Sinner, la scalata. Un anno da “maestro” per giocare in casa le ATP Finals (Cocchi). Covid-season, parte 2a. Berrettini e la fiducia: “Meglio di un anno fa”. Sonego e le Finals: “Per me un sogno” (Azzolini). Tutte le volte che Federer era finito (Mecca)

Sinner, la scalata. Un anno da “maestro” per giocare in casa le ATP Finals (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Tra pochi giorni inizierà ufficialmente il 2021 del tennis. Una stagione che si spera il più possibile vicino alla normalità e che vedrà la sua conclusione con le Atp Finals di Torino. L’atto conclusivo del circuito maschile arriva per la prima volta in Italia dove rimarrà, sempre nel capoluogo piemontese, fino al 2025. Si giocherà al Pala Alpitour dal 14 al 21 di novembre con la speranza di vedere un italiano tra gli otto qualificati in singolare. Mai come adesso le possibilità sono alte, con Matteo Berrettini che inizia la stagione da numero 10 al mondo, Fabio Fognini nuovo di zecca dopo la doppia operazione alle caviglie e, soprattutto, con Jannik Sinner (nella foto) lanciato verso la top 20. Senza dimenticare il numero 3 italiano Lorenzo Sonego che alla fine della stagione 2020 è riuscito nell’impresa di battere Novak Djokovic, numero 1 al mondo, nei quarti di finale di Vienna. […] Osservato speciale Sinner ha chiuso il 2020 da numero 37 al mondo ma se non fosse stato per il congelamento delle classifiche, lo avremmo trovato già tra primi 20 della classifica mondiale. Il 19enne altoatesino allenato da Riccardo Piatti non ama parlare di obiettivi di classifica ma quello che ha messo in mostra nel mozzicone di stagione 2020 non può che essere incoraggiante. Quarti di finale al Roland Garros contro Nadal a cui ha strappato un set, primo titolo Atp a metà novembre a Sofia, Jannik è già l’osservato speciale numero 1 per l’anno appena iniziato. Tanto che lo stesso Rafa lo ha voluto come compagno di allenamento nella bolla di Melbourne alla vigilia dell’Australian Open che partirà l’8 febbraio, primo Slam del 2021. Un primo passo verso il sogno Finals? Jannik cammina coi piedi di piombo: «Tutt vorrebbero raggiungere un traguardo così importante — ha detto dopo la vittoria del titolo Sofia —. Per ora il mio obiettivo ì giocare almeno 60 partite»

Covid-season, parte 2a (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Non è la normalità che il tennis andava cercando. C’è poco da fare. Chi “s’ingrugna fa due fatiche; dicono a Roma. Si va verso la seconda stagione con l’asterisco, da affidare agli almanacchi con una nota a margine: Covid Season, dove niente fu come prima. Si comincia il 7. Delray Beach, Florida, è un torneo che esiste da sempre (si giocava a febbraio). Antalya, Turchia, un torneo invece che esiste da pochissimo, ma sa come vendersi (o svendersi). Tre anni fa era su terra rossa, l’anno dopo su erba (lo vinse Sonego), quest’anno su cemento. L’Australian Open si sposta di tre settimane causando uno tsunami. Cancella gli approdi di Brisbane e Sydney e li spinge a Melbourne, organizzati in una unica “bolla” anti-covid con lo Slam. Chi accetta paga dazio e resta al confino in città, un mese e mezzo con annessa quarantena. Indian Wells ha comunicato che per marzo non ce la fa, ma non intende cancellarsi. Essendo una creatura del Paperone Larry Ellison nessuno metterà fretta. Miami è il primo “big event” confermato nelle sue solite date, va in scena il 24 marzo. Se il vaccino darà una mano, sarà quella la prima data “covid free”? Troppo presto per dirlo. […] Il tennis, anno per anno, crea un suo racconto. Non