Gli inganni della carriera junior, in un senso e nell’altro: i casi di Quinzi e Berrettini
Nel precedente articolo abbiamo trattato l’incidenza che può avere una vittoria Slam junior nella carriera di un giocatore. Probabilmente il paragone più consono in merito a questo argomento è proprio tra due giocatori italiani: Gianluigi Quinzi e Matteo Berrettini. Confrontare due carriere è sempre molto complesso – ogni obiettivo può essere raggiunto attraverso strade diverse – ma questo confronto fornisce spunti interessanti. Questi due ragazzi, entrambi classe 1996, hanno avuto percorsi da under diametralmente opposti. Se Quinzi ha collezionato vittorie su vittorie inanellando titoli importantissimi (Wimbledon, Bonfiglio, Coppa Davis) eraggiungendo i vertici del ranking junior, Berrettini è sempre stato una (se non addirittura due) categoria sotto, concentrando il grosso della sua attività internazionale solo nell’ultimo anno prima dei diciotto.
La differenza di livello tra i due allora sembrava netta: uno negli Slam gareggiava per il titolo, l’altro non aveva ranking per entrare direttamente in tabellone e doveva passare dalle qualificazioni. Diventa quindi interessante analizzare a fondo le differenze tra le scelte dei due ragazzi e le conseguenze che queste scelte hanno comportato nel bene e nel male.
GIANLUIGI – L’avvio di Quinzi nei primi tornei tra i pro fu tutt’altro che scoraggiante: il ragazzo infatti stupì subito nei primi Futures, raggiungendo un’inaspettata semifinale in Sud America qualche mese dopo aver vinto Wimbledon. Le cose iniziarono a peggiorare quando con l’arrivo delle prime sconfitte, a dir la verità più che prevedibili: il ragazzo iniziò a cambiare allenatori su allenatori (ne licenziò cinque in pochi mesi, nel 2015) andando cosi a interrompere quel processo di formazione cruciale durante l’età dello sviluppo fisico, tecnico e tattico. Questo, unito anche a diversi infortuni, tra cui uno alla spalla piuttosto serio, fece entrare il ragazzo in un vortice di alti e bassi da cui ancora oggi non riesce a tirarsi fuori. Sia chiaro, due titoli e una finale challenger con un best ranking di 142 ATP non sono numeri da cestinare, ma viste quali erano le premesse, è innegabile che tutti ci saremmo aspettati qualcosina in più.
MATTEO – Dall’altra parte invece c’è un ragazzo che, appartenendo a una categoria almeno in partenza (e col senno di poi anche in apparenza) inferiore, non ha sicuramente avuto i riflettori puntati addosso. Aiutato e ben consigliato dal suo team, non ha mai preso scelte frettolose che potessero compromettere la sua crescita e questo ha dato i suoi frutti quando si è affacciato nel circuito maggiore. Se dovessimo sintetizzare la carriera di Matteo con un tracciato in una tabella, ci troveremmo ad ammirare una linea continua verso l’alto dai 19 anni in poi, proprio perché la sua crescita non è stata repentina, ma costante al punto da rivelarsi inarrestabile.
Molti dei meriti vanno a Vincenzo Santopadre, storico coach di Berrettini, che lo ha seguito fin da ragazzo aiutandolo molto a formarsi sia in campo che fuori. Le scelte tecnico-tattiche e quelle di programmazione sono sempre state fatte in funzione dell’obiettivo a lungo termine, mai alla ricerca ossessiva del risultato. Inoltre Santopadre nei momenti difficili ha sempre avuto il merito di far capire a Matteo che avrebbe dovuto trarre il meglio dal peggio e che anche un episodio negativo come ad esempio può essere un grave infortunio, può invece rivelarsi un’occasione per lavorare e crescere su altri aspetti non meno importanti. Proprio Santopadre, in un’intervista dell’aprile 2019, ci aveva raccontato che un vecchio infortunio al polso aveva aiutato Matteo a migliorare il back di rovescio perché in quelle settimane non poteva colpire con due mani.
Berrettini non ha quasi mai bruciato le tappe. Le basi per costruire un gran 2017, l’anno della sua esplosione, vennero gettate l’anno precedente quando un serio infortunio al ginocchio sinistro lo costrinse ai box da febbraio fino ad inizio ottobre, periodo che Matteo utilizzò per passare molto tempo con il mental coach, per lavorare con il preparatore sul proprio fisico al fine di prevenire ulteriori infortuni e per staccare la spina passando più tempo con la propria famiglia. Al rientro da quell’infortunio la carriera del tennista romano è decollata.
CONCLUSIONI – Ad oggi i numeri ci dicono che tra i due non c’è paragone: Berrettini è numero 8 ATP e semifinalista in carica dello US Open, Quinzi è fuori dai 300. Il tennis ci ha però insegnato che nulla è scritto; abbiamo infatti visto negli anni giocatori che non sembravano fenomeni dare una svolta alla loro carriera con un solo torneo. Tutto questo per dire che il percorso perfetto non esiste, ognuno deve costruirsi il proprio: se da piccolo vinci molto e sei ai vertici è giusto fare programmazioni di un certo tipo, altrimenti è corretto fare un percorso più graduale. Quello che in primis allenatore e giocatore non devono perdere mai di vista è l’obiettivo a lungo termine, perché in fondo l’attività junior è solo una piccola parte del viaggio.
Carlo Piaggio