiesta sul parquet del Palavesuvio hanno ancora una volta dimostrato due piccole grandi verità del nostro sport.
La prima è che il tennis a squadre è una disciplina totalmente diversa da quello individuale.
La seconda è che spesso conquistare la cima è meno complicato che restarci.
Voglio dire che non bisogna essere sorpresi dal fatto che dopo due anni di grandi trionfi la squadra azzurra abbia di colpo accusato il peso della propria grandezza. Questo è, insieme, il bello e il brutto dello sport in generale e del tennis – unica disciplina in cui la psiche conti più della tecnica e dei muscoli – in particolare. Come fece notare Baudelaire in una celebre poesia, le stesse ali che rendono regale l’albatros quando è in aria lo fanno diventare goffo quando è in terra. Francesca, Flavia e le altre sono albatros, e prima o poi torneranno in volo, magari domani stesso.
Le spagnole invece mi paiono rondinelle, allegre e guizzanti. Oggi è stata la loro primavera. Brave!

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UNA NUOVA ETA’ DELL’ORO

Dopo che ho visto in azione Tsonga contro Nadal mi sono rafforzato nella convinzione che stiamo vivendo un periodo felice per il tennis mondiale. Avevamo già tre potenziali numero 1 e adesso dovremmo averne trovato addirittura un quarto, perché Tsonga sa fare tutto, e lo fa benissimo. Ogni sport si nutre in primis di rivalità, e uno dei presupposti fondamentali dello spettacolo è l’equilibrio delle forze in campo, l’incertezza su chi è il più forte. Se non si rivelerà una semplice meteora – ma perché dovrebbe? Se gli infortuni lo lasceranno in pace egli sembra possedere tutto ciò che occorre per primeggiare a lungo – l’atletico francese aggiungerà dunque un’ulteriore variabile a un’equazione già deliziosamente complessa, per la gioia di noi appassionati.
L’avvento di Federer sembra aver rivalutato il cosiddetto “talento”. E il tennis d’oggi, culturalmente influenzato dalle magìe di Roger, è molto più divertente di quello esclusivamente muscolare di pochissimi anni fa. Se tanto mi dà tanto, siamo entrati in una nuova età dell’oro, tipo anni ’60-’70, quando di negromanti della racchetta ce n’erano una decina e il nostro sport conquistava sempre nuovi cuori e nuovi palcoscenici.
C’è di più: questi giovanissimi supercampioni hanno la capacità di comunicare all’esterno valori positivi e stanno conseguentemente piantando nell’orto del tennis semi buoni, che daranno buoni frutti per molti anni a venire.
Sì, siamo proprio fortunati a poter vivere un periodo come questo.

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LETTERA APERTA DI SCANAGATTA

Ubaldo Scanagatta mi invia questa sua lettera aperta, indirizzata ai giocatori italiani di vertice, e mi invita a pubblicarla sul sito della FIT. Sono lieto di accontentarlo, naturalmente premettendo che, più sotto, dirò la mia“Per favore smettetela d…

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LETTERA APERTA DI SCANAGATTA

Ubaldo Scanagatta mi invia questa sua lettera aperta, indirizzata ai giocatori italiani di vertice, e mi invita a pubblicarla sul sito della FIT. Sono lieto di accontentarlo, naturalmente premettendo che, più sotto, dirò la mia

