Parigi spaccatutto (Azzolini). Rafa patriottico, Nole mistico. Per tutti un solo avversario (Cocchi). Borg-McEnroe Wimbledon 80. Gli incredibili (Carotenuto)

Parigi spaccatutto (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Alla fine, ciò che rende simili tutte le guerre del tennis – laceranti la gran parte, ma certo vivificanti – è la loro sintomatologia. Le rende riconoscibili, per certi aspetti comprensibili, e le stringe in un unico capitolo di questa lunga saga ancora in divenire. L’attuale CoronaTennis War è solo l’ultima battaglia di una guerra già più volte combattuta. Lo dimostrano le strategie sul tavolo. Su tutte, la decisione francese di spostare senza alcun preavviso la data del Roland Garros. La storia insegna… Che siano state battaglie o semplici baruffe, disfide o vere e proprie esplosioni belliche, le guerre del tennis hanno sempre mostrato i primi sintomi con un lieve rialzo febbrile dovuto alle incomprensioni tra poli opposti e non comunicanti.

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In realtà i signori di Wimbledon e del Roland Garros, di Tennis Australia e della Usta a NewYork hanno da sempre giocato su più tavoli, talvolta decidendo i destini delle contese tramite alleanze im previste. Tanto più quando le febbriciattole – tornando alla sintomatologia – hanno assunto la veemenza di febbri da cavallo, con momenti di totale assenza di lucidità. Situazioni in cui lo scontro finale, meglio se epocale, è apparso come l’unica cura possibile. A questi scontri bellici ha fatto però da contrappunto, sempre, la ricerca di un buon pretesto in grado di occultare il reale motivo della disputa. Quello di assumere una posizione di privilegio nell’eterna disputa fra le componenti del tennis internazionale. E il Coronavirus che fa morti ovunque alla “leder” francese dev’essere apparso un ottimo appiglio. Ma dite, esiste guerra senza cinismo? Fu Wimbledon a prendere le distanze dalla Itf nella prima battaglia del tennis. Era il 14 dicembre del 1967. In una rapida riunione, la federazione britannica decise che la distinzione tra dilettanti e professionisti non aveva più motivo di essere. I signori di Wimbledon non ne avrebbero più tenuto conto. E che gli altri facessero come meglio credevano.

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Gli organizzatori più tradizionalisti del mondo si ritrovarono sul carro del modernismo più sfrenato, pretendendo quel passaggio al tennis “open” che la federazione respingeva da non meno di 40 anni, da quando Suzanne Lenglen (nel 1926) aveva deciso di farsi pagare per mettere in mostra le sue volée da ballerina.

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In quello stesso 1967, il petroliere texano Lamar Hunt, descritto come un Rotschild sommato a un Rockfeller, aveva messo in piedi il Wct, e il primo contratto lo avevano firmato in otto, subito ribattezzati gli Handsome Eight, gli Otto Belli. Il tennis stava già cambiando, le sirene del professionismo risuonavano e i signori di Wimbledon non volevano ritrovarsi a fare il torneo con quattro gatti. La spinta decisiva venne dagli organizzatori dell’altro grande torneo mondiale, i National Championships americani, ben disposti a trasformarli in Us Open. La seconda tegola si abbatté sulla Itf alla fine di febbraio 1968. De’ Stefani a malincuore riunì la federazione in forma straordinaria a Parigi, e il 30 marzo 1968 venne varato il nuovo regolamento, in cui si creava nel calendario una nicchia per dodici manifestazioni “open, cioè aperte a professionisti e dilettanti. Era un cambiamento epocale che avrebbe fatto del tennis lo sport più professionalizzato e internazionale fra tutti. Nel 1973, quasi per contrappasso, fu Roma a sgambettare Wimbledon. A dar fuoco alle polveri, la squalifica comminata dalla federazione jugoslava a Nikki Pikic (reduce dalla finale del Roland Garros persa contro Nastase) che non aveva accettato la convocazione in Davis preferendo disputare un torneo. La sentenza fu del giugno 1973: tre mesi di stop, poi ridotti a uno. Spettava agli Internazionali, in calendario subito dopo Parigi, dar fuoco alle polveri, ma gli organizzatori italiani fecero finta di non capire, addussero come spiegazione la scarsa chiarezza del comunicato e accettarono Pilic. La pallina bollente passò a Wimbledon, e a Pilic fu rifiutata l’iscrizione. Immediata scattò la protesta dei giocatori: 79 degli 83 iscritti alla neonata Atp si rifiutarono di giocare i Championships. Vennero esentati i più giovani, ancora sotto tutela federale, e i giocatori dell’Est Europa, che avrebbero rischiato di non uscire più dai confini dei rispettivi Paesi. Wimbledon si ritrovò per quell’anno con un tabellone quasi del tutto spopolato di campioni: vinse Kodes su Metreveli, in compenso il torneo superò ogni record di pubblico e d’incassi. Ma la nuova Atp aveva in qualche modo superato la prova e il tennis aveva un nuovo padronato di cui tenere conta Il bello è che lo chiamavano “il sindacato”. Nel 1988 fu un manipolo di giocatori, Wilander e Noah in testa, a riproporre il tema dell’eccessivo potere dei dirigenti. Si riunirono in un piazzale di Flushing Meadows, pronti a fermare tutto. Non accadde, ma da allora il tennis non è mai riuscito a darsi un governo unico, capace di mediare fra le diverse istanze.