si può saltare dei capitoli senza smarrirne il filo. E’ la continuità a fare da voce narrante, a distribuire le fatiche e i perché. Il blocco di marzo, protrattosi fino a giugno, ha prodotto un tennis quasi imbarazzante. Il Cincinnati a Flushing Meadows una mostruosità. US Open inguardabili, con una finale priva di senso, giocata da uno (Zverev) e vinta dall’altro (Thiem). Parigi sulla terra bagnata, uno scherzo della natura, con palle che nel corso della partita diventavano nodi come chihuahua (e c’è chi giura, fra i tennisti, di averle sentite abbaiare). Gli unici match da ricordare sono giunti alle Finals, a rodaggio ultimato. Una corrida emozionante in semifinale fra Thiem e Nadal e una finale fra Medvedev e Thiem che il russo ha confezionato con mano da scacchista. Una normalità nella quale continua a non ritrovare il suo posto Federer. Abbandonata l’idea di trascinarsi agli Australian Open (intendiamo sul campo, per il resto c’è la first class), Roger tiene con il fiato sospeso metà del tennis, anche se nessuno lo vede più da un anno. La spiegazione del nuovo stop solleva apprensioni: non è in forma come vorrebbe, lui che non ha mai faticato a trovare le migliori condizioni. Si teme una terza operazione al ginocchio destro, le conseguenze soprattutto. Dovesse saltare anche i mesi di mezzo, con Wimbledon e i Giochi Olimpici, i suoi obiettivi dichiarati, rivederlo in campo rientrerebbe nella categoria dei miracoli. Altrimenti, probabile una ripartenza sul sintetico di Rotterdam a fine febbraio. Su Antalya punta il grosso della truppa azzurra. Hanno deciso per la Turchia Berrettini (prima testa di serie), Fognini (terza), Sinner (settima), Travaglia e Caruso. Da Cecchinato il primo forfait. Mager è in partenza per Delray Beach. Sonego comincerà direttamente in Australia, ma viene da uno stage con Nadal nell’Academy con il toro sul logo. I numeri ci sono (a Melbourne già 9 in tabellone), le qualità anche ma dovranno presto rimettersi in circolo, fluenti e generose. Berrettini ha risolto i problemi alla caviglia. E’ voglioso. Dovrà ritrovare il passo che nel 2019 gli permise di resistere agli scontri più cruenti. Nel 2020 è parso preda d’incertezze causa di irreparabili blocchi. Si sa, sforzarsi di mettere da parte i dubbi – da sempre il segno dell’intelligenza di un individuo – è impresa ardua. Meglio gestirli invitandoli a visitarlo in orari lontani dai match. Il Fogna ricomincia da Mancini. Nuovo coach, antichi obiettivi. Strana coppia, destinata magari a funzionare benissimo. Ma non più strana delle precedenti (Davin e Barazzutti). La scelta di Fabio da tempo cade su coach che da tennisti furono quanto mai distanti dal suo gioco, dalle sue fragilità, quasi il nostro voglia dare forza e contenuti alla parte più instabile di sé. «Voglio togliermi soddisfazioni – annuncia, assicurando che sarà nel Tour per altre tre stagioni – ma tra Finals e Montecarlo scelgo il bis nel Principato». Chi ancora non si pone simili domande è Sinner. Sta facendo tutto in fretta, ma gli chiedono tutti di darsi una mossa. Non il suo team, per fortuna. Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette… L’obiettivo giusto sembra quello indicato, giocare un numero alto di partite. Significa restare nei tornei più a lungo e moltiplicare le possibilità di battersi con i molto forti. Intanto, con i forti Jannik si allea (e si allena). Dato che la bolla di Melbourne consente di allenarsi con un unico partner, Semola si è fatto ingaggiare da Nadal. Se l’obiettivo è diventare campioni, i campioni vanno studiati.

