SATURNO

Come Saturno, il famelico tennis d’oggi divora i suoi figli uno a uno. Piedi, polsi, ginocchia, spalle. E’ tutto un saltar di tendini e giunture, legamenti e cartilagini, fibre rosse e fibre bianche. A poca distanza dal Foro Italico il laser del dottor Parra fa gli straordinari, ma il dottorone e la sua macchinetta non possono essere sempre ovunque. Si gioca tanto, troppo, a tutte le longitudini, e con una intensità per la quale il corpo umano non è fatto.
Eppure, miracolo!, la strage dei favoriti e dei possibili outsider non affligge più di tanto il Foro Italico, che ormai ha raggiunto una dimensione che prescinde da chi la occupa. L’impianto è a livello di saturazione, i Carabinieri arrestano i bagarini con cadenza accelerata e la televisione si adegua, ampliando di un giorno le finestre in chiaro su Italia 1 e di un canale quelle satellitari su SKY. Roma è grande e – sebbene il cuore mi sanguini mentre lo dico – le lacrime che versa sui Federer, sui Nadal, sui Davydenko e compagnia bella, Bolelli incluso, si asciugano in pochi minuti.

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BRAVO SIMONE

Simo esce con qualche rimpianto e persino un filo di amarezza, ma io credo invece che debba andare fiero del suo torneo. Non soltanto perché ha stravinto i due match che erano alla sua portata ma anche perché, sebbene venisse dalla prima grande finale della sua giovane carriera, s’è presentato al Foro Italico con la giusta tensione nervosa, né vuoto né gonfio. Segno che ha la testa giusta e che è in buone mani.
Certo, un po’ tutti c’eravamo illusi che il momento magico potesse proseguire anche a Roma, che la recherche du temps perdu stesse per finire, che davvero questo ragazzo bolognese desse carne ai nostri sogni e cibo alla nostra fame, che l’occasione offerta dalla scomparsa di Nadal dalla parte bassa del tabellone gli schiudesse addirittura le porte della finale. Un’illusione, appunto. Che però non annerisce nella disillusione, perché Bolelli è sulla retta via e sta compiendo il suo cammino nell’unica maniera possibile: un passo alla volta. Da quando si è messo alle spalle l’ultimo infortunio ha fatto progressi costanti e consistenti. Altri ne farà, e nel frattempo accumulerà anche quell’esperienza che gli permetterà di gestire meglio i punti importanti dei match che lo vedono opposto ad avversari più forti di lui.
Il Foro Italico saluta Simone e gli dà appuntamento all’anno prossimo. Io sono pronto a scommettere che si ripresenterà qui come testa di serie.

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ROMA INGIUSTA CON NADAL

Oggi Roma ha commesso una grossa ingiustizia nei confronti di Rafa Nadal, e francamente mi riesce difficile capirne il motivo (e accettarlo, se fosse vero quello che sospettano i maligni). Nonostante anche dagli spalti fosse evidente ciò che la tv stava chiarendo ai telespettatori – che, cioè, i piedi di Rafa erano in condizioni spaventose, e gli rendevano ogni spostamento non solo dolorosissimo ma anche molto difficoltoso – nonostante tutto ciò, dicevo, il pubblico del Foro Italico si è schierato apertamente in favore di Juan Carlos Ferrero. Ferrero ha, sì, vinto gli Internazionali d’Italia nel 2001, ma non è che questo suo successo avesse fatto breccia nel cuore degli appassionati. Anzi: fino a oggi, siamo sinceri, il bravo Juan Carlos non se l’era quasi mai filato nessuno. Per cui è evidente che il tifo “per” lui era un tifo “contro” Nadal.
Ora, tifare contro Nadal sarebbe iniquo dovunque, visto che Rafa costituisce un esempio non solo di sano agonismo ma anche di esemplare correttezza e di amore per lo sport. Ma tifargli contro qui a Roma è addirittura mostruoso, perché Nadal non è soltanto uno che ha vinto al Foro Italico per tre anni di seguito ma è uno che a questo pubblico ha offerto alcuni fra i momenti più alti e indimenticabili di spettacolo mai visti nel tennis contemporaneo. E, oltretutto, è uno che oggi, viste le sue condizioni di salute, avrebbe potuto decidere di non scendere in campo o di ritirarsi quando il dolore s’era fatto intollerabile. Rafa ha invece deciso di bere fino in fondo il calice della sofferenza per rispetto nei confronti del suo avversario e di quello che giudicava essere il “suo” pubblico. Non è stato ripagato come avrebbe meritato.
Perché? Enzo Ferrari, uno che se ne intendeva, era solito dire che “gli italiani perdonano tutto, tranne il successo”. A dargli retta, il motivo del comportamento del pubblico potrebbe dunque essere stato proprio la voglia di vivere un’edizione degli Internazionali che non avessero un vincitore ancor prima di cominciare. Non la condividerei, una spiegazione del genere, ma potrei anche accettarla. Mi auguro invece che non sia vero quanto qualcuno sospetta: che, cioè, il tifo “contro” Nadal fosse il tifo “per” Federer, e che il tifo “per” Federer fosse non il tifo per il mitico numero 1 del tennis mondiale ma quello per l’amico di Francesco Totti.

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FORZA FILIPPO!

Nel giorno in cui sembra concretizzarsi una sorta di cambio della guardia al vertice del tennis maschile italiano, provo un forte senso solidarietà nei confronti di Filippo Volandri, che tanto ha dato al nostro sport e che tanto potrebbe ancora dare s…

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FORZA FILIPPO!

Nel giorno in cui sembra concretizzarsi una sorta di cambio della guardia al vertice del tennis maschile italiano, provo un forte senso solidarietà nei confronti di Filippo Volandri, che tanto ha dato al nostro sport e che tanto potrebbe ancora dare se non fosse da tempo perseguitato da un’interminabile serie di malanni fisici. Per poter giocare il suo tennis tutto potenza e accelerazioni Filo deve assolutamente star bene, e invece adesso, nel momento più critico della sua carriera – con l’obbligo di difendere la semifinale di Roma e gli ottavi di Parigi – gli è piovuta sulla testa la tegola più pesante, perché il problema alla cartilagine del ginocchio è di quelli che non si sa come affrontare: le cure “normali” servono a poco e quelle drastiche imporrebbero lunghe e penalizzanti degenze.
La sconfitta con Lapentti costerà a Volandri molti punti e molte posizioni nella classifica mondiale. Credo che noi tutti dobbiamo idealmente stringerci a lui e augurargli di trovare il modo per venire fuori da questo sfortunato momentaccio. Nuova linfa scorre nelle vene del tennis italiano, ma abbiamo ancora bisogno del braccio d’oro di Filippo.

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IL FUTURO DI TOMMY

Tommy Fabbiano ha perso con qualche rimpianto, perché dopo aver vinto il primo set con l’autorità di un veterano ha avuto occasioni importanti sia nel secondo sia nel terzo. Però il suo esordio nel grande tennis è stato lo stesso molto positivo, e non soltanto per i successi nelle qualificazioni su Hanescu e Pashanski. Il ragazzino pugliese ha infatti dimostrato di saper stare bene in campo.
Fabbiano è rapido, coordinato, con buoni fondamentali, un servizio preciso e un’ottima risposta. E poi è intelligente: legge bene il match e sa usare le debolezze dell’avversario. Io, che l’avevo visto soltanto una volta giocare in allenamento, nel 2006 a Tirrenia, mentre faceva a pallate con Seppi, sono rimasto sorpreso dai suoi progressi. Forse gli mancano qualche centimetro di altezza e qualche chilo di muscoli, ma la potenza, in fondo, non è tutto neppure nel tennis moderno. Penso che il cervello sia ancora molto importante, insieme all’esperienza e all’autostima: il primo Tommy ce l’ha già buono di suo, l’esperienza se la sta facendo e l’autostima crescerà di risultato in risultato.
Seppi, Bolelli e Fognini, insomma, non sono soli: alle loro ancor giovani spalle premono giocatori ancor più giovani ma di sicuro valore come lui e come Trevisan. Sono rose e fioriranno, vedrete.

