La vittoria di Djokovic su Federer (Cocchi, Clerici, Azzolini). Sarà Kenin-Muguruza. Ultimo atto a sorpresa (Cocchi). Kenin, la bimba prodigio allevata dai fenomeni (Semeraro)

Implacabile Djokovic (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

Da una parte, un campione incredibile, per l’ottava volta in finale degli Australian Open, più di chiunque altro nella storia. Dall’altra Roger Federer, un fenomeno che ormai sconfina nel culto religioso. Era il loro 50′ match, le nozze d’oro di una splendida rivalità, sarebbe stato bello festeggiare assistendo a un’altra incredibile battaglia, come nell’ultimo Wimbledon, chiusa al quinto set e con un epilogo drammatico per il Magnifico. Niente da fare, la festa del 50′ è stata un flop, perché uno dei partecipanti ha dato buca. Eppure ci si era illusi che Federer, reduce dal quarto di finale miracoloso in cui ha avuto la meglio su Sandgren dopo aver annullato 7 match point, potesse farcela. Ma il sogno è svanito quando lo svizzero avanti 4-1 e con tre palle per il 5-1, ha iniziato a muoversi sempre peggio, soprattutto negli spostamenti laterali, prestando il flanco all’implacabile rimonta del serbo in grado di chiudere in tre set. L’inguine che gli aveva dato problemi contro Sandgren, costringendolo a un intervento del medico, è tornato a farsi vivo limitando i movimenti del campione di 20 Slam che, come nei quarti, non ha voluto abbandonare il campo prima della stretta di mano finale. Diventano cosa 1513 i match portati a termine da Roger senza mai ritirarsi. Una questione di rispetto, come quello che Djokovic ha tributato al rivale ferito. «Lo rispetto moltissimo per non essersi mai ritirato a match in corso — ha detto il serbo —. A me invece successo di mollare. So come ci si sente quando hai dolore sul campo. Conosco i pensieri che attraversano la mente, sul continuare a giocare o meno, col rischio che le cose possano peggiorare. Solo il giocatore sa cosa sta passando in quel momento. Ovviamente è difficile paragonare gli infortuni, ma è impressionante il fatto che non si sia ritirato una singola volta in tutta la camera». «È stato orribile — ha raccontato Roger —. Sono partito bene poi, man mano che giocavo ho capito che avrei avuto al massimo il 3 per cento di possibilità di vincere. È frustrante, non sarei sceso in campo se non avessi pensato di potercela fare. Ma quello che avevo non è bastato, perché Nole è implacabile, tecnicamente e mentalmente». L’appuntamento con Melbourne, per il sollievo generale, è soltanto rimandato: «Ho tutta l’intenzione di essere qui il prossimo anno, penso che per come mi sento e per il livello del mio gioco ho ancora chance di conquistare degli Slam. Ci credo fermamente, altrimenti non sarei qui», ha chiuso Roger. […]

Ma adesso ne sono certo. Roger è il più forte di tutti (Gianni Clerici, La Repubblica)

Mi ero sbagliato. Nel non considerare Roger Federer il più forte di tutti i tempi. L’avevo paragonato a Tilden, che avevo intravisto di fronte solo una volta in allenamento a Hollywood di cui mi ero fatto una immagine attraverso le sue sole due vittorie a Wimbledon, e la terza, dopo nove anni. Nel frattempo Tilden aveva vinto ben sette campionati americani senza mai riuscire a imporsi a Parigi, dove era giunto da vecchio, e mai uno a Melbourne, per le difficoltà del viaggio. Di fronte a questo c’erano i 38 anni di Federer, in un’epoca in cui oramai si viaggia in aereo e di certo non mancano i denari per il biglietto. Nel mio piccolo, avendo scritto il più venduto libro di tennis del mondo, mi ero rifiutato di scrivere una sua biografia, perché ne ho acquistate quattordici, e mi faceva orrore di copiarne quel che c’era di buono. Oggi mi sono alfine reso conto che Federer è il più forte tennista mai nato, nel vederlo perdere la semifinale di uno Slam contro un tennista a cui non sfuggirà un suo record, incurante che lo svizzero avesse il vantaggio di quattro Slam in più, ma nella circostanza fosse infortunato. Non riusciva, Federer, a correre come un uomo integro, e nonostante ciò aveva affrontato il match come fosse una normale partita e nonostante il suo avversario avesse detto che «era chiaramente infortunato». Un adduttore della gamba gli era costato quanto un handicap, un adduttore stirato che mi ha fatto cambiare idea. Mi ero sbagliato, è giusto ammetterlo.