“Per favore smettetela di dire, o anche solo di pensare, che ce l’abbiamo con voi.
E’ finito un altro Slam e come sapete anche voi non è che il tennis italiano, qui in Australia, abbia brillato. Purtroppo negli Slam è una storia che si ripete. Da 30 anni, da Barazzutti ultimo semifinalista (a Parigi) nel 1978. Il nostri ultimo top-ten? Sempre Barazzutti, sempre 1978. Una donna top-ten? Mai avuta. Eppure ce ne sono state un centinaio delle nazioni più disparate e…disperate, dal 1973 a oggi. E prima.
Tante generazioni di tennisti si sono succedute, ma questo problema dei giornalisti cattivi con i giocatori italiani, si è riprodotto immancabilmente anno dopo anno.
Prima non si viveva in mondi così separati, il Club Italia da una parte, i giornalisti dall’altra. Capitava di uscire a cena insieme, di vedersi spesso. Le reciproche incomprensioni si appianavano più rapidamente, anche se non è mai mancato chi soffiasse sul fuoco.
Non è colpa vostra che siete i migliori d’Italia, quindi già molto più bravi di tantissimi, se non vincete di più. Non è facile arrivare dove siete arrivati voi. Lo sappiamo noi, lo sa la gente, lo sanno ancor meglio quelli che ci hanno provato e non ci sono riusciti.
Non è colpa vostra nemmeno se giocatori di altri Paesi ottengono risultati migliori.
Ma non è colpa neppur di noi giornalisti, inviati agli Slam dalle nostre testate giornalistiche per stendere anche bilanci comparati.
I lettori non si spiegano facilmente come mai in altri sport gli atleti italiani eccellono e nel tennis invece no.
Una volta Alberto Tomba sedeva accanto a me. Seguiva la finale junior di Andrea Gaudenzi con Enqvist al Roland Garros. Albertone trasalì quando io gli dissi: “Speriamo che un giorno Andrea riesca a salire fra i primi 20 delle classifiche mondiali…”.
“Primi 20 soltanto? Ma sarebbe un disastro! _ replicò e proseguì _ Nel tennis sento dire che arrivare fra i primi 100 è un traguardo…Ma se io fossi stato lo sciatore n.100 del mondo mi sarebbe venuta una depressione cronica e avrei smesso di sciare! Ok il tennis è praticato da molte più nazioni, molta più gente, ma insomma via…diventare il n.100 non può essere così difficile. E negli altri sport allora?”
Forse Tomba, estroverso guascone, esagerava.
Ma non esagero io, invece, quando dico che è una storia che si ripete ad ogni Slam, purtroppo, quella che i giornalisti _ chi più chi meno _ sarebbero più o meno sadicamente contenti delle vostre sconfitte. Che alcuni, addirittura, vi farebbero il tifo contro, soltanto per il gusto (?) di poter parlar male di voi…Saremmo gelosi dei vostri successi di fama e di soldi o frustrati per non aver colto gli stessi risultati da ex atleti.
Tesi mostruosamente assurde.
Provate ad immaginare che cosa significhi per un giornalista scrivere di uno sport che va in prima pagina per le vittorie dei suoi atleti anziché nelle “brevi” per le sconfitte. Quanto sia più facile essere inviato a seguire una gara di un Valentino Rossi, di una Ferrari, di un calcio o un volley campione del mondo, piuttosto che in Australia per assistere ad una debacle di 10 giocatori che perdono nei primi due turni.
Al venerdì della prima settimana qui non c’era più un italiano in gara. 23 Paesi invece erano ancora rappresentati.
Il tennis deve conquistarsi, con i gomiti, lo spazio fra le 40 discipline sportive cui il calcio lascia qualche soffio di respiro nelle mezze pagine riservate alle “varie”.
La felice eccezione l’abbiamo vissuta quest’anno quando Filippo Volandri ha battuto Gasquet, Federer e Berdych a Roma. I più felici per aver “sforato” nelle pagine più nobili dei giornali, nelle prime notizie dei tg, eravamo proprio noi vituperati giornalisti di tennis… che pure, a differenza dello stesso Volandri, del suo coach, del suo manager, dei suoi sponsor, non avevamo guadagnato mezzo euro dai suoi exploit. Solo attenzione, finalmente, solo considerazione..