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7 UOMINI FORO

7 uomini Foro… A dispetto del fatto che il tabellone principale è molto meno capiente che in passato (56 posti anziché 64), fra i molti record battuti dagli Internazionali BNL d’Italia 2008 prima ancora di cominciare c’è quello del numero di italiani ammessi di diritto al singolare maschile: 5, vale a dire Volandri, Starace, Seppi, Bolelli e, grazie al doppio formidabile exploit compiuto nelle qualificazioni, la new entry Fabbiano, 19 anni da compiere. Gli altri due azzurri, Cipolla e Naso, sono wild card, e anche questo è uno sprovincializzante record, perché dal 1995 le wc concesse agli italiani erano almeno quattro.
L’ultima volta con 5 azzurri di diritto nel main draw era stata 15 anni fa, quando però due di loro provenivano dalle qualificazioni. Un altro record è dunque quello dei 4 promossi per meriti di classifica, mai così numerosi negli ultimi vent’anni.
Oltre a confermare i progressi che il tennis italiano sta facendo a tutti i livelli, questo piccolo ma significativo exploit aggiunge un tocco di italianità al grande torneo che oggi prende il via con i connotati di un vero e proprio “Quinto Slam”. Con 9 dei Top 10 ATP e tutte le Top 10 WTA, gli Internazionali BNL d’Italia si situano al vertice assoluto della qualità tennistica e promettono un fantastico spettacolo sia alle decine di migliaia di spettatori che per due settimane affolleranno il Foro Italico sia ai milioni che lo seguiranno in tv (e anche qui è record, perché Italia 1 trasmetterà in chiaro ben sei giornate di gioco, il che non accadeva dalla notte dei tempi).
Il favorito numero uno è naturalmente Rafa Nadal, che sulla terra battuta sembra non avere rivali e che punta a diventare primatista assoluto di successi romani vincendo il quarto titolo consecutivo. Non appena rimesso piede sulla sua superficie preferita, il mancino spagnolo è tornato a travolgere ogni avversario: Federer a Montecarlo e, ieri, il maratoneta Ferrer a Barcellona. Però siamo tutti qui a chiederci se Federer, re incontrastato del tennis contemporaneo, non riuscirà, prima o poi, a spezzare la supremazia terraiola del suo grande rivale. E sotto sotto ci auguriamo persino che in questo duetto sappia inserirsi anche qui a Roma, come già ha fatto a gennaio nell’Open di Australia, il terzo incomodo Novak Djokovic. Il sorteggio ha comunque reso il compito di Nadal più facile, mettendo entrambi i suoi rivali dall’altra parte del tabellone e assegnando loro anche il compito di far fuori, se vogliono arrivare fino a lui, gli altri due specialisti che possono aspirare al titolo: Ferrer e Nalbandian.
In un contesto così ultracompetitivo, per i nostri “7 uomini Foro” sarà dunque davvero difficile trovare un po’ di spazio. Però non bisogna fasciarsi la testa prima di essersela rotta, come ha dimostrato l’anno scorso Filippo Volandri battendo, nell’ordine, Gasquet, Federer e Berdych, e diventando il primo italiano a qualificarsi per le semifinali dopo la bellezza di 29 anni.
L’azzurro che sta nel quarto teoricamente meno spaventoso è proprio quello apparentemente più in forma, Simone Bolelli, reduce dalla sua prima finale ATP, quella combattutissima ma persa ieri, a Monaco, contro Mano di Pietra Gonzalez, finalista al Foro un anno fa (a Simone è stato fatale l’unico break subito in tre set). Anche se per portare il suo terzo assalto dell’anno a Davydenko dovrà far fuori prima mezza Francia e poi Roddick, Bolelli è in fase di grande maturazione e dunque si può legittimamente sperare in suo exploit. Più difficile, invece, sembra il cammino di Volandri e di Seppi, che, oltretutto, se partissero bene sarebbero attesi da un crudelissimo derby negli ottavi. Starace può aspirare a vedersela con Federer al terzo turno, mentre le wild cards Cipolla e Naso dovranno superarsi per sopravvivere a un primo turno proibitivo. Quanto a baby Fabbiano, numero 412 del mondo, il suo Foro Italico lo ha già vinto.

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7 UOMINI FORO

7 uomini Foro… A dispetto del fatto che il tabellone principale è molto meno capiente che in passato (56 posti anziché 64), fra i molti record battuti dagli Internazionali BNL d’Italia 2008 prima ancora di cominciare c’è quello del numero di italian…

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7 UOMINI FORO

7 uomini Foro… A dispetto del fatto che il tabellone principale è molto meno capiente che in passato (56 posti anziché 64), fra i molti record battuti dagli Internazionali BNL d’Italia 2008 prima ancora di cominciare c’è quello del numero di italiani ammessi di diritto al singolare maschile: 5, vale a dire Volandri, Starace, Seppi, Bolelli e, grazie al doppio formidabile exploit compiuto nelle qualificazioni, la new entry Fabbiano, 19 anni da compiere. Gli altri due azzurri, Cipolla e Naso, sono wild card, e anche questo è uno sprovincializzante record, perché dal 1995 le wc concesse agli italiani erano almeno quattro.
L’ultima volta con 5 azzurri di diritto nel main draw era stata 15 anni fa, quando però due di loro provenivano dalle qualificazioni. Un altro record è dunque quello dei 4 promossi per meriti di classifica, mai così numerosi negli ultimi vent’anni.
Oltre a confermare i progressi che il tennis italiano sta facendo a tutti i livelli, questo piccolo ma significativo exploit aggiunge un tocco di italianità al grande torneo che oggi prende il via con i connotati di un vero e proprio “Quinto Slam”. Con 9 dei Top 10 ATP e tutte le Top 10 WTA, gli Internazionali BNL d’Italia si situano al vertice assoluto della qualità tennistica e promettono un fantastico spettacolo sia alle decine di migliaia di spettatori che per due settimane affolleranno il Foro Italico sia ai milioni che lo seguiranno in tv (e anche qui è record, perché Italia 1 trasmetterà in chiaro ben sei giornate di gioco, il che non accadeva dalla notte dei tempi).
Il favorito numero uno è naturalmente Rafa Nadal, che sulla terra battuta sembra non avere rivali e che punta a diventare primatista assoluto di successi romani vincendo il quarto titolo consecutivo. Non appena rimesso piede sulla sua superficie preferita, il mancino spagnolo è tornato a travolgere ogni avversario: Federer a Montecarlo e, ieri, il maratoneta Ferrer a Barcellona. Però siamo tutti qui a chiederci se Federer, re incontrastato del tennis contemporaneo, non riuscirà, prima o poi, a spezzare la supremazia terraiola del suo grande rivale. E sotto sotto ci auguriamo persino che in questo duetto sappia inserirsi anche qui a Roma, come già ha fatto a gennaio nell’Open di Australia, il terzo incomodo Novak Djokovic. Il sorteggio ha comunque reso il compito di Nadal più facile, mettendo entrambi i suoi rivali dall’altra parte del tabellone e assegnando loro anche il compito di far fuori, se vogliono arrivare fino a lui, gli altri due specialisti che possono aspirare al titolo: Ferrer e Nalbandian.
In un contesto così ultracompetitivo, per i nostri “7 uomini Foro” sarà dunque davvero difficile trovare un po’ di spazio. Però non bisogna fasciarsi la testa prima di essersela rotta, come ha dimostrato l’anno scorso Filippo Volandri battendo, nell’ordine, Gasquet, Federer e Berdych, e diventando il primo italiano a qualificarsi per le semifinali dopo la bellezza di 29 anni.
L’azzurro che sta nel quarto teoricamente meno spaventoso è proprio quello apparentemente più in forma, Simone Bolelli, reduce dalla sua prima finale ATP, quella combattutissima ma persa ieri, a Monaco, contro Mano di Pietra Gonzalez, finalista al Foro un anno fa (a Simone è stato fatale l’unico break subito in tre set). Anche se per portare il suo terzo assalto dell’anno a Davydenko dovrà far fuori prima mezza Francia e poi Roddick, Bolelli è in fase di grande maturazione e dunque si può legittimamente sperare in suo exploit. Più difficile, invece, sembra il cammino di Volandri e di Seppi, che, oltretutto, se partissero bene sarebbero attesi da un crudelissimo derby negli ottavi. Starace può aspirare a vedersela con Federer al terzo turno, mentre le wild cards Cipolla e Naso dovranno superarsi per sopravvivere a un primo turno proibitivo. Quanto a baby Fabbiano, numero 412 del mondo, il suo Foro Italico lo ha già vinto.

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IL COSMOPOLITISMO DEGLI ITALIANI

E pensare che Rino Tommasi e Gianni Clerici, di tanto in tanto, accusano di “provincialismo” gli Internazionali d’Italia…
Provinciali noi? Ma in quale altro paese del mondo, secondo voi, succederebbe che un giudice di linea chiama un fallo di piede al giocatore suo connazionale (per di più giovanissimo, perdipiù all’esordio in una grande competizione mondiale, perdipiù opposto a un ex top 10) quando sta servendo sul 5 pari al tie-break del terzo set, come è capitato ieri a Matteo Trevisan? In Francia? In Inghilterra? Negli Usa ? (E lasciamo perdere la Russia o la Croazia, dove le azzurre e gli azzurri hanno giocato di recente, permettendoci di toccare con mano la qualità dei loro linesmen).
Come dite? Che forse quel giudice di linea era lo stesso che l’anno scorso a Castellaneta, semifinale di Fed Cup contro la Francia, di falli di piede ne chiamò 12 alla Schiavone nel corso di un drammatico confronto con la Mauresmo?
Se era lo stesso io non lo so, ma ho motivo di dubitarne fortemente. Perché noi italiani non siamo provinciali, e dunque siamo in tanti ad avere a cuore soltanto una cosa: insegnare agli altri italiani come ci si comporta nel mondo civile. E di giudici di linea così (o anche di giornalisti, se è per questo) ne abbiamo a josa. Bravi. Onesti. Irreprensibili. Cosmopoliti.

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IL SOLITO BATTICUORE

Oggi ci siamo trasferiti nella nuova sala stampa del Foro Italico, un prefabbricato bello e luminoso che si affaccia sullo Stadio del Nuoto, il glorioso impianto dove l’Italia vinse la medaglia d’oro di pallanuoto alle Olimpiadi del 1960 e dove l’anno prossimo si svolgeranno i Mondiali di Nuoto. Si lavora lì e si lavora qui. Il Foro è tutto un cantiere, e anche i due Villaggi degli Internazionali BNL d’Italia sembrano il set di un film di Spielberg o un formicaio impazzito.
Domani, quando si comincerà a giocare, tutto sarà miracolosamente a posto. Tanti decenni di manifestazioni sportive vissute da entrambi i lati – prima da utente e poi da organizzatore – mi hanno insegnato che in circostanze come quelle odierne non bisogna mai dar troppo credito ai propri occhi e che, soprattutto, ogni pulsione verso lo sconforto è totalmente immotivata. Ricordo ancora con un misto di angoscia e divertimento che nel 1990, quando il nuovo Stadio Olimpico di Roma venne inaugurato dal Papa a pochi giorni dall’inizio dei Mondiali di Calcio, gli operai davano gli ultimi ritocchi cento metri avanti al Santo Padre benedicente. E nessuno si accorse di niente.
Gli anni passano, ma il batticuore della vigilia è sempre lo stesso. Forza, ragazzi! Sarà un torneo meraviglioso.