Nole spazza via Roger in un match già scritto (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Ah, stravaganti, stralunati campioni, sempre gli ultimi a sapere le cose. Ci fanno, ci sono? Chi lo sa, tanto sono tutti uguali, nel tennis e fuori dal tennis. Prestazioni indecorose e musi lunghi se l’allenatore li manda sotto la doccia, partite che sarebbe stato meglio non giocare, fatta salva la presunzione di poter cambiare in corsa il senso delle cose. Ma che volete farci? Rinuncereste mai a questi tipi, che sono il sale e il pepe dello sport? Prendete il risultato della semifinale australiana fra Djokovic e Federer, tre set a spegnersi progressivamente, per emozioni e interesse. Era già scritta, con quel poco di cui Roger poteva disporre e mettere in campo, l’ipotesi più ottimistica non andava oltre un set all’altezza della fama dei due. E così è stato, più o meno. Federer ha cercato di replicare il match delle Atp Fmals, giocato per intero sulla regola dei cinque colpi, l’unica che possa funzionare contro il serbo. Cinque colpi per mettere a segno il punto, a costo d’inventarsi l’impossibile. Niente che Federer non sappia fare, e di fatto non ha sorpreso vederlo subito in fuga, avanti nel primo set fino al 4-1 e 0-40 sul servizio di Nole, tre palle break per andare sul 5-1 e servire per il primo set. Che Djokovic fosse impegnato a riportare il match nei limiti meno ristretti e a lui più congeniali, era quanto mai ovvio, e c’è riuscito proprio nel momento di maggior pressione da parte di Federer, rimontando quelle tre palle break e allontanando lo spettro di una conclusione rapida. Su quel servizio a stento recuperato, Nole ha costruito la sua parte della semifinale e l’ha fatto con maestria […] Si tratta ora di capire quale sarà il giovane di cui dovrà respingere l’assalto, Dominic Thiem o Sascha Zverev? Thiem è avanti 6 a 2, e forse è quello che Nole teme di più, dato che sugli spari dell’austriaco non riesce a manovrare come vorrebbe. «Ma ho avuto i miei bravi grattacapi con entrambi», ricorda, «e per fortuna non sta a me scegliere». Federer la prende con filosofia. «Spero di tornare presto al cento per cento, male non va. Sono venuto in Australia senza aver giocato tornei né esibizioni, e non venite a dirmi che è andata male». Va bene, non glielo diremo.

Sarà Kenin-Muguruza. Ultimo atto a sorpresa (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)