Concetti, questi, espressi mille volte. Eppure non passa Slam senza che io oda le stesse recriminazioni, che io non riceva un messaggino telefonico da qualche coach che non si è dato neppure la briga di leggermi ma ha sentito dire che avrei scritto questo e quest’altro…Non so perché ma i “seminazizzania” non mancano mai. Fra i cortigiani dei giocatori ce ne sono sempre stati.
Eppure un coach che non cito per rispetto della sua privacy mi ha scritto qui in Australia: “Perchè ci hai attaccato così pesantemente?” e anche “Perché non ti informi meglio?” .
Chi scrive non può farlo in modo asettico come in un lancio di agenzia, se non si vuol far morire il lettore dagli sbadigli.
Una frase di Rino Tommasi tempo fa ha irritato tantissimi. L’ha pronunciata, nel contesto di uno di quei soliti paragoni fatti con altri Paesi più fortunati: “ “La Francia ha Gasquet e noi abbiamo Fognini!”. Non l’avesse mai detto!
Indignazione, accuse di crudeltà preconcetta, di anti-italianismo.
Capisco che sulle prime a casa Fognini possa non aver fatto piacere. Però i Fognini sono intelligenti. E per primi avranno capito che quella è la verità. Cruda ma la verità. Segnalarla è un dovere del cronista, non un vezzo.
Idem se la Francia che porta 29 giocatori all’Australian Open e noi 11, che sono tanti e anche questo va rilevato anche numeri di retroguardia non danno la soddisfazione di un top-ten. Ma le aspettative francesi su Gasquet, dacchè aveva 9 anni, e italiane su Fognini, dacchè era n.1 junior, erano purtroppo realmente diverse. E ciò senza nulla togliere a Fognini, bravissimo ragazzo, con un padre appassionatissimo e apprezzatissimo che ha investito tanto pur di aiutarlo al meglio.
Nessuno, nemmeno Tommasi, vuol mancare di rispetto a Fabio che, anche se è il n.94 e il suo coetaneo d’Oltralpe è invece n.8 , è pur sempre il migliore dei nostri giovani, quello che ha lavorato meglio e ottenuto i migliori risultati.
Mi rendo conto che a volte un’osservazione vera possa apparire malevola. Ma si deve avere la maturità per capire che quell’osservazione non sottintende necessariamente _ anzi! _ pregiudizi, malanimo, tantomeno malafede.
Smettete, per favore, di attribuire sempre cattive intenzioni a chi non vi copre di elogi. Noi abbiamo l’obbligo morale di informare l’opinione pubblica sui motivi (presunti, presumibili) per cui nel tennis non siamo vincenti come in altri sport.
Nessuno è perfetto, quindi certo non lo siamo nemmeno noi i giornalisti. Alcuni saranno più teneri, altri meno, alcuni scriveranno meglio (in tutti i sensi), altri peggio, ma ritenere insistentemente che alcuni lo facciano in malafede, o per partito preso, non solo è falso, non solo significa non conoscerli, ma significa contribuire a creare attorno a voi giocatori un sistema debole, nocivo per primo a voi stessi, meno sereno. Così vivete peggio la vostra vita agonistica, vi crea inconsciamente alibi controproducenti: “quello porta male, quell’altro spera che io perda”… “Ecco gli avvoltoi!”, alluse apertamente, e scioccamente, una volta Paolino Canè a Prato durante un match di Davis.
Alla fine questo atteggiamento vittimistico, alimentato talvolta anche dalla politica _ “Quello ce l’ha con la federazione, quindi anche con voi!” Ma chi l’ha detto? _ non favorisce nemmeno la vostra crescita mentale ed agonistica. E direi anche culturale. Una mentalità sbagliata si traduce, alla fine, in uomini e donne meno maturi, meno forti, meno in grado di reagire alle vere avversità della vita e dello sport. Quelle avversità, credetemi, non sono nascoste nella penna di un giornalista. Cercate di ricordarvelo.
Un abbraccio e forza che se vincete di più i primi ad essere contenti siamo noi
Ubaldo Scanagatta”