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L’UOMO DEI BOTTONI

Intervista con Giordano Maioli apparsa su “SuperTennis” del febbraio 2006di Giancarlo BacciniIn principio, era Nicola. Nicola Pietrangeli, chiaro. Poi, dieci anni dopo, fu Adriano. Adriano Panatta, ovvio. E nel frattempo?“A contrastarlo (Nicola, ndr),…

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L’UOMO DEI BOTTONI

Intervista con Giordano Maioli apparsa su “SuperTennis” del febbraio 2006

di Giancarlo Baccini

In principio, era Nicola. Nicola Pietrangeli, chiaro. Poi, dieci anni dopo, fu Adriano. Adriano Panatta, ovvio. E nel frattempo?
“A contrastarlo (Nicola, ndr), qualche volta addirittura a batterlo, vennero allora due ragazzi lombardi, Sergio Tacchini e Giordano Maioli. – racconta Gianni Clerici nella Bibbia dei tennisti, “500 anni di tennis” – Di ottima razza, di estrazione borghese, Sergio e Giordano non ebbero in dono dagli dei le armi fatate di Nicola, ma ci rappresentarono sempre con dignità. Tacchini batté addirittura Cliff Drysdale in Davis. Maioli diede una prova di grande educazione sportiva, quando un capitano, Vasco Valerio, gli attribuì responsabilità che erano soltanto effetto della cattiva conduzione della squadra”.
Tacchini e Maioli, già. I bravi ragazzi degli anni ’60, i dioscuri della transizione, i bottoni che hanno tenuto assieme due lembi del tennis italiano. In realtà, i due erano un po’ meno gemelli di quanto non li abbia dipinti Clerici. Maioli, per esempio, non è lombardo ma emiliano, visto che è nato e cresciuto a Piacenza. Però è davvero singolare che i loro percorsi terreni abbiano finito per srotolarsi paralleli come binari, depositandoli nella stessa stazione di arrivo, la poltrona di capo di un’azienda di abbigliamento sportivo, dopo una serie di fermate intermedie quasi identiche. O forse no, in tutto questo non c’è niente di singolare, perché era quasi inevitabile che due persone intelligenti e abituate a vincere ragionando finissero per diventare catalizzatori del successo sociale e commerciale che sarebbe arriso al tennis degli anni ’70, un tennis che d’altronde era un po’ anche figlio loro.
Maioli, dunque. Giocatore, dirigente, tecnico e infine industriale. Sempre all’insegna del successo. Ma con discrezione, senza niente di eclatante, di esplosivo, di rumoroso. Sempre con educazione e senso delle proporzioni, col gusto emiliano per la vita – celeberrime, e irresistibili, le sue barzellette – ma anche, come dice Clerici, con la dignitosa operosità dei lombardi. Piacenza, d’altronde, è lì, sul confine, e i piacentini sono inevitabilmente borderline a loro volta.
“Mi sono innamorato del tennis di riflesso, perché chi il tennis lo amava davvero era mio padre – racconta lui, con quel sorriso che sembra tradire al tempo stesso timidezza e furbo understatement – A me, in realtà, piaceva il tennis da tavolo e non avevo molta voglia di darmi a un altro sport. Invece mio padre insistette, mi portò in campo, mi iscrisse a una scuola. E mi contagiò. Allora non si cominciava da piccolissimi, come adesso. Si cominciava a 10-12 anni. Quel gioco mi piacque subito. E fu una fortuna”.
-Che cosa ti colpì di più, nel tennis?
“Naturalmente, la passione per uno sport è legata anche alla capacità di fare risultati. Io mi rivelai subito abbastanza in gamba. Vincevo. E vincere è bello, no? Ti motiva, ti spinge, ti ripaga dei sacrifici. Pure il fatto di essere conosciuto e apprezzato è una componente decisiva nella costruzione del rapporto fra te e quel che fai. Non importa il livello della fama: a me dava soddisfazione anche la notorietà che mi ero conquistato fin da ragazzino nella mia provincia.
“Questo gusto non mi avrebbe abbandonato neppure quando, crescendo e migliorando, sarei diventato un ‘professionista’, anche se allora non ci chiamavano così. Il fatto di girare il mondo per giocare nei tornei, di essere popolare, di ricevere applausi e sostegno, di dialogare in tante lingue mi affascinava davvero. E anche il tennis in sé era affascinante, anzi: più il livello tecnico era alto e più spinta agonistica provavo, più adrenalina mi godevo. Il momento della gara era quello della mia massima gratificazione”.
-Quando hai capito che saresti diventato forte?
“Dico la verità: abbastanza presto. A 17-18 anni ero già campione nazionale juniores e mi ero avvicinato di un bel po’ ai big. Poi son diventato prima categoria, ho cominciato a fare anche attività internazionale e, insomma, a vent’anni ero nel giro della maglia azzurra, in Coppa Davis, a contatto con mostri sacri come Pietrangeli, al quale non riuscivo a non dare del lei neppure quando ci palleggiavo insieme. Sai, lui aveva trent’anni, io dieci di meno… E poi, oh, quello era Pietrangeli! Stare in mezzo a gente come Nicola era fantastico, impagabile”.
-Sbaglio o, aldilà degli aspetti puramente sportivi di questa ‘fascination’, in te c’era l’eccitazione per il glamour del tennis, per il suo alone mondano?
“Sì, sì, un po’ anche questo. Vedi, a quell’epoca (anche se poi non era proprio così, anzi…) il tennis passava per uno sport elitario. Forse non me ne rendevo del tutto conto, ma questa componente,a ripensarci bene, ha avuto un ruolo importante nell’orientare la mia passione. E’ umano, provare sentimenti così. Sai, i club non erano molti, gli impianti pubblici erano rarissimi, e ciò contribuiva a farci sentire un pochino degli eletti anche se non lo eravamo”.
-Che tipo di giocatore eri?
“Uno regolare. Non avevo colpi superlativi. Non che mi mancasse del tutto il talento. Ne avevo a sufficienza per figurare fra i migliori italiani ma non per svettare anche in campo internazionale. Non sono mai stato fra i primi 15-20 giocatori del mondo. Non che non potessi dire la mia, in campo. A Pietrangeli potevo tenere testa, e l’ho pure battuto più di una volta, però lui era un’altra cosa e i miei successi su di lui erano più demerito suo che merito mio. Nel tennis è importante essere realisti, conoscere se stessi e l’avversario: è questo che ti consente di cogliere le occasioni che ti si presentano. Ma solo se si presentano…”
-Se ti chiedessi di paragonarti a un giocatore italiano di oggi?
“Mah, dal punto di vista tecnico direi Seppi, che non ha un talento straordinario ma fa buonissimi risultati. Volandri, invece, secondo me ha tantissimo talento ma non ha ancora raggiunto i risultati alla sua portata. Speriamo che ci riesca presto”.
-Quando hai cominciato a capire che il tennis avrebbe potuto continuare ad essere la tua vita anche quando avessi smesso di giocare?
“Beh, inizialmente non è andata proprio così. Io ho smesso di giocare ad appena 24 anni perché l’impegno era da professionista ma non così i guadagni, né l’ambiente attorno al tennis era così professionale da spingere un giovane a programmarsi un’attività futura al suo interno. Dal punto di vista economico, insomma, non c’erano né struttura né prospettive. Quindi quando mi sono messo a lavorare ho cominciato occupandomi di tutt’altra cosa”.
-Cioè?
“Di bottoni”.
-Bottoni?
“Sì, bottoni. Moda, intendiamoci”.
Logico. Anzi: inevitabile, a vederla a posteriori…
-E…
“Ci sono voluti otto anni prima che il tennis mi offrisse l’occasione di occuparmene da professionista, valorizzando l’esperienza che ormai mi ero fatto nel settore dell’abbigliamento. Fui contattato da un paio di aziende del settore, aziende che stavano crescendo grazie alla diffusione della pratica del gioco, che mi offrirono di lavorare nel settore della promozione. Accettai, perché così potevo tornare nel mio mondo, quello dello sport in generale e del tennis in particolare. Da cosa nasce cosa, e alla fine mi sono ritrovato proiettato nel cuore del business vero e proprio. Ormai il tennis aveva raggiunto ben altra dimensione rispetto ai tempi miei, e c’era bisogno di esperti che se ne occupassero in maniera professionale. La possibilità di giocare indossando indumenti colorati anziché soltanto di bianco ha rappresentato una delle svolte che hanno contribuito a sviluppare il mercato dell’abbigliamento tennistico, stimolando le aziende a competere fra loro”.
-Ed ecco l’Australian…
“Oh, intendiamoci. L’Australian è nata nel 1952… Sebbene sia sempre stata italianissima si chiama così perché già all’inizio degli anni ’50, prima cioè dei Laver, degli Hoad e dei Rosewall, erano gli australiani a dominare il mondo del tennis con Sedgman e McGregor. E poi il canguro era un bel marchio, carino, originale… Io sono entrato in azienda nel 1976 e mi ci sono trovato talmente bene che quest’anno celebreremo trent’anni di matrimonio. In tutto questo tempo non sono mancati gli alti e i bassi, com’è naturale, ma il bilancio complessivo è molto soddisfacente. Noi siamo un’azienda che trae linfa soltanto dal tennis, perché, pur producendo una linea per il tempo libero, non facciamo materiale per altre discipline sportive. E siamo contenti di questo. Anche il rapporto di sponsorizzazione che ci lega alla FIT si sta sviluppando bene, e siamo sicuri che le squadre azzurre ci forniranno un importante contributo di immagine. Per il resto, abbiamo avuto sotto contratto giocatori importanti quali Lendl, Korda, Ivanisevic, Smid, Jarryd. Tutti accordi che ho fatto io personalmente. Tra gli italiani il nostro testimonial di maggior successo è stato Paolo Canè, che specie in Coppa Davis seppe ritagliarsi spazi davvero esaltanti. Ora abbiamo molti ragazzini in gamba anche se nessun campione di primissima schiera”.
-Come scegli i giocatori cui offrire un contratto?
“C’è sempre, com’è ovvio, una componente di gusto personale. Forse certe volte pecco di autoconsiderazione, perché se mi piace come gioca un ragazzo, se mi piacciono i suoi colpi, dico, tendo a sopravvalutare questa componente rispetto a tutte le altre. Ho la presunzione di capire al volo se uno può diventare un campione, anche se so benissimo che portare i colpi con classe ed efficacia non è sufficiente, perché prima di tutto ci vuole la testa e se uno diventerà un giocatore vero è impossibile dirlo a colpo d’occhio”.
-Ma insomma, qual è la cosa migliore che pensi di aver fatto in una vita trascorsa nel tennis e per il tennis?
“Io mi sento sempre giocatore, prima di tutto. Mi è piaciuta molto anche l’esperienza di capitano non giocatore, che mi ha permesso di assistere dalla panchina il mio idolo Nicola e, in Coppa Davis, quei ragazzi che poi la Davis l’avrebbero vinta. E’ stato molto gratificante, anche perché eravamo un gruppo unito e affiatato, stavamo bene insieme e riuscivamo pure a divertirci. Sono ricordi meravigliosi. Però, ripeto, le cose più belle che mi porto dentro sono tutte legate alla mia attività di giocatore”.
Ci credereste se vi dicessi che Giordano, pur ricordando di aver guidato dalla panchina Pietrangeli, aveva dimenticato che in quell’occasione l’Italia aveva conquistato la Coppa del Re di Svezia quando questa competizione era importantissima? Era il 1972, ad Ancona, per la semifinale contro la Cecoslovacchia, alle 3 di notte c’erano ancora duemila spettatori, e mai, prima della “cena” che seguì quel romanzesco trionfo, le sue barzellette erano state altrettanto irresistibili….

