La Piccola Biblioteca di Ubitennis. Top 10 dei libri sul tennis (seconda parte)

Top 10 dei libri sul tennis (prima parte)

6 (a). Agassi A., Open, Einaudi, 2011

Come il suo gioco ha cambiato il tennis contemporaneo, probabilmente il suo libro ha riscritto il modo di fare le autobiografie. Aprire Open vuol dire salutare per un paio di giorni chi vive con voi. Non farete altro che leggere, leggere e leggere. E vivere con fastidio qualsiasi interruzione, sia essa moglie, telefono, amante o cibo. Effetto Stephen King per chi frequenta il genere. Circa cinquecento pagine in cui il talento tutto americano di chi scrive (J. R. Moehringer) si fonde perfettamente con l’incredibile storia di Agassi. Più che un’autobiografia, un romanzo di formazione a stelle e strisce in cui un ragazzino povero e martirizzato da un padre orco, riuscirà a trovare l’amore e la pace non prima di essere passato da sconfitte esistenziali, fallimenti matrimoniali e aver danzato a lungo col demone luccicante del successo.

Il drama che incalza ogni riga è però il tennis, o meglio la relazione con il tennis. Nel caso di Agassi una cosa meravigliosa imposta con violenza dalla quale non puoi scappare perché è l’unica cosa che sai fare. È la cosa che detesti di più e quella a cui devi tutto. Drammaturgicamente un vero dilemma. Esistenzialmente un prigioniero, poco importa se la gabbia è d’oro. Open in fondo è una lunga seduta dall’analista in cui Agassi con disarmante sincerità spurga tutti i suoi demoni e li rende pubblici. Con simili presupposti non deve stupire che il premio Pulitzer Moehringer ha trasformato tutto questo materiale narrativo in un libro stupendo che però non saprei definire diversamente da falso capolavoro. Al tavolo manca un grande invitato: il tennis giocato.

6 (b). Agassi M., INDOOR (con Cobello M.), tr. Astremo R., Pickwick, Milano, 2004 

Se volete trasformare Open in un capolavoro dovete integrarne la lettura con Indoor, il suo insostituibile controcampo. Se (Andre) Agassi, coi suoi anticipi futuristici, i suoi schiaffi al volo è stato il prototipo – inconsapevole – del tennista contemporaneo, Mike (Agassi) è stata la mente, il demiurgo e il mandante visionario dell’attuale Tennisduepuntozero. Indoor è la storia di un uomo intraprendente che scappa dall’Iran (prima Persia) e arrivato da ultimo in America trasferendo sui figli una pazzesca ambizione di riscatto sociale (bruciandone due su tre). Ma se la vita di Mike, da sola, è mille volte più interessante di quella di André (fidatevi), è sul piano squisitamente tennistico che il libro ci fa vedere come pensava l’eretico che avrebbe cambiato per sempre la storia del tennis. Il tennis dell’epoca era uno sport ancora di nicchia, molto educato e lento. Mike lo studia e vuole farlo diventare più veloce, più potente, più spettacolare. In due parole mescola al tennis i principi della boxe.

Il vero problema del Tennis è che era lento. I giocatori stavano lungo la linea di fondo e aspettavano che la palla rimbalzasse e risalisse verso l’alto prima di colpirla con il polso bloccato. Ci voleva tanto di quel tempo che potevi andare a vedere un film, tra un colpo e l’altro”. Poi aggiunge. “Io avevo una mia teoria: se si fosse potuto velocizzare la risposta – colpendo la pallina prima, o più forte, o tutte e due – per l’avversario sarebbe stato più difficile recuperarla. Il gioco sarebbe diventato più veloce e più eccitante, quindi più popolare, e più remunerativo. Il mio obiettivo non era insegnare ai miei figli il tennis degli anni Sessanta e Settanta. Quello che volevo insegnare ai miei figli era il tennis del futuro. Traferendo sul tennis il suo riscatto sociale Mike diventa un eretico con la presunzione di riscrivere la grammatica balistica del gioco. Sapevo dalla mia esperienza di pugile che per dare forza a un colpo devi usare anche il polso. Perché non applicare la stessa tecnica a una racchetta di tennis?”.

