La Leonessa e il nemico più duro. “Ho vinto la partita della vita, sono rinata” (Cutò). La tennista che ha vissuto senza concedersi mai nulla (Mecca)

La Laonessa e il nemico più duro. “Ho vinto la partita della vita, sono rinata” (Massimo Cutò, Nazione-Carlino-Giorno Sport)

Conosce la frase di Ion Tiriac, il tennista romeno degli anni ’70 ora banchiere e manager miliardario? Tiriac diceva: nella vita come nel tennis, tutto quello che puoi prendi al volo. Ci si ritrova? (risata). «Molto carina, però non è il mio caso. Non prendo mai un treno purché sia, ho sempre deciso con cura il vagone prima di salirci su. Se non mi convince resto in stazione, aspettando il successivo. Ne ho lasciati passare molti prima, figuriamoci adesso che ho quarant’anni e sono diventata una donna più ponderata, razionale. Mi rendo conto di averle smontato l’intervista però la verità è questa». Eccola qui Francesca Schiavone, milanese, detta la Leonessa. Il genio e la classe al potere, la prima italiana a vincere un titolo del grande Slam: Parigi 2010, data storica. Una così non cade nella trappola delle domande precotte. La sua risposta può diventare imprendibile, come quelle riservate alle avversarie sul campo. Non a caso è stata la numero quattro del mondo. Non a caso il suo rovescio a una mano non trovava uguali. Non a caso ha appena battuto il nemico più subdolo e cattivo: il linfoma di Hodgkin. Francesca, che partita è stata? «Dura, difficile. Assolutamente imprevista. Avevo deciso di smettere con il tennis giocato, decisione comunque difficile. Però ero carica, mi appassionava l’idea di fare l’allenatrice. Tanto ancora da offrire, dopo una vita con la racchetta in mano a colpire palline. E invece è arrivato questo tumore». Perché ha deciso di ritirarsi due anni fa? «Non riuscivo più a esprimermi alla maniera di Francesca. E’ complicato spiegare come funziona un giocatore: nello sport non hai il tempo di pensare, fai solo scelte immediate. Studi la tattica in anticipo, prepari così bene la partita che durante il match vai in automatico.

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«Facevo fatica. In allenamento avevo bisogno di pause ogni quarto d’ora, roba mai successa prima. Ho pensato: hai 38 anni, è arrivato il momento di smettere. A posteriori ho capito che mi stava arrivando addosso qualcosa a cui proprio non pensavo».

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E poi? «E poi cominci le cure. Tra una seduta e l’altra hai il tempo di pensare, una cosa che sul campo era impossibile. Affronti il nemico, lo accetti, fai di tutto per combatterlo. Senza retorica ma con la forza di volontà. Ho cercato di portare a casa la partita, come sono stata abituata a fare». Quanto era grande la sofferenza? «La chemio è una brutta bestia. Le vene bruciano, hai le braccia illividite dalle flebo. Ti sale la nausea: non vedi l’ora che il dolore passi». Ma la Leonessa è abituata a lottare. Come quella volta agli Australian Open: era il 2011, giusto? «Una battaglia incredibile con Svetlana Kuznetsova, giocatrice russa eccezionale. Un punto io, uno lei, vantaggio mio, vantaggio suo. II pubblico credeva che saremmo andate avanti all’infinito. Ho vinto dopo 4 ore e 44 minuti: record di durata per il tennis femminile». Ha avuto la tentazione di gettare la spugna e sciogliersi sotto una doccia bollente? «Dopo il match mi trascinavo, perfino camminare era una tortura. Negli spogliatoi il massaggiatore mi ha spinto nella vasca d’acqua ghiacciata. I piedi facevano pena. Ho guardato le dita: sotto le unghie c’erano grumi di sangue, dall’alluce al mignolo. C’è voluta un’ora e mezza per pulirle con l’ago, un po’ alla volta». Questo è accaduto nella sua prima vita: c’era una volta una bambina con un sogno grandissimo nel cuore? «Un chiodo fisso. Volevo diventare una campionessa e vincere il Roland Garros: ci pensavo ogni notte prima di addormentarmi e ce l’ho fatta. Carattere, disciplina, talento, lavoro, lealtà, fiducia in te stesso, voglia di arrivare: devi mettere tutte le risorse in campo. Il tennis rende le persone migliori.