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GRAZIE, RAGAZZE!

L’analisi tecnica ci dice che le azzurre di Fed Cup, pur dovendo fare a meno della loro numero 2, hanno assorbito l’infortunio di Napoli e, superando nettamente avversarie sulla carta più forti, hanno conservato un posto fra le grandi nazionali del tennis femminile. L’anno prossimo potranno pertanto tornare a dare l’assalto a quel titolo mondiale conquistato nel 2006 a casa della Henin e quasi conquistato nel 2007 a casa della Kuznetsova.
Basterebbe questo perché il tennis italiano decidesse di erigere un monumento in loro onore, ma ciò che rende davvero uniche queste nostre ragazze è l’attaccamento che dimostrano per la maglia azzurra, la positività che sprizza dalle loro parole, l’esempio che danno alle più giovani. Questo team di Fed Cup ha una sua anima. Ecco perché il gruppo ormai comprende ben sette-otto giocatrici e perché si può star sicuri che lo spirito sarà lo stesso chiunque vada in campo.
Il sogno è che quest’animus pugnandi, questa positività, quest’attaccamento ai valori sani dello sport, che da qualche anno stanno tornando a pervadere tutto il movimento, vengano finalmente percepiti anche da chi continua a girarsi dall’altra parte per non vederli.

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GRAZIE, RAGAZZE!

L’analisi tecnica ci dice che le azzurre di Fed Cup, pur dovendo fare a meno della loro numero 2, hanno assorbito l’infortunio di Napoli e, superando nettamente avversarie sulla carta più forti, hanno conservato un posto fra le grandi nazionali del tennis femminile. L’anno prossimo potranno pertanto tornare a dare l’assalto a quel titolo mondiale conquistato nel 2006 a casa della Henin e quasi conquistato nel 2007 a casa della Kuznetsova.
Basterebbe questo perché il tennis italiano decidesse di erigere un monumento in loro onore, ma ciò che rende davvero uniche queste nostre ragazze è l’attaccamento che dimostrano per la maglia azzurra, la positività che sprizza dalle loro parole, l’esempio che danno alle più giovani. Questo team di Fed Cup ha una sua anima. Ecco perché il gruppo ormai comprende ben sette-otto giocatrici e perché si può star sicuri che lo spirito sarà lo stesso chiunque vada in campo.
Il sogno è che quest’animus pugnandi, questa positività, quest’attaccamento ai valori sani dello sport, che da qualche anno stanno tornando a pervadere tutto il movimento, vengano finalmente percepiti anche da chi continua a girarsi dall’altra parte per non vederli.

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ZAPPING

Un vertiginoso zapping consente all’aficionado di gustarsi in simultanea le due facce del tennis, quella che ti fa squillare le campane nell’anima e quella che ti torce lo stomaco e ti sconquassa le viscere.
203-227, 203-227. Meno male che il telecomando ha un tasto che ti fa passare istantaneamente dall’uno all’altro.
203, Sky Sport. Federer, da giorni dato per morto dai santoni dell’etere, dipinge le sue magiche pennellate sulla rossa tela di Montecarlo e rifila al perfido Djokovic una lezione di tennis di quelle difficili da scordare, come a dirgli: “E adesso imita questo, se sei così bravo a farmi il verso!”. Uno spettacolo delizioso, preceduto da quello terrificante della riemersione da sottoterra, minacciosa come lo zombie di un film di Romero, di un’altra presunta salma, quella di Rafa Nadal.
227, RaiSport Sat. Francesca Schiavone ingaggia un’inverosimile sfida a ciapanò con l’ucraina Koryttseva sul ventoso campo del Geovillage di Olbia. Le due fanciulle fanno di tutto per consegnare la vittoria all’avversaria ma solo dopo tre ore e un quarto di altalena strappacuore e tre match point sciupati Mariya la traccagnotta riesce a spuntarla, dando l’1-0 all’Italia e risparmiando in extremis le coronarie dell’aficionado e quelle di capitan Barazzutti.
E poi dicono che in tv non c’è abbastanza tennis!…

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GALEAZZI, LA VOCE DELLA RACCHETTA