Indoor è un libro che tra le tante cose è soprattutto una risposta alle tante accuse sulla sua figura. Semplicemente Mike voleva per Andre e i suoi fratelli, una vita diversa e migliore della sua. In fondo ha avuto ragione.

7. Bottazzi L., C. Rossi, Il codice del tennis. Bill Tilden. Arte e scienza del gioco, Guerini Next, 2015

Sembrerebbe ovvio ma non è così. Bottazzi e Rossi hanno il merito di scrivere un libro che non c’era. Il codice del tennis. Bill Tilden. Arte e scienza del gioco restituisce all’orizzonte tennistico contemporaneo la storia, l’arte e la scienza di quello che è probabilmente il tennista più importante della storia del tennis. Il Big Bang che ha generato quello che vediamo oggi. Il corpo centrale del testo è costituito dalla traduzione pressoché integrale di “The art of lawn tennis” del 1921, sul quale si innestano in maniera organica ampie parti di “Match play and the spin of the ball” del 1925 e “How to play better tennis” 1950. Il tutto introdotto da una breve e toccante biografia e chiuso dal Codice Tilden, una ampia e ragionata analisi sulle tematiche principali del grande Bill che non si è limitato a vincere tutto fino a quarant’anni suonati, ha pure scritto i principi fondamentali dei colpi, di fatto il primo manuale da coach, ed è riuscito a capire la direzione che avrebbe preso il tennis con cento anni d’anticipo (prevede l’avvento del professionismo, la quasi scomparsa dell’erba, l’omologazione delle superfici, il ridimensionamento del gioco di volo a discapito di un attaccante coi colpi di rimbalzo).

Ricordo che la sfera di cristallo è datata 1920. Insomma, ci dicono gli autori, non solo è imbarazzante che molti maestri di Tennis non conoscono Tilden e i suoi precetti, ma è semplicemente pazzesco che ancora oggi non ci sia un solo stadio in America dedicato a lui. Sembrerebbe quasi che il tennis contemporaneo abbia rinnegato proprio il giocatore che più di tutti ha influito nel crearlo. E dire che pochi possono raccontare di aver vissuto una vita come la sua: ha dominato il tennis per un ventennio, ha vissuto come un imperatore, ha scritto una ventina di spettacoli teatrali, compare nel libro lolita di Nabokov, subì due processi per omosessualità e morì con soli ottantotto dollari. La ricca bibliografia che chiude il volume e la tensione degli autori di restituire al presente la storia del tennis colloca il libro, ma se aggiungiamo il recente Tennis 100 anni di storie, nel meraviglioso solco aperto da Clerici, lodato sempre sia lodato.

8. J. McPhee, Tennis, a cura di Matteo Codignola, Adelphi Editore 2013

1968, semifinale di Forest Hills. Due statunitensi, uno bianco e uno nero. Uno conservatore e uno no. Con la precisione millimetrica di un chirurgo John McPhee disegna, attraverso una partita di tennis, il profilo di Arthur Ashe e di una società intera. Quando la cronaca di un match si trasforma in letteratura e storia sociale.

9. Gilbert B. (con Jamison S.), Vincere sporco (Winning ugly), trad. it. Gibertini V., Priuli & Verlucca Editore, 2013, pagg. 313

Questo libro (tradotto in italiano dal nostro Vanni Gibertini) sta in questa classifica così come il tennis di Gilbert è entrato in top 10. Non per diritti acquisiti ma per meriti conquistati. Un libro sorprendentemente utile anche al giocatore di club che non disdegna analisi acutissime sul tennis dei campioni. Se Elvis è l’uomo che ha portato il corpo dentro dentro il rock, Gilbert è quello che ha portato Machiavelli dentro il tennis. Un maestro zen cattivo che gioca (e vince) dentro i problemi dell’avversario, perché il tennis è fatto al 20% di braccio e all’80% di testa.