Se non conoscessi Ubaldo fin da quando era poco più di un ragazzino, e non sapessi bene quanta disinteressata passione per il tennis nutre, quella lettera mi sembrerebbe la classica “excusatio non petita, accusatio manifesta”. Anche perché in occasione delle mie frequentazioni con le migliori giocatrici e i migliori giocatori italiani non ho mai sentito nessuno lanciare le accuse indiscriminate di cui egli riferisce.
Ma se metterei la mano sul fuoco sul fatto che la coscienza di Ubaldo è immacolata, altrettanto non posso dire sul conto di quella di alcuni suoi colleghi. Dunque non me la sento di escludere che qualche giocatrice e qualche giocatore nutrano per loro una più che giustificata diffidenza. Il punto è che fra i giornalisti italiani che seguono il tennis ce ne sono alcuni che non si limitano – come Ubaldo, come Clerici e come la maggior parte degli altri – a fare i giornalisti e basta. C’è anche chi approfitta dello spazio che gli viene concesso dai rispettivi giornali per perseguire altri interessi e altri obiettivi.
Pensate a Tommasi, che si è addirittura candidato a diventare presidente della FIT!… Quanto può essere obiettivo uno che ha tutto l’interesse a dimostrare che le cose vanno male? E infatti eccolo cambiare di volta in volta il sistema con cui calcola l’entità del presunto “disastro italiano” per non dover ammettere, tramite il confronto fra cifre omogenee, che le cose stanno migliorando.
Pensate a Daniele Azzolini e a Stefano Semeraro, rispettivamente direttore e condirettore del giornale edito da Adriano Panatta, che lo fondò nel 2004 per tirare la volata elettorale delle sue marionette!… Vi sembra gente che può essere libera di dire cose diverse da quelle che convengono al loro padrone? E infatti sui quotidiani che danno loro ospitalità – probabilmente ignari di questo scandaloso conflitto di interessi – si sprecano i titoli che terroristicamente dipingono una realtà opposta a quella reale (“Il tennis affonda”, “Il tennis italiano a pezzi”, eccetera eccetera).
Pensate a un Lorenzo Cazzaniga il quale, oltre che pure lui condirettore dello stesso giornale di Panatta, è socio di aziende di comunicazione e di management sportivo che nutrono interessi commerciali in vari campi del tennis giocato. Interessi legittimi, intendiamoci, ma talvolta contrastanti con quelli dei giocatori o, magari, della stessa FIT.
Poiché quando scrivono sui quotidiani questi signori si guardano bene dall’informare con onestà e trasparenza i lettori degli interessi particolari di cui sono portatori, siamo di fronte a casi di clamorosa violazione della deontologia professionale che meriterebbero ben altri interventi che non queste poche righe o, come racconta Ubaldo, qualche sms di protesta… Per cui sono d’accordo col mio vecchio amico nell’auspicare un clima più disteso, ma non me la sento certo di condannare coloro che, giocatrici e giocatori in testa, ritengono che il disarmo non possa e non debba essere unilaterale.