Intervista a Giampiero Galeazzi, da “SuperTennis” del giugno 2005

di Giancarlo Baccini

Giampiero Galeazzi voga verso i sessanta con la prorompente vitalità di sempre. Da 35 anni racconta lo sport con lo stesso mix di competenza e tifo, di goliardica baldanza e sensibilità umana, di humour e passione. Certe sue telecronache olimpiche sono entrate nella leggenda della televisione, e anche se oggi la nuova Rai persiste autolesionisticamente nell’affidargli ruoli da intrattenitore più che da giornalista, la sua popolarità non ne è scalfita, anzi. Non c’è emittente radiofonica che non punti sulle prodezze lessicali di un qualche suo imitatore, tanto da darti l’impressione che non ci siano più che un’unica stazione e un’unica voce, la sua. Essere imitati è una consacrazione.
Galeazzi è stato il testimone televisivo degli anni d’oro del tennis italiano. Una storia cominciata quasi per caso.
“Appena laureato tutto volevo fare meno che il giornalista. – racconta – Anzi, io i giornalisti li odiavo. Facevo canottaggio, e quando ascoltavo qualche telecronaca l’incompetenza era tale da farmi provare umiliazione. Però, come spesso succede nella vita, poi è andata a finire che ho fatto il giornalista. Dice: perché? Perché all’epoca collaboravo un po’ con il giornaletto federale, solo allo scopo di far circolare le informazioni nel nostro ambiente, e fui chiamato dal Giornale Radio regionale del Lazio per portargli i risultati di canottaggio delle gare che si facevano qui vicino a Roma, a Castelgandolfo. Sai, di canottaggio a quell’epoca nessuno sapeva niente… Così cominciai a frequentare la redazione della Rai, che stava a Via del Babuino, e rimasi folgorato da mostri quali Ciotti, Ameri, Moretti, gente che ti faceva venire i brividi per come padroneggiava il microfono. E, a dispetto dei miei progetti e di quelli di mio padre, che mi organizzava colloqui al Banco di Napoli, al Banco di Sicilia e via dicendo, finii per diventare il loro ragazzo di bottega ”.
E il canottaggio?
“Beh, successe che, dopo aver vinto qualche titolo italiano e il Mondiale juniores di singolo, dopo aver fatto parte della squadra olimpica per Mexico ’68 ed essere stato inserito in quella per Monaco ’72, fui squalificato. Mi punirono perché mentre ero in preparazione, per 200.000 lire al mese mi misi a giocare a pallone a Maccarese, in un campionato dove c’erano avanzi di galera e ex calciatori tagliagole, e uno di questi angioletti mi ruppe un ginocchio, facendomi perdere i mondiali in programma dopo pochi giorni in Canada e mandando in fumo l’investimento che era stato fatto su di me. Lì praticamente finì la mia carriera agonistica e cominciò quella giornalistica. Moretti cominciò a portarmisi dietro in occasione dei grandi avvenimenti, e intanto scribacchiavo sui giornali. Sul ‘Messaggero’, per esempio, facevo una rubrica – ‘La vita dei Circoli romani’ – che fu la prima di questo tipo mai apparsa su un quotidiano. Credo che tu, che la inventasti, te lo ricordi bene…”.
Mi ricordo di altre cose, che abbiamo fatto insieme al “Messaggero”…
“Eh, sì!… Le Olimpiadi. La rubrica ‘Il microfono di Galeazzi’. E poi, quando ero ormai da tempo in tv, lo scoop sul silenzio stampa degli azzurri ai Mondiali di calcio del 1982”.
Ma il passaggio alla televisione come avvenne?
“Guarda, alla radio guai a chi mi toccava, perché da bravo ragazzo di bottega stavo sempre lì dentro, dalle 8 alle 8, e insieme a Duccio Guida lavoravo per tutti senza parlare né di soldi né di orari. Mi piaceva. Nel 1976, però, arriva la riforma della Rai. TG1 e TG2 vengono sdoppiati e tutti quelli che facevano sport decidono di andare al TG2 con Maurizio Barendson. Al TG1, invece, il direttore era Emilio Rossi, che di tutto si intendeva e interessava tranne che di sport. Rossi non voleva mai pezzi di sport, proprio come ‘La Repubblica’, che quando uscì non aveva neppure l’edizione del lunedì. Di sportivi aveva con sé solo Tito Stagno, che però stava sempre a Cortina a prendere il sole, e Sandro Petrucci. Prese pure Paolo Rosi, che però era telecronista e si rifiutava di lavorare in redazione. Insomma, serviva una ragazzo di bottega pure lì e Rossi, che mi aveva conosciuto al GR2, a un certo punto mi fa chiamare da una segretaria che mi dice: ‘Lei da domattina è in servizio al TG1’. ‘Guardi che domattina alle 6 io devo fare il giornale radio’, rispondo io. Allora la segretaria mi passa il direttore, e lui si mette a sbraitare, picchiando il pugno sul tavolo. Rossi era potente: il giorno dopo stavo al TG1. I colleghi della radio ci misero qualche tempo, a perdonarmi: sai, a quell’epoca i televisivi giravano con due automobili a testa e i radiofonici in bicicletta… E invece non è che io, lì, mi divertissi troppo. Niente macchina né bicicletta, e oltretutto facevo venti pezzi al giorno ma in onda non ne mandavano mai uno. Niente. Sul nostro tiggì lo sport era tabù. Ci volevano pesanti interventi dei commandos laziali o romanisti interni per far sì che ogni tanto si parlasse di calcio. In compenso c’era la ‘Domenica Sportiva’, che all’epoca andava ancora forte, e Tito Stagno, che la curava, mi lanciò come inviato. Andavo in giro col cappellone, ti ricordi? Ed ebbi modo di lavorare con maestri come Beppe Viola…”.
Di tennis si occupava Guido Oddo, no? Era lui il telecronista del boom del tennis italiano.
“Sì, certo. Grande Guido… Quando veniva a Roma per gli Internazionali faceva subito l’abbonamento a qualche stabilimento balneare di Fregene, in modo da avere sempre una sdraio pronta sulla spiaggia. Se ne stava ad abbronzarsi dalle 9 alle 13, quand’era ora di venire a fare le telecronache. Amava il Foro Italico perché così vicino a Fregene e perché tanto, nella buca del Centrale, c’ero io a coprirlo sia quando lui prendeva il sole qualche minuto in più sia quando il sole calava sulle statue del Centrale e lui cominciava a essere stanco. Un gran signore, Guido. La mia carriera di voce del tennis lo devo tutta a lui”.
Con Oddo veniste anche in Cile, quando vincemmo la Davis… O mi ricordo male?
“No, no. Non venimmo. Ce lo proibirono. Ti ricordi il casino per via di Pinochet, no? La telecronaca la facemmo via tubo, da Roma. Anzi, dovevamo registrarla per farla in differita. Solo che il sabato, quando il doppio azzurro fece il punto della vittoria, Guido fu tradito dall’emozione. Guardando in bassa frequenza Nicola che piangeva, Panatta mezzo svenuto e tutti quella gente che zompava di gioia non ce la fece a trattenersi e rivelò il trionfo in diretta con un paio d’ore di anticipo”.
Così cominciò la tua lunga avventura…
“Sì, la conquista della Coppa proiettò il tennis nel paradiso della televisione. Prima, a parte la Davis e gli Internazionali, la Rai non faceva altro. Quando Panatta vinse Parigi mica c’era la diretta. Ma poi… Guido andò in pensione nell’81, dopo Wimbledon. Sono sicuro di essere stato il telecronista italiano con più ore di diretta sul groppone. Commentavo per sette-otto ore di seguito, giorni e giorni di seguito. E senza alcuna spalla, perché allora non usava. Ma ho avuto la fortuna di vivere dal di dentro quell’epoca fantastica. Gli italiani, Borg, McEnroe. Anni e anni in trincea: il tennis ha segnato più di qualsiasi altro sport la mia vita professionale, contribuendo a creare quello che ancora oggi è il mio personaggio. Caldo, emotivo, partecipe dell’evento che racconta, nel bene e nel male. Le lodi più belle per quell’epoca le ricevo adesso, dai quarantenni. Mi dicono: ‘Ma lo sai che la tua voce ha accompagnato la mia adolescenza? Tornavo da scuola, accendevo la televisione, e c’eri tu. Mi mettevo a studiare e quando riaccendevo c’eri ancora tu. Andavo a fare sport e quando tornavo eri sempre lì’.
“Certo, era un’altra tv. Ma la forza del tennis italiano era tale da permettere alla Davis di rompere i palinsesti, di incunearsi nei telegiornali, di prendersi i titoli d’apertura. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la concorrenza e il palinsesto è ferreo. Però se i nostri arrivassero alle fasi finali dei tornei del Grande Slam, o facessimo una semifinale di Davis con gli Usa, sono convinto che il tennis farebbe di nuovo un gran botto anche in tv. E non basterebbe l’Olimpico per contenere tutta la gente che vorrebbe venire. La passione per il nostro sport è sempre lì: cova sotto la cenere. C’è solo bisogno di chi ci butti sopra un po’ di legna ”.
La tua passionalità non andò esente da critiche…
“Eh, vabbè!!! E che devi fa’, in Coppa Davis? Il tifo per gli avversari? E’ logico che uno si scalda, no? Però con me la critica è sempre stata più tenera che con Guido Oddo. A lui, che pure era un telecronista di vecchio stampo, perciò il più possibile cauto e formale, non ne perdonavano una. Con me erano più indulgenti”.
Prima di diventare telecronista il tennis lo conoscevi già bene per motivi di circolo, no?
“Certo. Oltre che esserne stato atleta, io del Circolo Canottieri Roma sono socio dalla notte dei tempi. E Canottieri Roma vuole dire Nicola Pietrangeli, Carlo della Vida, Scribani, Jacobini. Gente che ha fatto la Coppa Davis. Piccari. Tommasi. Olivieri. Più tardi Orecchio. I Bartoni. C’era più tradizione tennistica che remiera. Durante gli Internazionali venivano tutti qua, ad allenarsi. Il tennis, insomma, ce l’avevo nel sangue. Giocavo, anche. Da nc ho fatto la Coppa Italia e la Facchinetti. A naso si direbbe che tennis e canottaggio sono due sport che più diversi non si può, uno muscolare e l’altro raffinato, e invece no, ti giuro che certe volte ho visto la Madonna sulla terra rossa così come la vedevo sull’acqua. Poi magari scendevo le scalette che portano giù al fiume, sul galleggiante, e andavo lo stesso in barca”.
Tu hai visto e giudicato quasi tutti gli sport del mondo, praticandone parecchi. Che cos’è che contraddistingue il tennis dagli altri?
“Guarda, il tennis ho avuto la fortuna di frequentarlo da vicino ai tempi dei grandissimi campioni degli anni 60 proprio qui al circolo. C’erano volte che venivano ad allenarsi gli australiani. Mi ricordo Laver ed Emerson che sotto il sole più cocente passavano ore e ore a bombardare col servizio dei cartoni di palle messi dall’altra parte della rete come bersagli. E intanto Nicola, qui, giocava a peppa fin verso le sette di sera e poi scendeva a palleggiare con il fresco. Lì cominciai a capire che il tennis non era uno sport per fighette. Poi, viaggiando e tastando con mano, ne ebbi la conferma ai quattro angoli del mondo. Il tennis non è un gioco. E’ una disciplina dura per il cervello e per il corpo.
“Credo che anche in Italia si sarebbe potuta affermare una cultura ‘all’australiana’, ma purtroppo il boom del tennis degli anni ’70 da noi fu sfruttato a fini speculativi e non sportivi. Si preferiva stipare i ragazzini in campo a pagamento anziché dedicarsi a farli crescere davvero. Chi avrebbe dovuto fare formazione si trasformò in industriale, mentre le società sportive, i circoli, si riempivano di quarantenni e toglievano i campi ai bambini. E’ allora che abbiamo perso il treno, permettendo che il solco che separava i quattro vincitori della Davis dal resto degli italiani si allargasse proprio nel momento in cui il tennis era diventato uno sport popolare. La passione che ribolliva sugli spalti del Foro Italico, dove si affollavano tifosi così accesi da far impallidire quelli del calcio, non fu mai canalizzata nella giusta direzione. Vero, non c’era un pubblico ‘wimbledoniano’, come avrebbero voluto Clerici e Tommasi, però c’era gente che magari non mangiava pur di comprarsi il biglietto. Energia pura che è andata dispersa”.
Fra gli azzurri di oggi chi preferisci? Che ne pensi di Volandri? A chi lo paragoneresti, fra i tennisti italiani dei tempi tuoi?
“E’ molto up-and-down. Certe volte ti esalta e certe ti deprime. Mi piace, ma un po’ mi manda ai pazzi, come diciamo a Roma. Mi ricorda il soldatino Barazzutti, il cui tennis era tutto disciplina e sudore”.
Starace?
“Grande carattere. Però quanto a tennis ha ancora dei buchi neri. E’ il carattere che gli permette di vincere a dispetto di quei buchi. In questo mi ricorda Ocleppo”.
E le ragazze? Nessuno ne parla mai…
“Fantastiche. Lavorano in silenzio e fanno grandi risultati. Però bisogna prendere atto che la Fed Cup non è la Davis. La Davis è uguale da più di cent’anni. La Fed Cup e molto più giovane e cionostante l’hanno già cambiata mille volte. E’ questo, il loro problema”.