Berrettini e la fiducia:”Meglio di un anno fa” (Daniele Azzolini, Tuttosport)

«Riparto in condizioni migliori rispetto a un anno fa. Il 2019 è stato un anno speciale, ma ho giocato cosi tanto che la mia caviglia ne ha sofferto. Sono rientrato a Melbourne nel 2020 da infortunato, poi c’è stato il lungo stop per il covid, e tutto è diventato più difficile. […] IL PROBLEMA. «Sono diventato un giocatore da battere, un top ten. Ora è più difficile, ma è il giusto prezzo da pagare. Il mio team mi sostiene, Santopadre è convinto che la mia ascesa sia stata cosi rapida da non concedermi il tempo di immagazzinare e sedimentare tutte le svolte che si sono succedute. Da questo punto di vista, un 2020 senza grandi scosse alla classifica può tradursi in un vantaggio. La voglia di crescere è intatta». GLI OBIETTIVI. «Facile dirlo. Giocare tutti i tornei più importanti. A cominciare dagli Australian Open. Mi porto dietro alcuni risultati del 2019 da confermare e magari migliorare. C’è un ottavo a Wimbledon, insieme con tutta la bella stagione sull’erba. E sullo sfondo, c’è la possibilità di giocare le prime Finals italiane a fine stagione. Il confronto si presenta affascinante»

Sonego e le Finals:”Per me un sogno” (Daniele Azzolini, Tuttosport)

«I giorni trascorsi a Manacor, nell’Accademia di Nadal, sono stati importanti per l’entusiasmo che mi hanno messo addosso. L’anno parte con una buona notizia, in Australia sarò testa di serie grazie al forfait di Federer. Un peccato non vederlo in campo, con Roger i tornei acquistano sempre un rilievo diverso, ma per me un piccolo tesoro da far fruttare». IL PROBLEMA. «Nessuno in particolare, ma il confronto è ormai di quelli duri da sostenere. Occorre crescere ancora, non smettere di farlo. […] Sono stato tra gli ultimi a battere Djokovic (a Vienna; ndr), un momento esaltante, ma so che ripartire da lì non è facile. E come potrebbe esserlo?» GLI OBIETTIVI. «Il sogno sono le Atp Finals a Torino, la mia città. Ma può prendere forma solo da come riuscirò a giocare i tornei più importanti. Nel 2020 per la prima volta ho raggiunto un ottavo negli Slam, al Roland Garros. La voglia di dare seguito e migliorare questo tipo di risultati è tanta. Essere testa di serie in Australia mi può aiutare, ma il resto ce lo devo mettere io»

Tutte le volte che Federer era finito (Giorgio Mecca, Il Messaggero)

“Non vedremo mai più il Roger Federer di una volta”. Così scriveva Simon Barnes sul Times il 27 giugno del 2013. Il giorno prima era stato costretto ad assistere all’eliminazione del campione in carica, sconfitto al secondo turno da Sergiy Stakhovsky, il numero cento e qualcosa del ranking mondiale. Non succedeva da nove anni, ovvero da trentasei edizioni del Grande Slam, che lo svizzero venisse eliminato prima dei quarti di finale. Basta una sconfitta a fare tabula rasa del passato: sette volte Wimbledon, diciassette Slam, settantasette titoli conquistati fino a quel momento smettono di significare qualcosa. […] Superati i trent’anni le sconfitte non sono mai sconfitte e basta, ma campanelli d’allarme, rappresentano piccoli terremoti, avvicinano di un passo il baratro, il sipario, l’ultima stretta di mano, la parola ex che compare davanti al proprio nome, il momento in cui sarebbe conveniente, elegante e rispettoso nei propri confronti ammettere la resa, dichiarare che lo spettacolo è terminato, game over, finito per sempre. Smetto quando voglio. Due mesi dopo, durante gli Us Open, viene scagliata un’altra pietra. “È evidente che Roger Federer si trovi davanti alla fase finale della sua carriera”, sentenzia Chris Evert commentando la sconfitta del tennista agli ottavi di finale contro Tommy Robredo. “Adesso basta, Roger mio, basta, fermati, ti prego”, lo supplica Gianni Clerici che non vuole assistere allo strazio e all’ostinazione di una leggenda che sembra non accettare che il proprio tempo sia scaduto. Federer in quel momento ha trentadue anni e quando gli chiedono se gli capita mai di pensare al ritiro lui risponde secco di averci già pensato. “E quindi cosa hai deciso di fare?”