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I CONTI CHE RINO HA NASCOSTO

Il mio precedente post (“L’autogol del vecchio Rino”) è stato come al solito letto con gli occhi foderati di prosciutto dai fans di Tommasi, cha hanno capito fischi per fiaschi e hanno controbattuto a qualcosa che non avevo scritto. Il post non voleva magnificare le mirabolanti imprese dei nostri tennisti di vertice ma sottolineare due cose: 1) giudicare il tennis italiano, come fa Tommasi, soltanto dai risultati dei suoi rappresentanti nei tornei del Grande Slam è una mistificazione; 2) pur volendo restringere il campo di indagine a questo unico parametro, Tommasi trucca le carte quando scrive sulla “Gazzetta dello Sport” che il 2007 è stato “l’anno più nero” per i nostri colori.
A queste inoppugnabili verità coloro che condividono con il vecchio Rino l’odio per il tennis italiano non hanno saputo contrapporre che la solita , ammuffita solfa sulla scarsità dei risultati degli azzurri nei grandissimi tornei.
Il punto di quel post, ribadisco, riguardava non la reale forza del vertice azzurro ma come certi giornalisti siano disposti a ogni compromesso con la propria coscienza pur di dipingerne il quadro con i loro colori e non con quelli della realtà. Il punto era la maligna furbizia con la quale Tommasi sceglie i numeri che più gli fanno comodo per dimostrare quello che vuole. Anche se non mi illudo che possa servire ad aprire loro gli occhi, propongo adesso ai suoi fedelissimi un’eclatante dimostrazione di questo spregiudicato metodo di azione.
Il 17 ottobre del 2001, quando era fresco di umiliazione elettorale, nella rubrica “Open di Rino” che Tommasi teneva sul “Guerin Sportivo” apparve un articolo intitolato “Certa stampa ha ragione” in cui, con il consueto obiettivo di infangare i nostri giocatori e i nostri coach, egli testualmente scriveva: “Preferisco far parlare i numeri che di solito dicono sempre la verità. Ho quindi preparato delle tabelle che rappresentano in forma schematica il rendimento fornito dai tennisti italiani nelle prove del Grande Slam, che sono poi quelle nelle quali – molto meglio che nelle competizioni a squadre – si misura il valore, individuale e complessivo, di un movimento”. E, sotto, ecco la tabella, “compilata (citazione testuale, ndr) sulla base di risultati ottenuti nei 4 tornei del Grande Slam. I punti sono attribuiti a ciascun giocatore con una scala 15-10-7-5-4-3-2-1 punti in funzione del piazzamento. Per ogni Paese sono indicati il numero dei giocatori utilizzati e il totale dei punti conquistati”. Il risultato del 2001, primo anno di governo dell’attuale gestione della FIT, era effettivamente deludente. In campo femminile l’Italia era ottava (8 presenze, 43 punti). In campo maschile diciottesima (6 presenze, 17 punti).
Ora torniamo al 2008. Tommasi decide di scrivere un articolo sull’”anno più nero” degli italiani negli Slam. Cosa fa, secondo voi? E’ lecito immaginare che faccia i conti utilizzando il suo stesso vecchio sistema, no? Per cui si mette lì e comincia a dare i famosi punti a seconda del piazzamento. Australian Open, Roland Garros, Wimbledon, Flushing Meadows… Uno più uno due, due più due quattro, e via così, di addizione in addizione. Solo che, quando tira le somme, il vecchio Rino quasi casca dalla sedia. Il metodo-Tommasi dà un risultato agghiacciante per il suo inventore. Altro che “anno più nero”!. Rispetto al 2001 l’Italia è risalita al quinto posto in campo femminile (10 presenze, 58 punti) e al decimo in campo maschile (10 presenze, 34 punti). Sebbene superate dalle ceche, le ragazze italiane hanno scavalcato in classifica Spagna, Germania, Belgio e Svizzera. I ragazzi italiani, invece, sono, sì, secondi a spagnoli, francesi, statunitensi, argentini, russi, svizzeri, tedeschi, cechi e serbi, ma in sei anni si sono messi alle spalle australiani, svedesi, brasiliani, inglesi, olandesi, belgi, croati, marocchini e canadesi che prima li sopravanzavano.
“Cacchio!”, si dice il vecchio Rino. “E come faccio adesso a scrivere che il 2007 è stato l’anno più nero?”. Mugina e rimugina, la risposta non può che essere una: bisogna cambiare la scelta dei numeri ai quali “far dire la verità”. Prova questo, prova quello… chissà quanta fatica prima di architettare un metodo che gli dia ragione. Finché, a un certo punto… Eureka! Calcolando la percentuale di vittorie sugli incontri disputati i quattro match di Slam in meno degli azzurri rispetto al 2006 fanno scendere la media di un paio di punti. Ed ecco prender forma la bella tabellina e il bell’articolo che agli occhi dei creduloni e dei correligionari dimostreranno come gli italiani – naturalmente eccezion fatta per il grande Tommasi e pochi altri eletti – nel tennis sono un popolo di incapaci.
Ricapitoliamo. Usando il suo vecchio metodo Tommasi avrebbe dovuto scrivere che nel 2007 l’Italia si è piazzata al 5. posto fra le 41 nazioni che hanno avuto almeno una giocatrice nei tabelloni degli Slam 2007 e al 10.mo fra le 38 che hanno avuto almeno un giocatore. Avrebbe dovuto ammettere che negli anni più recenti il tennis italiano ha fatto enormi progressi di sistema (gli unici, aggiungo io, che possano essere favoriti dal lavoro di una federazione, visto che i meriti e i demeriti al massimo livello di competizione sono individuali). Ma naturalmente se ne è ben guardato, perché il suo obiettivo non era quello di informare facendo “dire la verità ai numeri”, come gli piace far credere, ma dimostrare che chi lo ha battuto alle elezioni non capisce niente e che in Italia “gli è tutto da rifare”. Voi come la chiamate, questa? Buonafede?

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