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GALEAZZI, LA VOCE DELLA RACCHETTA

Intervista a Giampiero Galeazzi, da “SuperTennis” del giugno 2005

di Giancarlo Baccini

Giampiero Galeazzi voga verso i sessanta con la prorompente vitalità di sempre. Da 35 anni racconta lo sport con lo stesso mix di competenza e tifo, di goliardica baldanza e sensibilità umana, di humour e passione. Certe sue telecronache olimpiche sono entrate nella leggenda della televisione, e anche se oggi la nuova Rai persiste autolesionisticamente nell’affidargli ruoli da intrattenitore più che da giornalista, la sua popolarità non ne è scalfita, anzi. Non c’è emittente radiofonica che non punti sulle prodezze lessicali di un qualche suo imitatore, tanto da darti l’impressione che non ci siano più che un’unica stazione e un’unica voce, la sua. Essere imitati è una consacrazione.
Galeazzi è stato il testimone televisivo degli anni d’oro del tennis italiano. Una storia cominciata quasi per caso.
“Appena laureato tutto volevo fare meno che il giornalista. – racconta – Anzi, io i giornalisti li odiavo. Facevo canottaggio, e quando ascoltavo qualche telecronaca l’incompetenza era tale da farmi provare umiliazione. Però, come spesso succede nella vita, poi è andata a finire che ho fatto il giornalista. Dice: perché? Perché all’epoca collaboravo un po’ con il giornaletto federale, solo allo scopo di far circolare le informazioni nel nostro ambiente, e fui chiamato dal Giornale Radio regionale del Lazio per portargli i risultati di canottaggio delle gare che si facevano qui vicino a Roma, a Castelgandolfo. Sai, di canottaggio a quell’epoca nessuno sapeva niente… Così cominciai a frequentare la redazione della Rai, che stava a Via del Babuino, e rimasi folgorato da mostri quali Ciotti, Ameri, Moretti, gente che ti faceva venire i brividi per come padroneggiava il microfono. E, a dispetto dei miei progetti e di quelli di mio padre, che mi organizzava colloqui al Banco di Napoli, al Banco di Sicilia e via dicendo, finii per diventare il loro ragazzo di bottega ”.
E il canottaggio?
“Beh, successe che, dopo aver vinto qualche titolo italiano e il Mondiale juniores di singolo, dopo aver fatto parte della squadra olimpica per Mexico ’68 ed essere stato inserito in quella per Monaco ’72, fui squalificato. Mi punirono perché mentre ero in preparazione, per 200.000 lire al mese mi misi a giocare a pallone a Maccarese, in un campionato dove c’erano avanzi di galera e ex calciatori tagliagole, e uno di questi angioletti mi ruppe un ginocchio, facendomi perdere i mondiali in programma dopo pochi giorni in Canada e mandando in fumo l’investimento che era stato fatto su di me. Lì praticamente finì la mia carriera agonistica e cominciò quella giornalistica. Moretti cominciò a portarmisi dietro in occasione dei grandi avvenimenti, e intanto scribacchiavo sui giornali. Sul ‘Messaggero’, per esempio, facevo una rubrica – ‘La vita dei Circoli romani’ – che fu la prima di questo tipo mai apparsa su un quotidiano. Credo che tu, che la inventasti, te lo ricordi bene…”.
Mi ricordo di altre cose, che abbiamo fatto insieme al “Messaggero”…
“Eh, sì!… Le Olimpiadi. La rubrica ‘Il microfono di Galeazzi’. E poi, quando ero ormai da tempo in tv, lo scoop sul silenzio stampa degli azzurri ai Mondiali di calcio del 1982”.
Ma il passaggio alla televisione come avvenne?
“Guarda, alla radio guai a chi mi toccava, perché da bravo ragazzo di bottega stavo sempre lì dentro, dalle 8 alle 8, e insieme a Duccio Guida lavoravo per tutti senza parlare né di soldi né di orari. Mi piaceva. Nel 1976, però, arriva la riforma della Rai. TG1 e TG2 vengono sdoppiati e tutti quelli che facevano sport decidono di andare al TG2 con Maurizio Barendson. Al TG1, invece, il direttore era Emilio Rossi, che di tutto si intendeva e interessava tranne che di sport. Rossi non voleva mai pezzi di sport, proprio come ‘La Repubblica’, che quando uscì non aveva neppure l’edizione del lunedì. Di sportivi aveva con sé solo Tito Stagno, che però stava sempre a Cortina a prendere il sole, e Sandro Petrucci. Prese pure Paolo Rosi, che però era telecronista e si rifiutava di lavorare in redazione. Insomma, serviva una ragazzo di bottega pure lì e Rossi, che mi aveva conosciuto al GR2, a un certo punto mi fa chiamare da una segretaria che mi dice: ‘Lei da domattina è in servizio al TG1’. ‘Guardi che domattina alle 6 io devo fare il giornale radio’, rispondo io. Allora la segretaria mi passa il direttore, e lui si mette a sbraitare, picchiando il pugno sul tavolo. Rossi era potente: il giorno dopo stavo al TG1. I colleghi della radio ci misero qualche tempo, a perdonarmi: sai, a quell’epoca i televisivi giravano con due automobili a testa e i radiofonici in bicicletta… E invece non è che io, lì, mi divertissi troppo. Niente macchina né bicicletta, e oltretutto facevo venti pezzi al giorno ma in onda non ne mandavano mai uno. Niente. Sul nostro tiggì lo sport era tabù. Ci volevano pesanti interventi dei commandos laziali o romanisti interni per far sì che ogni tanto si parlasse di calcio. In compenso c’era la ‘Domenica Sportiva’, che all’epoca andava ancora forte, e Tito Stagno, che la curava, mi lanciò come inviato. Andavo in giro col cappellone, ti ricordi? Ed ebbi modo di lavorare con maestri come Beppe Viola…”.
Di tennis si occupava Guido Oddo, no? Era lui il telecronista del boom del tennis italiano.
“Sì, certo. Grande Guido… Quando veniva a Roma per gli Internazionali faceva subito l’abbonamento a qualche stabilimento balneare di Fregene, in modo da avere sempre una sdraio pronta sulla spiaggia. Se ne stava ad abbronzarsi dalle 9 alle 13, quand’era ora di venire a fare le telecronache. Amava il Foro Italico perché così vicino a Fregene e perché tanto, nella buca del Centrale, c’ero io a coprirlo sia quando lui prendeva il sole qualche minuto in più sia quando il sole calava sulle statue del Centrale e lui cominciava a essere stanco. Un gran signore, Guido. La mia carriera di voce del tennis lo devo tutta a lui”.
Con Oddo veniste anche in Cile, quando vincemmo la Davis… O mi ricordo male?
“No, no. Non venimmo. Ce lo proibirono. Ti ricordi il casino per via di Pinochet, no? La telecronaca la facemmo via tubo, da Roma. Anzi, dovevamo registrarla per farla in differita. Solo che il sabato, quando il doppio azzurro fece il punto della vittoria, Guido fu tradito dall’emozione. Guardando in bassa frequenza Nicola che piangeva, Panatta mezzo svenuto e tutti quella gente che zompava di gioia non ce la fece a trattenersi e rivelò il trionfo in diretta con un paio d’ore di anticipo”.
Così cominciò la tua lunga avventura…
“Sì, la conquista della Coppa proiettò il tennis nel paradiso della televisione. Prima, a parte la Davis e gli Internazionali, la Rai non faceva altro. Quando Panatta vinse Parigi mica c’era la diretta. Ma poi… Guido andò in pensione nell’81, dopo Wimbledon. Sono sicuro di essere stato il telecronista italiano con più ore di diretta sul groppone. Commentavo per sette-otto ore di seguito, giorni e giorni di seguito. E senza alcuna spalla, perché allora non usava. Ma ho avuto la fortuna di vivere dal di dentro quell’epoca fantastica. Gli italiani, Borg, McEnroe. Anni e anni in trincea: il tennis ha segnato più di qualsiasi altro sport la mia vita professionale, contribuendo a creare quello che ancora oggi è il mio personaggio. Caldo, emotivo, partecipe dell’evento che racconta, nel bene e nel male. Le lodi più belle per quell’epoca le ricevo adesso, dai quarantenni. Mi dicono: ‘Ma lo sai che la tua voce ha accompagnato la mia adolescenza? Tornavo da scuola, accendevo la televisione, e c’eri tu. Mi mettevo a studiare e quando riaccendevo c’eri ancora tu. Andavo a fare sport e quando tornavo eri sempre lì’.
“Certo, era un’altra tv. Ma la forza del tennis italiano era tale da permettere alla Davis di rompere i palinsesti, di incunearsi nei telegiornali, di prendersi i titoli d’apertura. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la concorrenza e il palinsesto è ferreo. Però se i nostri arrivassero alle fasi finali dei tornei del Grande Slam, o facessimo una semifinale di Davis con gli Usa, sono convinto che il tennis farebbe di nuovo un gran botto anche in tv. E non basterebbe l’Olimpico per contenere tutta la gente che vorrebbe venire. La passione per il nostro sport è sempre lì: cova sotto la cenere. C’è solo bisogno di chi ci butti sopra un po’ di legna ”.
La tua passionalità non andò esente da critiche…
“Eh, vabbè!!! E che devi fa’, in Coppa Davis? Il tifo per gli avversari? E’ logico che uno si scalda, no? Però con me la critica è sempre stata più tenera che con Guido Oddo. A lui, che pure era un telecronista di vecchio stampo, perciò il più possibile cauto e formale, non ne perdonavano una. Con me erano più indulgenti”.
Prima di diventare telecronista il tennis lo conoscevi già bene per motivi di circolo, no?
“Certo. Oltre che esserne stato atleta, io del Circolo Canottieri Roma sono socio dalla notte dei tempi. E Canottieri Roma vuole dire Nicola Pietrangeli, Carlo della Vida, Scribani, Jacobini. Gente che ha fatto la Coppa Davis. Piccari. Tommasi. Olivieri. Più tardi Orecchio. I Bartoni. C’era più tradizione tennistica che remiera. Durante gli Internazionali venivano tutti qua, ad allenarsi. Il tennis, insomma, ce l’avevo nel sangue. Giocavo, anche. Da nc ho fatto la Coppa Italia e la Facchinetti. A naso si direbbe che tennis e canottaggio sono due sport che più diversi non si può, uno muscolare e l’altro raffinato, e invece no, ti giuro che certe volte ho visto la Madonna sulla terra rossa così come la vedevo sull’acqua. Poi magari scendevo le scalette che portano giù al fiume, sul galleggiante, e andavo lo stesso in barca”.
Tu hai visto e giudicato quasi tutti gli sport del mondo, praticandone parecchi. Che cos’è che contraddistingue il tennis dagli altri?
“Guarda, il tennis ho avuto la fortuna di frequentarlo da vicino ai tempi dei grandissimi campioni degli anni 60 proprio qui al circolo. C’erano volte che venivano ad allenarsi gli australiani. Mi ricordo Laver ed Emerson che sotto il sole più cocente passavano ore e ore a bombardare col servizio dei cartoni di palle messi dall’altra parte della rete come bersagli. E intanto Nicola, qui, giocava a peppa fin verso le sette di sera e poi scendeva a palleggiare con il fresco. Lì cominciai a capire che il tennis non era uno sport per fighette. Poi, viaggiando e tastando con mano, ne ebbi la conferma ai quattro angoli del mondo. Il tennis non è un gioco. E’ una disciplina dura per il cervello e per il corpo.
“Credo che anche in Italia si sarebbe potuta affermare una cultura ‘all’australiana’, ma purtroppo il boom del tennis degli anni ’70 da noi fu sfruttato a fini speculativi e non sportivi. Si preferiva stipare i ragazzini in campo a pagamento anziché dedicarsi a farli crescere davvero. Chi avrebbe dovuto fare formazione si trasformò in industriale, mentre le società sportive, i circoli, si riempivano di quarantenni e toglievano i campi ai bambini. E’ allora che abbiamo perso il treno, permettendo che il solco che separava i quattro vincitori della Davis dal resto degli italiani si allargasse proprio nel momento in cui il tennis era diventato uno sport popolare. La passione che ribolliva sugli spalti del Foro Italico, dove si affollavano tifosi così accesi da far impallidire quelli del calcio, non fu mai canalizzata nella giusta direzione. Vero, non c’era un pubblico ‘wimbledoniano’, come avrebbero voluto Clerici e Tommasi, però c’era gente che magari non mangiava pur di comprarsi il biglietto. Energia pura che è andata dispersa”.
Fra gli azzurri di oggi chi preferisci? Che ne pensi di Volandri? A chi lo paragoneresti, fra i tennisti italiani dei tempi tuoi?
“E’ molto up-and-down. Certe volte ti esalta e certe ti deprime. Mi piace, ma un po’ mi manda ai pazzi, come diciamo a Roma. Mi ricorda il soldatino Barazzutti, il cui tennis era tutto disciplina e sudore”.
Starace?
“Grande carattere. Però quanto a tennis ha ancora dei buchi neri. E’ il carattere che gli permette di vincere a dispetto di quei buchi. In questo mi ricorda Ocleppo”.
E le ragazze? Nessuno ne parla mai…
“Fantastiche. Lavorano in silenzio e fanno grandi risultati. Però bisogna prendere atto che la Fed Cup non è la Davis. La Davis è uguale da più di cent’anni. La Fed Cup e molto più giovane e cionostante l’hanno già cambiata mille volte. E’ questo, il loro problema”.