. “E quindi ho deciso che continuo a giocare”. Quattro anni e zero titoli, “una piccola eternità”, come scrive il giornalista svizzero Renè Stauffer nel suo libro Roger Federer. La biografia definitiva (SperlingeKupfer). Nel 2014 lo svizzero cambia racchetta e allenatore, sceglie di affidarsi all’esperienza di Stefan Edberg che lo aiuta a inventare un nuovo colpo, la Sabr, ovvero Sneak Attack by Roger, cioè attacco a sorpresa di Roger, definito dal New York Times “una mezza volée da kamikaze”. Dal punto di vista dei risultati, che nel tennis professionistico sono la cosa più importante, non raccoglie che le briciole, ai Championships perde due finali consecutive contro Novak Djokovic, il nuovo re: “Adesso basta Roger mio, ti prego fermati”. Come ci si rassegna al declino, al passo indietro durante le premiazioni, agli applausi obbligati nei confronti del vincitore, all’onore delle armi che ti viene concesso, “bravo comunque”, “grazie tante”? Nel 2009, dopo aver perso in finale agli Australian Open contro Rafa Nadal, dopo cinque set, quattro ore e ventitré minuti di partita, Federer non era riuscito a trattenere le lacrime. “It’s killing me”, ammise durante il discorso di premiazione, quella sconfitta lo stava uccidendo. In quel momento aveva ventotto anni, aveva giocato un match perfetto e non era bastato, stava cadendo, ma si sarebbe rialzato. Sette anni dopo anche il fisico, macchina perfetta fino ad allora, lo abbandona. Nei primi mesi della stagione, la numero diciotto da professionista, si rompe il menisco sinistro. Dopo il ginocchio, la schiena, poi di nuovo il ginocchio. Per la prima volta nella sua carriera, dopo sessantacinque apparizioni consecutive nei tornei del Grande Slam, è costretto a rinunciare a giocare il Roland Garros. E l’inizio della fine, i titoli a tal proposito si sprecano, prima di dare forfait a Parigi agli Internazionali d’Italia, aveva perso al terzo turno contro Dominic Thiem, una sconfitta che non gli aveva fatto male come le altre. Il suo obiettivo quel giorno, dirà in seguito, non era vincere, sperava solo di uscire dal campo indenne, senza sentire troppo dolore. Dopo l’uscita in scena dello svizzero, Nadal come al solito razionale, fa notare l’inevitabile: “Guardate che non siamo eterni”. Federer non partecipa nemmeno agli Us Open; “Se vuole tornare a essere competitivo”, assicurano dallo staff, “deve prendersi una pausa più lunga e rinunciare a metà della stagione”. […] La fine del 2016 appare l’anteprima di ciò che è imminente. “Non siamo eterni”. Roger Federer è vecchio, si è rotto, è stato ricucito: basterà? Le domande che lo riguardano sono sempre le stesse e sono tutte lecite: tornerà? Si, ma come? Saremo costretti a vederlo zoppicante, lento, immobile? Può ancora vincere? A trentasei anni e dopo tutta quella gloria non sarebbe meglio, non sarebbe più dignitoso, dire addio? Dopo centosettanta giorni senza tennis, più di mille giorni senza uno straccio di Slam e una clessidra che non si ferma, agli occhi di chi lo guarda scendere in campo, Roger Federer appare come un sopravvissuto, revenant: sguardo scavato, pieno di rughe, pallido, contratto, nessuno lo aveva mai visto sudare, adesso suda, “un’immagine sfocata e un bianco e nero di un vecchio televisore mal sintonizzato”, scrivono sul Daily Mail. Sarà straziante, vergognoso, una rockstar che non tiene più il tempo, a cui all’improvviso manca la voce, farà venire voglia di spegnere il televisore, di abbandonare il campo, di implorargli il ritiro. Meglio la nostalgia della pietà. Sono questi