Michael Chang: “Avrei potuto godermi di più la carriera, ma quando sei nel Tour ti senti invincibile”
Per chi non lo sapesse, oggi Michael Chang è l’allenatore di Kei Nishikori. Prima di essere coach però, da fine degli anni ‘80 e per gran parte degli anni ’90, è stato un giocatore di grande successo.
Nato il 22 febbraio 1972 in New Jersey da genitori taiwanesi, è un ex-N.2 ATP che ha nel suo palmarès 34 tornei vinti e 24 finali nel circuito ATP, una vittoria di Coppa Davis nel 1990 con gli Stati Uniti, un quarto di finale a Wimbledon nel 1994, una finale alle Finals nel 1995, una finale sia all’Australian Open che allo US Open, entrambe nel 1996 e, per ultima, anche se a livello temporale è stata la prima, la vittoria del Roland Garros del 1989, che lo rese il più giovane uomo a vincere uno Slam (record imbattuto ancora oggi); paradossalmente, questa vittoria così precoce sarebbe anche stata l’unica.
La sua partita più celebre però non fu la finale in sé, bensì il quarto turno contro Ivan Lendl, l’allora numero uno al mondo e vincitore di tre dei cinque Roland Garros precedenti – l’incontro fu presentato come l’epitome di “Davide contro Golia”. È questo il match che ci teniamo a ricordare, magari con l’ausilio audio-visivo.
Chang avrebbe vinto quel match 4-6 4-6 6-3 6-3 6-3, rimontando due set e rientrando in partita grazie a una grande forza mentale e intelligenza tennistica. Poco dopo l’inizio del quinto set, in preda ai crampi e non reggendosi quasi più in piedi, fu lì lì per ritirarsi e (come racconta lui stesso) mentre stava camminando verso il centro del campo per comunicare la decisione al giudice di sedia, una voce interiore gli disse di non farlo. A posteriori possiamo dire che quella voce avesse ragione. Non mollò e continuò a giocare, accorciando il più possibile gli scambi o rallentandoli con diversi pallonetti così da avere il tempo per sgranchirsi le gambe, sempre più stanche. Ad ogni cambio campo non perse occasione per bere lunghi sorsi d’acqua e mangiare banane che potessero dargli l’energia sufficiente per proseguire.
In quel quinto e decisivo set due sono i momenti più iconici: il servizio da sotto sulla seconda sul 4-3 15-30 che colse di sorpresa il ceco e il match point, sul quale andò posizionarsi sulla linea del servizio per rispondere a una seconda. Questa mossa causò una risata generale dello stadio e di conseguenza uno scossone nella mente di “Ivan il terribile”, che finì infatti per commettere doppio fallo e regalare la vittoria al quel teenager così impertinente.
LE PAROLE DI CHANG – Nel suo post su Behind The Racquet “Michelino”, come lo chiamava Gianni Clerici, non accenna alla sua straordinaria carriera, ma anzi racconta l’importanza di godersi ciò che offre la vita. Lui ammette di averlo fatto solo in parte, ma aggiunge che se potesse tornare indietro sicuramente agirebbe in modo diverso. Prosegue poi raccontando l’evoluzione del tennis moderno rispetto a quello dei suoi tempi.
Di seguito le sue parole:
“C’è una cosa che che probabilmente cambierei riguardo al mio periodo nel circuito: la mia mentalità. Quando sei nel Tour ti senti per certi versi invincibile. Non ti rendi conto di quanto velocemente passi il tempo. A volte sei là fuori a giocare e pensi: “Ok, ho finito per questa stagione. Avanti la prossima”.
Sono diventato professionista un po’ prima dei 16 anni e mi sono ritirato poco prima di compierne 32. Quegli anni son passati in un batter d’occhio. Col senno di poi, avrei potuto godermi qualche momento in più, per esempio le vittorie dei tornei. A volte vinci un torneo e, se è un torneo minore, lo dimentichi senza godertelo. Dici solamente qualcosa tipo: “OK, è stato un buon torneo, l’ho vinto. Testa alla prossima settimana”. Inoltre, probabilmente, mi sarei preso più tempo per godermi il secondo posto nella classifica mondiale.
Avrei anche cambiato la mia mentalità in certi aspetti dell’allenamento. Se avessi saputo che avrei giocato per oltre 15 anni, probabilmente avrei approcciato l’allenamento in modo diverso. Oggi i giocatori hanno una grande longevità grazie alla cura che si prendono del proprio corpo. Adesso questo processo è molto più avanzato e porta grandi benefici alla maggior parte dei giocatori più anziani. Molti Top 10 ora possono giocare fino ai 35 anni, se non addirittura oltre. Ai miei tempi non si sono viste cose simili”.
“Fare il coach non è molto difficile“, prosegue Chang parlando del suolo attuale, “visto che in tour la mia caratteristica principale era il cervello. Non avevo né la stazza né la potenza, dovevo ragionare per vincere i match. Da allenatore, seziono lo stile di un giocatore e creo una strategia, il che è simile a quanto facevo nel circuito in prima persona. Un aspetto più difficile dell’essere allenatore è stare seduto sugli spalti, sapendo di non poter fare niente di più per l’allievo durante la partita. È difficile continuare a guardare quando vedo uno schema che sta facendo male al mio giocatore e lui non lo coglie.
Per me, che stia aiutando Kei, mia figlia o un giocatore del club, si tratta solo di divertirmi e di aiutarli a migliorare. È gratificante vedere la soddisfazione sui loro volti quando dicono: “Lo capisco, ok. Wow, funziona!”. Per Kei le ricompense sono state i risultati ottenuti nel tour. Sono arrivati abbastanza velocemente, ed è stato un bene. Kei è uno di quei giocatori che imparano ad una velocità incredibile. Per molti versi, è l’allievo ideale, ed è una gioia da allenare”.
La chiusura è dedicata ai cambiamenti che hanno caratterizzato il tennis nelle ultime decadi: “Il tennis è cambiato di pari passo con la tecnologia delle racchette. Se si guarda alla mia generazione, si vede un bel mix di fondocampisti, tuttocampisti, giocatori specializzati nel serve-and-volley o nel chip-and-charge. C’erano un sacco di stili differenti contro cui giocare. Oggi non si vede molta varietà. I giocatori attuali possono generare più potenza e spin, sono cresciuti giocando con la nuova tecnologia e sanno come utilizzarla al meglio. Nessuno dei miei coetanei usa ancora le racchette e le corde che usava all’epoca, perché la nuova tecnologia ci permette di fare molto di più con minor sforzo“.
A cura di Lorenzo Zantedeschi