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GALEAZZI, LA VOCE DELLA RACCHETTA

Intervista a Giampiero Galeazzi, da “SuperTennis” del giugno 2005

di Giancarlo Baccini

Giampiero Galeazzi voga verso i sessanta con la prorompente vitalità di sempre. Da 35 anni racconta lo sport con lo stesso mix di competenza e tifo, di goliardica baldanza e sensibilità umana, di humour e passione. Certe sue telecronache olimpiche sono entrate nella leggenda della televisione, e anche se oggi la nuova Rai persiste autolesionisticamente nell’affidargli ruoli da intrattenitore più che da giornalista, la sua popolarità non ne è scalfita, anzi. Non c’è emittente radiofonica che non punti sulle prodezze lessicali di un qualche suo imitatore, tanto da darti l’impressione che non ci siano più che un’unica stazione e un’unica voce, la sua. Essere imitati è una consacrazione.
Galeazzi è stato il testimone televisivo degli anni d’oro del tennis italiano. Una storia cominciata quasi per caso.
“Appena laureato tutto volevo fare meno che il giornalista. – racconta – Anzi, io i giornalisti li odiavo. Facevo canottaggio, e quando ascoltavo qualche telecronaca l’incompetenza era tale da farmi provare umiliazione. Però, come spesso succede nella vita, poi è andata a finire che ho fatto il giornalista. Dice: perché? Perché all’epoca collaboravo un po’ con il giornaletto federale, solo allo scopo di far circolare le informazioni nel nostro ambiente, e fui chiamato dal Giornale Radio regionale del Lazio per portargli i risultati di canottaggio delle gare che si facevano qui vicino a Roma, a Castelgandolfo. Sai, di canottaggio a quell’epoca nessuno sapeva niente… Così cominciai a frequentare la redazione della Rai, che stava a Via del Babuino, e rimasi folgorato da mostri quali Ciotti, Ameri, Moretti, gente che ti faceva venire i brividi per come padroneggiava il microfono. E, a dispetto dei miei progetti e di quelli di mio padre, che mi organizzava colloqui al Banco di Napoli, al Banco di Sicilia e via dicendo, finii per diventare il loro ragazzo di bottega ”.
E il canottaggio?
“Beh, successe che, dopo aver vinto qualche titolo italiano e il Mondiale juniores di singolo, dopo aver fatto parte della squadra olimpica per Mexico ’68 ed essere stato inserito in quella per Monaco ’72, fui squalificato. Mi punirono perché mentre ero in preparazione, per 200.000 lire al mese mi misi a giocare a pallone a Maccarese, in un campionato dove c’erano avanzi di galera e ex calciatori tagliagole, e uno di questi angioletti mi ruppe un ginocchio, facendomi perdere i mondiali in programma dopo pochi giorni in Canada e mandando in fumo l’investimento che era stato fatto su di me. Lì praticamente finì la mia carriera agonistica e cominciò quella giornalistica. Moretti cominciò a portarmisi dietro in occasione dei grandi avvenimenti, e intanto scribacchiavo sui giornali. Sul ‘Messaggero’, per esempio, facevo una rubrica – ‘La vita dei Circoli romani’ – che fu la prima di questo tipo mai apparsa su un quotidiano. Credo che tu, che la inventasti, te lo ricordi bene…”.
Mi ricordo di altre cose, che abbiamo fatto insieme al “Messaggero”…
“Eh, sì!… Le Olimpiadi. La rubrica ‘Il microfono di Galeazzi’. E poi, quando ero ormai da tempo in tv, lo scoop sul silenzio stampa degli azzurri ai Mondiali di calcio del 1982”.
Ma il passaggio alla televisione come avvenne?
“Guarda, alla radio guai a chi mi toccava, perché da bravo ragazzo di bottega stavo sempre lì dentro, dalle 8 alle 8, e insieme a Duccio Guida lavoravo per tutti senza parlare né di soldi né di orari. Mi piaceva. Nel 1976, però, arriva la riforma della Rai. TG1 e TG2 vengono sdoppiati e tutti quelli che facevano sport decidono di andare al TG2 con Maurizio Barendson. Al TG1, invece, il direttore era Emilio Rossi, che di tutto si intendeva e interessava tranne che di sport. Rossi non voleva mai pezzi di sport, proprio come ‘La Repubblica’, che quando uscì non aveva neppure l’edizione del lunedì. Di sportivi aveva con sé solo Tito Stagno, che però stava sempre a Cortina a prendere il sole, e Sandro Petrucci. Prese pure Paolo Rosi, che però era telecronista e si rifiutava di lavorare in redazione. Insomma, serviva una ragazzo di bottega pure lì e Rossi, che mi aveva conosciuto al GR2, a un certo punto mi fa chiamare da una segretaria che mi dice: ‘Lei da domattina è in servizio al TG1’. ‘Guardi che domattina alle 6 io devo fare il giornale radio’, rispondo io. Allora la segretaria mi passa il direttore, e lui si mette a sbraitare, picchiando il pugno sul tavolo. Rossi era potente: il giorno dopo stavo al TG1. I colleghi della radio ci misero qualche tempo, a perdonarmi: sai, a quell’epoca i televisivi giravano con due automobili a testa e i radiofonici in bicicletta… E invece non è che io, lì, mi divertissi troppo. Niente macchina né bicicletta, e oltretutto facevo venti pezzi al giorno ma in onda non ne mandavano mai uno. Niente. Sul nostro tiggì lo sport era tabù. Ci volevano pesanti interventi dei commandos laziali o romanisti interni per far sì che ogni tanto si parlasse di calcio. In compenso c’era la ‘Domenica Sportiva’, che all’epoca andava ancora forte, e Tito Stagno, che la curava, mi lanciò come inviato. Andavo in giro col cappellone, ti ricordi? Ed ebbi modo di lavorare con maestri come Beppe Viola…”.
Di tennis si occupava Guido Oddo, no? Era lui il telecronista del boom del tennis italiano.
“Sì, certo. Grande Guido… Quando veniva a Roma per gli Internazionali faceva subito l’abbonamento a qualche stabilimento balneare di Fregene, in modo da avere sempre una sdraio pronta sulla spiaggia. Se ne stava ad abbronzarsi dalle 9 alle 13, quand’era ora di venire a fare le telecronache. Amava il Foro Italico perché così vicino a Fregene e perché tanto, nella buca del Centrale, c’ero io a coprirlo sia quando lui prendeva il sole qualche minuto in più sia quando il sole calava sulle statue del Centrale e lui cominciava a essere stanco. Un gran signore, Guido. La mia carriera di voce del tennis lo devo tutta a lui”.
Con Oddo veniste anche in Cile, quando vincemmo la Davis… O mi ricordo male?
“No, no. Non venimmo. Ce lo proibirono. Ti ricordi il casino per via di Pinochet, no? La telecronaca la facemmo via tubo, da Roma. Anzi, dovevamo registrarla per farla in differita. Solo che il sabato, quando il doppio azzurro fece il punto della vittoria, Guido fu tradito dall’emozione. Guardando in bassa frequenza Nicola che piangeva, Panatta mezzo svenuto e tutti quella gente che zompava di gioia non ce la fece a trattenersi e rivelò il trionfo in diretta con un paio d’ore di anticipo”.