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È da queste febbri intermittenti che nasce la mossa di Bernard Giudicelli, capo della federazione francese e vicepresidente Itf. Se il Roland Garros non si può giocare secondo calendario, decidiamo noi quando giocarlo. Pare abbia sentito Nadal, poi ha fatto di testa sua. E ha deciso per i 15 giorni dal 20 settembre al 4 ottobre. Ne è uscito un calendario che, ammesso si giochino Wimbledon e le Olimpiadi costringerebbe il tennis alla follia di quattro appuntamenti “major” in meno di tre mesi, con la rinuncia a una serie di tornei incolpevoli di trovarsi in quella zona del calendario, compresa la Laver Cup di Federer. La risposta Atp non si è fatta attendere, con un comunicato che ha bloccato l’attività dei giocatori fino ai primi di giugno (compresa dunque la “vecchia” data del Roland Garros), ha tacciato certi comportamenti di slealtà ed egoismo, e soprattutto ha annunciato di procedere in modo concorde, in questa disputa, di fianco alla Wta, ai tornei di Wimbledon, Australian Open e Us Open, e addirittura alla stessa Itf. Parigi è rimasta sola. Ma ha fatto il miracolo di riunire, per la prima volta, tutti gli altri. Resta una sola domanda: fino a quando?

Rafa patriottico, Nole mistico. Per tutti un solo avversario (Federica Cocchi,, La Gazzetta dello Sport)

Tra i tennisti era la voce che più mancava in questo delicatissimo momento. La più attesa sia perché Rafa Nadal, eroe nazionale spagnolo, parla a nome del secondo Paese europeo maggiormente colpito dall’emergenza dopo il nostro, sia perché la rivoluzione delle date nel circuito Atp colpisce soprattutto lui. Il numero 2 al mondo, abituato a dominare sulla terra in primavera, dovrà invece spostare tutta la concentrazione alla fine dell’estate con risultati non prevedibili al momento. Rafa, però, nella sua uscita pubblica dopo, diverso tempo si è concentrato solo sulla battaglia contro il coronavirus: «Ciao a tutti. Innanzitutto mi scuso se non mi sono fatto vivo per un po’, ma questi sono tempi duri per chiunque. L’intera situazione è più grande di noi. Voglio ringraziare tutto il personale sanitario che ci sta proteggendo. Voglio anche mandare un messaggio di incoraggiamento a tutte le famiglie che stanno soffrendo: speriamo di superarlo al più presto».