i pensieri che inaugurano gli Australian Open del 2017. Federer, pochi giorni prima, ospite all’Academy di Rafa Nadal a Maiorca, si era limitato a dire: “Sapevo già che la vita è bella anche senza tennis, ma ho la sensazione di avere ancora qualcosa da dire in questo sport”. Aveva ragione lui, come dimostra a Melbourne dove, da testa di serie numero diciassette, sconfigge uno a uno vecchi e nuovi campioni: Nishikori, Berdych, Wawrinka e poi, in finale, Nadal, dopo quasi cinque anni di niente e al termine di una delle partite più belle della storia di questo sport. “Avrei accettato anche il pareggio”, dirà lo svizzero alla fine della partita. E poi: “Spero di rivedervi il prossimo anno. E se non dovesse succedere è stato tutto meraviglioso e non potrei essere più felice di cosi”. Federer vince ancora, nello stesso anno, a Wimbledon, il diciannovesimo titolo della carriera. Per gli amanti dei cerchi che si chiudono e di poco altro, con la clessidra sempre in mano a fare il conto alla rovescia, quello era il momento migliore per dire addio. Come se, dal 2017 in poi, ogni occasione fosse quella buona per ritirarsi. Come scrive Matteo Codignola nel suo Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi) raccontando la carriera di Ken Rosewall, l’australiano numero uno al mondo negli anni Settanta, “Quando da un certo punto in avanti le domande erano tutte diventate perifrasi di una sola, `non pensi sia arrivato il momento di smettere?’, Kenny stupiva i cronisti con un’espressione attonita, o forse con un’espressione e basta”. La verità era che giocare a tennis gli piaceva ancora, e tutto sommato riusciva ancora a togliersi delle soddisfazioni. Alla domanda “Perché continuare?” Federer risponde con un’altra domanda, opposta. “Tutto sommato, perché smettere?”. […] E, ancora oggi, il numero cinque del mondo, non un vecchio mostro sacro che si trascina nel circuito per mancanza di alternative. Proprio per questo, perché smettere? L’undici dicembre scorso lo svizzero ha postato su Twitter un video della Atp, commentando: “Sono eccitato per quello che accadrà”. Pochi giorni dopo il suo manager ha annunciato che non giocherà gli Australian Open, ridando voce a ormai vecchie insinuazioni sui sipari, la fine che si avvicina, che forse è già arrivata, i quarant’anni come sentenza definitiva, la brutta ombra di un grande nome, quella domanda, che oltre a essere noiosa è anche una coltellata da ricevere, anche dopo sette anni: insomma non pensi che sia il caso di smettere, soprattutto dopo due interventi allo stesso ginocchio? Billie Jean King un giorno ha detto che uno dei suoi più grandi rimpianti è stato quello di avere smesso troppo presto (aveva quarant’anni). Secondo l’ex numero uno al mondo ogni giocatore dovrebbe aspirare ad avere una carriera soddisfacente, fatta di alti e di bassi, come accade nella vita reale. Non è obbligatorio ritirarsi da numeri uno, dopo un trofeo alzato al cielo. Soprattutto non c’è nessuno che abbia il diritto di dire a un campione che è arrivato il momento di smettere, nemmeno se pensa di farlo per il suo bene, perché non lo fa mai per il suo bene. Solo chi sta in campo conosce ciò a cui sarà costretto a rinunciare quando gli toccherà uscire per sempre. E cosi bisognerebbe aspettare il ritorno di Federer senza allusioni, domande in sospeso, giudizi sommari, senza paura del giocatore che si presenterà a Wimbledon nel 2021. Il suo obiettivo continua a essere quello di vincere le Olimpiadi di Tokyo, bisognerebbe dargli un’opportunità. Sul campo centrale dell’All England Club continua a esserci il suo nome sul tabellone che mostra il risultato della finale del 2019, vinta da Novak Djokovic 13 a 12 nel quinto set. Il tabellone non indica i due match point che ha avuto lo svizzero. Li ha persi, ci sono stati, non è finita.