Così cominciò la tua lunga avventura…
“Sì, la conquista della Coppa proiettò il tennis nel paradiso della televisione. Prima, a parte la Davis e gli Internazionali, la Rai non faceva altro. Quando Panatta vinse Parigi mica c’era la diretta. Ma poi… Guido andò in pensione nell’81, dopo Wimbledon. Sono sicuro di essere stato il telecronista italiano con più ore di diretta sul groppone. Commentavo per sette-otto ore di seguito, giorni e giorni di seguito. E senza alcuna spalla, perché allora non usava. Ma ho avuto la fortuna di vivere dal di dentro quell’epoca fantastica. Gli italiani, Borg, McEnroe. Anni e anni in trincea: il tennis ha segnato più di qualsiasi altro sport la mia vita professionale, contribuendo a creare quello che ancora oggi è il mio personaggio. Caldo, emotivo, partecipe dell’evento che racconta, nel bene e nel male. Le lodi più belle per quell’epoca le ricevo adesso, dai quarantenni. Mi dicono: ‘Ma lo sai che la tua voce ha accompagnato la mia adolescenza? Tornavo da scuola, accendevo la televisione, e c’eri tu. Mi mettevo a studiare e quando riaccendevo c’eri ancora tu. Andavo a fare sport e quando tornavo eri sempre lì’.
“Certo, era un’altra tv. Ma la forza del tennis italiano era tale da permettere alla Davis di rompere i palinsesti, di incunearsi nei telegiornali, di prendersi i titoli d’apertura. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la concorrenza e il palinsesto è ferreo. Però se i nostri arrivassero alle fasi finali dei tornei del Grande Slam, o facessimo una semifinale di Davis con gli Usa, sono convinto che il tennis farebbe di nuovo un gran botto anche in tv. E non basterebbe l’Olimpico per contenere tutta la gente che vorrebbe venire. La passione per il nostro sport è sempre lì: cova sotto la cenere. C’è solo bisogno di chi ci butti sopra un po’ di legna ”.
La tua passionalità non andò esente da critiche…
“Eh, vabbè!!! E che devi fa’, in Coppa Davis? Il tifo per gli avversari? E’ logico che uno si scalda, no? Però con me la critica è sempre stata più tenera che con Guido Oddo. A lui, che pure era un telecronista di vecchio stampo, perciò il più possibile cauto e formale, non ne perdonavano una. Con me erano più indulgenti”.
Prima di diventare telecronista il tennis lo conoscevi già bene per motivi di circolo, no?
“Certo. Oltre che esserne stato atleta, io del Circolo Canottieri Roma sono socio dalla notte dei tempi. E Canottieri Roma vuole dire Nicola Pietrangeli, Carlo della Vida, Scribani, Jacobini. Gente che ha fatto la Coppa Davis. Piccari. Tommasi. Olivieri. Più tardi Orecchio. I Bartoni. C’era più tradizione tennistica che remiera. Durante gli Internazionali venivano tutti qua, ad allenarsi. Il tennis, insomma, ce l’avevo nel sangue. Giocavo, anche. Da nc ho fatto la Coppa Italia e la Facchinetti. A naso si direbbe che tennis e canottaggio sono due sport che più diversi non si può, uno muscolare e l’altro raffinato, e invece no, ti giuro che certe volte ho visto la Madonna sulla terra rossa così come la vedevo sull’acqua. Poi magari scendevo le scalette che portano giù al fiume, sul galleggiante, e andavo lo stesso in barca”.
Tu hai visto e giudicato quasi tutti gli sport del mondo, praticandone parecchi. Che cos’è che contraddistingue il tennis dagli altri?
“Guarda, il tennis ho avuto la fortuna di frequentarlo da vicino ai tempi dei grandissimi campioni degli anni 60 proprio qui al circolo. C’erano volte che venivano ad allenarsi gli australiani. Mi ricordo Laver ed Emerson che sotto il sole più cocente passavano ore e ore a bombardare col servizio dei cartoni di palle messi dall’altra parte della rete come bersagli. E intanto Nicola, qui, giocava a peppa fin verso le sette di sera e poi scendeva a palleggiare con il fresco. Lì cominciai a capire che il tennis non era uno sport per fighette. Poi, viaggiando e tastando con mano, ne ebbi la conferma ai quattro angoli del mondo. Il tennis non è un gioco. E’ una disciplina dura per il cervello e per il corpo.
“Credo che anche in Italia si sarebbe potuta affermare una cultura ‘all’australiana’, ma purtroppo il boom del tennis degli anni ’70 da noi fu sfruttato a fini speculativi e non sportivi. Si preferiva stipare i ragazzini in campo a pagamento anziché dedicarsi a farli crescere davvero. Chi avrebbe dovuto fare formazione si trasformò in industriale, mentre le società sportive, i circoli, si riempivano di quarantenni e toglievano i campi ai bambini. E’ allora che abbiamo perso il treno, permettendo che il solco che separava i quattro vincitori della Davis dal resto degli italiani si allargasse proprio nel momento in cui il tennis era diventato uno sport popolare. La passione che ribolliva sugli spalti del Foro Italico, dove si affollavano tifosi così accesi da far impallidire quelli del calcio, non fu mai canalizzata nella giusta direzione. Vero, non c’era un pubblico ‘wimbledoniano’, come avrebbero voluto Clerici e Tommasi, però c’era gente che magari non mangiava pur di comprarsi il biglietto. Energia pura che è andata dispersa”.
Fra gli azzurri di oggi chi preferisci? Che ne pensi di Volandri? A chi lo paragoneresti, fra i tennisti italiani dei tempi tuoi?
“E’ molto up-and-down. Certe volte ti esalta e certe ti deprime. Mi piace, ma un po’ mi manda ai pazzi, come diciamo a Roma. Mi ricorda il soldatino Barazzutti, il cui tennis era tutto disciplina e sudore”.
Starace?
“Grande carattere. Però quanto a tennis ha ancora dei buchi neri. E’ il carattere che gli permette di vincere a dispetto di quei buchi. In questo mi ricorda Ocleppo”.
E le ragazze? Nessuno ne parla mai…
“Fantastiche. Lavorano in silenzio e fanno grandi risultati. Però bisogna prendere atto che la Fed Cup non è la Davis. La Davis è uguale da più di cent’anni. La Fed Cup e molto più giovane e cionostante l’hanno già cambiata mille volte. E’ questo, il loro problema”.

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BOCCIATO PANATTA

Adriano Panatta, candidato a far parte del Consiglio Comunale di Roma, è stato bocciato dagli elettori. L’ex-tennista, che figurava nella “Lista Civica per Rutelli”, ha racimolato appena 431 preferenze, piazzandosi al nono posto fra i compagni di lista. Meglio di Panatta ha fatto anche il signor Rusu, esponente della comunità rumena (587 voti).

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