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A metà pomeriggio è comparso pure Novak Diokovic. Si è aggiunto via social, completando l’appello del big 3. Per Nole niente video, ma un testo mistico, a cuore aperto, e in allegato una foto di vita familiare, un selfle sorridente mentre la moglie Jelena gioca in casa con i due figli: «Prego per la vostra salute e la vostra guarigione. Possa Dio guarire qualsiasi malattia voi abbiate, fisica, mentale o spirituale. Possa lui darvi salute, energia e gioia Non possiamo essere sani se il nostro mondo non è sano – ha scritto Djokovic -. Proviamo davvero a trascorrere del tempo di qualità con la famiglia a casa, godendoci le piccole cose della vita. È una grande opportunità». Insomma, anche lui, come il collega spagnolo, riesce a trovare una luce tra tanto buio: «Stando a casa speriamo non solo di aiutare a rallentare la diffusione di questo virus, ma ci daremo anche la possibilità di affrontare emozioni che avevamo dimenticato. Dobbiamo scavare in profondità e rigenerarci ad ogni livello del nostro essere». Polemica Chi, invece, ha usato i social come scudo è stato Stefanos Tsitsipas: nei giorni in cui tutto il mondo si fermava, il greco era in viaggio alimentando polemiche da cui si è dovuto difendere.

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Borg-McEnroe Wimbledon 80. Gli incredibili (Angelo Carotenuto, Corriere dello Sport)

Diciotto minuti dopo le due di pomeriggio, ora di Londra, ci sono suppergiù ventitré metri di distanza fra questi due uomini così lontani e cost diversi. L’erba che li separa è alta non più di otto millimetri, come sempre qui, dove ogni dettaglio nel tempo è diventato parte del Rito. La prima domenica di luglio a Wimbledon è per il tennis come la messa di Natale pei cristiáni.. Disse una cosa del genere e mólto meglio Giorgio Bassani tempo fa, niente è cambiato da allora, neppure oggi, 5 luglio 1980, con un tipo biondo e dai capelli lunghi in fondo al campo, un altro tutto riccioli e nervi di qua, pronto a battere la prima di servizio di una finale che presto chiameremo la partita più bella di sempre.

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0ltre la rete in attesa si soffia sul palmo della mano Bjorn Borg, svedese, tre anni in più. Questa è casa sua. Qui dentro non perde da trentaquattro partite di fila e non è certo la trentacinquesima che vuole regalare. Ha vinto quattro titoli, ma sotto lo sguardo di quindicimila persone stavolta sa di avere un gran rivale. Sarebbe banale se fossero solo due avversari. Sono molto di più, sono due poli, due stili di gioco, due archetipi. Dall’anno scorso John è per i tabloid di qui Superbrat, cioè il Moccioso, perché sfascia le racchette, scuote il seggiolone degli arbitri, urla insulti irripetibili. Sembra che stia al mondo per un continuo regolamento di conti. Con il rivale, con la vita, forse solo con se stessi. È irascibile, provoca, cerca la rissa. Bjorn invece è detto l’Orso con molta meno fantasia. È serafico, altero, pare insensibile. In realtà lo è diventato da un giorno all’altro, giurando a se stesso e al suo maestro che mai più avrebbe dato di matto su un campo per ritrovarsi poi in mille pezzi, fragile, esposto. (…)

Borg è spuntato dal nulla. Prima di lui in Svezia non c’è stato nemmeno un tennista in grado di vincere uno Slam. È il frutto di un piano didattico di diffusione dello sport nelle scuole voluto dal governo socialdemocratico. Il padre gli ha comprato una racchetta e lui si è messo a martellare il muro del garage, fino a diventare quello che adesso è sotto i nostri occhi, una icona pop del suo Paese – (…)

McEnroe oggi è partito più forte di lui, subito un set avanti (6-1) e tre volte una palla break per portarsi 5-4 e servizio nel secondo. Sta giocando il suo solito tennis, che è ricerca ossessiva della rete, meglio se subito, appena dopo il servizio. McEnroe ha cambiato il gioco d’attacco. Ha sostituito la leggerezza con l’energia. È il primo a spingere la volée, non solo a toccarla. È come se portasse con una chitarra elettrica un colpo che prima di lui si giocava con il piumino per la cipria. John è un fantasista quanto regolarista è l’altro, il semi robotico Bjorn, eppure a suo modo geniale nell’imporre al mondo un gesto che esisteva ma che lui ha portato all’eccellenza: il rovescio a due mani. Ha messo il brevetto sul top spin, la palla colpita dal basso verso l’alto con un movimento di polso. È il suo instancabile schema. Il punto è che quando i regolaristi scelgono di spiazzarti, non sai più come prenderli. Questo succede adesso. Sotto nel gioco e nel punteggio, Borg sta decidendo di rubare la strategia di John. Scende a rete. Spesso. Non sta improvvisando, figurarsi Nell’estate più piovosa degli ultimi 101 anni in Inghilterra, si è allenato giorni e giorni al coperto mentre McEnroe si logorava di lunghe attese nel suo albergo.