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Poi è cominciata la seconda vita: chi l’ha aiutata nella difficoltà? «La famiglia come sempre ha fatto. Mia madre, che ha avuto un male simile al mio e mi ha spiegato che perdere i capelli non è la fine del mondo. Mio padre, che mi ha spronata dicendomi: mi faccio rasare a zero anch’io. E mi ha fatto bene pregare. Quante volte ho mormorato al buio: se supero questo momento, prometto prometto prometto…».

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A fine percorso ha scritto un libro intitolato La mia rinascita. Perché? «Per la regola del 5, il numero del destino. Ho vinto Parigi il 5 giugno 2010, quando ho baciato la terra rossa. Ho chiuso con il tennis il 5 settembre 2018. Ho fatto l’ultima chemio il 5 novembre 2019. E dopo un mese, il 5 dicembre, è arrivato il verdetto dei medici: il linfoma non c’era più. Una gioia totale, assoluta. Ho creduto che potesse servire raccontare la mia storia». Ha paura che la malattia torni? «Sì, a volte. Capita all’improvviso. Devo fare le analisi e invece rimando, rimando. Poi capisco che è meglio andare, mi preparo e vado». Che cosa si aspetta ora? «Ho imparato a stare nel presente. Ho aperto sui Navigli un bistrot che si chiama Sifà: buon cibo, olio e vino. Sapori che mi piacciono. La terza vita comincia da lì, il resto si vedrà»

La tennista che ha vissuto senza concedersi mai nulla (Giorgia Mecca, Corriere Torino)

I cartelloni sparsi per tutta la città mostrano i volti di Rafa Nadal, Matteo Berrettini e invitano a fare presto, perché i biglietti sono già in vendita per le Atp Finals, il torneo che dal prossimo novembre porterà al PalAlpitour gli otto migliori giocatori al mondo e trasformerà Torino nella capitale del tennis. In attesa di Roger Federer, Novak Djokovic, il nostro campione di casa Lorenzo Sonego o chi per loro, in attesa del tennis giocato, c’è quello raccontato e finalmente coniugato al femminile. Oggi alle 18.30 nell’ambito di Vita Nova, la manifestazione digitale organizzata dal Salone del Libro, sulla pagina Facebook della Trebisonda, la libreria di via Sant’Anselmo, la scrittrice Elena Marinelli presenterà il suo nuovo libro: «Steffi Graf. Passione e perfezione»

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Più di cento tornei, ventidue slam, Wimbledon (sette volte), Roland Garros, un oro e un argento alle Olimpiadi; in totale 377 settimane da numero uno del mondo e un record che non è ancora stato intaccato: nessuna giocatrice dopo di lei è riuscita a vincere il Grande Slam. Il libro di Marinelli — il primo della collana «Vite inattese» della casa editrice romana scritto da una donna con protagonista una donna — oltre al racconto dei successi, dei trofei alzati verso il cielo, oltre all’agonismo, alla rivalità con le avversarie racconta l’aspetto privato della giocatrice, i lati nascosti e quelli oscuri, ciò che accade quando il pubblico smette di applaudire e le campionesse escono dal campo.

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Dicono che è fredda, distante, si sbagliano, vuole solo essere lasciata in pace, giocare a tennis, la cosa che sa fare meglio. Se potesse lo farebbe indossando ogni volta uno scafandro. E arrivata lontano, la figlia di Peter, rinunciando all’infanzia, all’adolescenza, sorrisi, a pensieri che fossero alternativi al tennis. Tutto per una manciata di anni in cima al ranking, per la soddisfazione di una stretta di mano al termine di una partita, per la gioia effimera che si prova negli istanti successivi a una vittoria.

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La tennista tedesca ha vissuto anni senza concedersi niente di meno che la perfezione, ogni performance poco meno che perfetta diventava un fallimento. Lo sport ai massimi livelli può diventare insostenibile e spingere le campionesse a ritirarsi prima del previsto. Vista da una prospettiva totalmente femminile, la vita di Steffi Graf ma il tennis in generale, si carica di dettagli nuovi e di una nuova sensibilità. Non si legge mai il nome del marito Andre Agassi nel libro, da sola la vita di Steffi Graf, basta e avanza.