L’Australia continua nell’estenuante attesa di un vincitore nello Slam di casa. E nemmeno avere la numero 1 al mondo australiana può essere una garanzia di successo. Ieri infatti Ashleigh Barty ha perso dalla 21enne statunitense Sofia Kenin. Una predestinata, almeno stando al video che circola sul web di quando, a 6 anni, aveva dichiarato in un’intervista: «Posso rispondere al servizio di Roddick e un giorno vincerò Wimbledon». Un mito, Roddick, che ha fatto un tweet in suo onore: «Prendi tutti a calci nel sedere porta a casa quella coppa». Quando glielo hanno mostrato, negli spogliatoi, è praticamente impazzita di gioia: «Aspetto questo giorno da quando avevo cinque anni. So che qui tutti volevano Ashleigh, ma spero che in finale faranno un po’ il tifo anche per me!». La Barty, in compenso, l’ha presa piuttosto bene e si è presentata nella conferenza stampa post match con una bimba di tre mesi: «Lei è la figlia di mia sorella, appena sono uscita dal campo mi ha sorriso e ho capito che queste sono le cose veramente importanti». Intanto la Kenin ha ammesso che dopo aver battuto Serena Williams al Roland Garros dello scorso anno si è sentita molto più sicura dei propri mezzi: «Quella è stata la vittoria più importante, mi ha dato la carica anche se ho sempre creduto in me, non mi interessa chi ho di fronte, quando scendo in campo vado per vincere, per fare il mio lavoro». Domani, nella prima finale Slam della vita, Sofia, si troverà di fronte Garbine Muguruza, una che ha già trionfato sulla terra del Roland Garros e a Wimbledon, ma da un paio di anni di lei si erano perse le tracce. A inizio stagione ha ripreso ad allenarsi sotto la guida di Conchita Martinez, fresca di Hall of Fame, che l’aveva già condotta alla vittoria dello slam londinese. La spagnola di origine venezuelana è letteralmente rifiorita e in semifinale ha battuto la Halep: «Nel tennis la fiducia è tutto e tutto può cambiare tra successi e fallimenti – ha detto -. Non essere tra le teste di serie mi ha portato ad affrontare subito tenniste forti e la verità è che questo mi aiuta perché non sono al centro dell’attenzione. Ora dovrò affidarmi all’esperienza delle mie cinque finali. Magari un giorno completerò il Grande Slam».

Kenin, la bimba prodigio allevata dai fenomeni (Stefano Semeraro, Corriere dello Sport)

Adesso che ha battuto la numero uno del mondo Ashleigh Barty, e a 21 anni si è guadagnata la prima finale Slam della carriera, hanno ricominciato a cercarla tutti. «Il telefono e i miei social stanno esplodendo – dice Sofia Kenin – Non riesco a rispondere a tutti, ma cerco di godermi il momento». […] Sofia (il cui vero nome è Sonja) è nata a Mosca nel 1998, durante un viaggio di lavoro del padre, ma in America è arrivata in fasce. E lì a quattro anni, per gioco, si era trasformata in baby prodigio. «Ci aveva chiesto una racchetta – dice babbo Alex – Quando ci siamo accorti che picchiava anche con quella pesante, gliene abbiamo regalata una più leggera. E da lì è iniziato tutto». La scuola Montessori di Pembroke Pines e le lezioni all’Academy di Rick Macci, il primo coach delle Williams. «Mai vista una così» giurava Macci nel 2005. «E’ meglio della Capriati, mi ricorda la Hingis. Provo a tirarle forte ma mi rimanda tutto. Tanto che la faccio palleggiare con Jim Courier e Venus Williams». Anna Kournikova se la teneva in braccio, Kim Clijsters ci giocava alla parrucchiera. E in campo Sofia-Sonja scambiava volée con McEnroe e la Navratilova, inseguendo il modello Sharapova. Poi, come succede spesso ai piccoli fenomeni, le luci sono calate. I Kenin però sono stati bravi a continuare a fari spenti, con passione ma senza esagerazione, infilandosi in una storia “normale”. «Io ho giocato a tennis ma non sarei in grado di allenarla – spiegava allora Alex – Non sono come Richard Williams, e con Yuri Sharapov non ho mai parlato. So che Sofia ha bisogno di un coach». Cosi la ragazza si è costruita basi solide, e una carriera mica male. Da lunedì sarà minimo n.9 della Wta, se vincesse scavalcherebbe la Williams. «La vera svolta è arrivata l’anno soarso, quando ho battuto Serena Williams al Roland Garros. E’ stata la prima volta che ho capito di poter giocare a questo livello ed è capitato proprio contro il mio idolo». In finale trova un’altra ex numero 1, Garbine Muguruza, che dopo un periodo opaco sembra tornata quella capace, fra 2016 e 2017, di vincere sia il Roland Garros sia Wimbledon. Dopo aver scalato il Kilimangiaro durante la preparazione invernale («un’esperienza unica»), sembra pronta a scalare nuove vette. Intanto ha eliminato Simona Halep sforacchiandola cori 39 vincenti, fra cui 10 ace. «Sofia sta giocando bene, merita la finale. Il mio piano comunque è andarmene via con un grosso trofeo».