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Quello che stiamo guardando è in fondo un classico dello sport, il conflitto tra la concretezza e l’eleganza, per la prima volta nel tennis dopo Coppi contro Bartali, dopo Ali contro Frazier, dopo Lauda contro Hunt Lo stiamo guardando noi, nel senso di tutti, perché il tennis con Borg è arrivato dove mai prima, in televisione, sebbene queste palline bianche con cui giocano oggi pomeriggio si vedano poco e male, e prima o poi – c’è da esserne certi – ne useranno di colorate, magari gialle o forse verdi. Quando negli anni scorsi ha vinto a Wimbledon, Borg si è sempre inginocchiato. Ora gli manca un punto solo per farcela di nuovo, 5-4, 40-15, due match point nel quarto set. Ma un punto nel tennis è una montagna. Mc ne piazza lui quattro di fila: un passante, poi un uncino al volo, un terzo per un errore dello svedese e un altro con un angolo perfetto. La folla grida. Non perché faccia il tifo per lui ma perché con lo stesso biglietto vedrà del tennis in più. Stacy, la fidanzata di Mac, in tribuna si stringe il naso dentro un pugno. Si tormenta invece le mani Mariana Simionescu, la ragazza di Borg, tennista anche lei, si sposano fra qualche mese. Tie-break, allora. John smania. Gli dà fastidio la maglia sudata sulle spalle. Borg prende una riga, due volte il nastro sul servizio e si becca un’occhiata di McEnroe. Nei primi otto punti nessuno ha tolto il servizio all’avversario.

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Così, a forza di magie e nuove occasioni, sono già venti minuti che questi due giocano il tie-break, una cosa mai vista, sul 15-15 quasi dimenticano pure di cambiare campo. Unbelievable, unbelievable sta gridando il telecronista della BBC per i colpi di John, che ora riceve da sinistra, gioca di rovescio dal centro del campo su Borg in avanzamento, una manata maldestra, la palla che affonda nella rete, Stacy sulla balconata esausta che si appoggia alla ringhiera. Il tie-break è finito: 18-16 per il Moccioso. Avremo un quinto set,

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Mac regge fino a quando va a servire sotto per 6-7. Il tie-break al quinto non esiste. John è stanco. Prima strozza una mezza volée, poi si avventura a rete senza logica. Borg lo passa due volte. Undici minuti dopo le sei della sera, a distanza di un’ora e 13 dall’ultimo match point, a Björn ne tocca un altro. Mac si dondola e serve da destra, da dove gli è impedito di cercare l’angolo esterno che tanto gli piace. L’altro piazza una risposta di rovescio per assaggiare l’aria che tira. John prende il centro del campo ma gioca uno sgorbio che gli viene restituito sotto forma di passante, come un proiettile da fionda. Björn ha chiuso gli occhi e lo ha tirato, poi quando li ha riaperti, ha visto John che si è tuffato e la palla alle sue spalle. L’ultimo scambio è durato quattro tocchi. Borg si sta sbucciando di nuovo le ginocchia sull’erba. Dovrà rialzarsi, darsi una sistemata e fare l’inchino alla duchessa di Kent che gli porgerà il trofeo, mentre il più grande scrittore italiano di tennis, Gianni Clerici, sta cercando la frase perfetta per cominciare il suo articolo. Quando Björn alza la Coppa e la bacia, lui batte sui tasti della sua macchina per scrivere: «Sono stato tre ore e cinquantatré minuti senza fare la pipì»