10 (a). Holm M. e Roosvald U. (2014), Game. Set. Mach. Borg, Edberg, Wilander e la Svezia del grande Tennis, add editore, Torino, 2016

Della grande rivoluzione bionda in grado di portare anche cinque giocatori nei primi quindici del mondo non rimane traccia se non nei video su youtube e in un immaginario collettivo che grazie alla figura enigmatica e totemica di Borg si è innamorato del Tennis. Il libro racconta la stagione irripetibile che ha trasformato la piccola Svezia nella capitale tennistica del mondo. Attraverso le vicende e i ricordi dei tre Number One (Borg, Wilander, Edberg), Holm e Roosvald ricostruiscono il clima culturale dei fantastici anni Ottanta e dintorni. Una luce preziosa per penetrare il mistero di Borg con quella impermeabilità magnetica, enigmatica e irresistibile. Più che uno sportivo una specie di protomanuale della comunicazione. Zero parole, massima visibilità. Più che un campione un puro logo. Un’icona che trascendendo l’uomo e il gesto sportivo entra a gamba tesa nel costume e nella realtà quotidiana di migliaia di persone. Più o meno il sogno bagnato di ogni prodotto pubblicitario. Ma di Borg, come dei Beatles, si è già detto e scritto già di tutto. Tranne forse raccontare la storia da un punto di vista culturalmente “interno”. Credo sia il grande merito del libro in questione. Guardare Borg con occhi svedesi e incastonarlo in una realtà storica socialdemocratica che ha prodotto un’incredibile trilogia di numeri uno, prima dell’attuale vuoto cosmico.

10 (b) Bertè L. (con Pagani M.), Traslocando. È andata così, Rizzoli, 2015

Come per Agassi serve almeno un controcampo per poter leggere la tridimensionalità di un campione che ha coinciso con la sua immagine, così bisogna fare per Borg. E non ci può essere nessun controcampo migliore che la splendida biografia di Loredana Berté, prima fidanzata di Panatta poi moglie di Borg. La prima dark lady del tennis. Una che ha vissuto una vita che è concessa a pochi e che in Traslocando ce la racconta senza filtri. Evidentemente non è un libro sul tennis ma gli aneddoti su Borg sono drammaticamente favolosi ancorché siano il resoconto del fallimento di un sogno impossibile. Quello tra una donna che non ha mai perdonato al mondo le ferite che questo ha fatto a una bambina calabrese e un ragazzo semplice con un cognome troppo pesante da indossare, sprofondato lentamente nelle dipendenze, nella paranoia e nella noia di vivere. Insomma un libro anomalo e kamikaze che tennisticamente ci restituisce in maniera brutale la distanza siderale con i nostri giorni politicamente corretti.

“A New York avevo visto John McEnroe impazzire durante un concerto di Santana e salire sul palco all’improvviso per duettare con Carlos. A John del tennis fregava poco. Sicuramente meno di quanto amasse la musica. Si faceva le canne e animava l’eterogeneo gruppetto che si dava appuntamento nel locale che Jim Belushi aveva rilevato nei dintorni del porto. Era un anfratto di quarta categoria, con le mignotte come avvoltoi rapaci sulla porta, che Jim aveva comprato in una notte di follia e generoso sperpero. Camminavamo insieme e gli venne sete. Si fermò davanti alla porta e chiese semplicemente: «Qui si beve?» «Certo» «Quanto costa?». «Quanto costa cosa?» «Il locale. Da adesso è mio. Lo compro». E lo comprò davvero, riempiendolo dei suoi amici. C’era Woody Allen che non sapeva suonare la chitarra, ma attaccava il jack sulle casse e gli bastava per essere felice…

Di quegli anni incredibili e irripetibili Borg ne costituì la figura più emblematica. Fu il detonatore di un’intera epoca e il più vulnerabile, il meno attrezzato a viverla. Con quel fisico perfetto, con quel carisma misterioso, con quei silenzi iconici che invece di proteggere un animo solitario, curioso e spaurito scatenarono le lusinghe e la morbosità di una società che aveva trovato la gallina dalle uova d’oro. Loredana è stata tante cose. Tra queste, è stata bellissima ed è ancora la nostra piccola P.J. Harvey italiana, anzi calabrese.

Leggi tutte le recensioni della libreria di Ubitennis!