Shapovalov ora non russa più. Finale storica per il Canada (Cocchi). Il vero assalto al potere (Azzolini). Sinner, il barone rosso del tennis (Piccardi). Il campione da cucciolo (Visetti)
Shapovalov ora non russa più. Finale storica per il Canada (Federica Cocchi, La Gazzetta dello Sport)
Il ragazzetto mancino dal rovescio a una mano che quattro anni fa, a Madrid, vinceva la Davis Junior, è tornato sul luogo del delitto. Allora il suo compagno era l’altro baby fenomeno canadese Felix Auger Aliassime, qui fermato da un problema alla caviglia destra. Stavolta nell’impresa ha coinvolto Vasek Pospisil, vincitore di Wimbledon in doppio nel 2014. Denis Shapovalov, talento purissimo della Next Gen, 20 anni compiuti ad aprile e finalista a Parigi Bercy, ha trascinato il Canada alla prima finale di Coppa Davis della storia. Dopo aver battuto l’Italia, Shapo &Co hanno superato anche gli Stati Uniti, poi nei quarti l’Australia e ieri hanno la Russia 2-1. Rublev, finalmente ritrovato e tra i migliori di questa settimana alla Caja Magica (mai battuto in singolare) non è riuscito a ripetere l’impresa dei quarti, quando con Khachanov ha eliminato la Serbia di Djokovic. Ancora una volta, l’11° su 23 match, la vittoria è stata decisa da un doppio drammatico. La Russia un po’ spagnola, con Khachanov e Rublev cresciuti tennisticamente da queste parti, è stata piegata da un Canada un po’ russo. Denis infatti è nato in Israele da genitori russi: «Sono canadese e rappresento la mia nazione – sottolinea il 20enne arrivato a Toronto quando aveva appena 9 mesi -. Da sempre le due squadre per cui faccio il tifo sono la Russia e il Canada. E sono contento che Karen e Andrey siano arrivati in semifinale, ma io sono grato al Canada che ha dato una casa a me e alla mia famiglia e mi ha permesso di crescere. E’ un momento straordinario per il tennis canadese. Quello che siamo riusciti a fare io e soprattutto Felix negli ultimi tempi è incredibile. Lui è un atleta pazzesco, super professionista, siamo cresciuti insieme e credo che nessuno dei due immaginasse di poter arrivare tanto lontano. Sono così emozionato, ancora non ci credo che giocherb la finale di Coppa Davis. Se ci penso mi viene da ridere». […]
Il vero assalto al potere (Daniele Azzolini, Tuttosport)
La Davis in mano ai ragazzini. Era nell’aria e nella natura delle cose, dopo le Atp Finals. I venti anni di Denis Shapovalov non sono così distanti dai 21 compiuti ad agosto di Stefanos Tsitsipas, figli entrambi di una Russia che non vedeva l’ora di conoscere il mondo, di rifarsi una vita, di renderla meno inquadrata, meno povera. Stefanos greco di mamma tennista moscovita, di nonno calciatore (Sergej Salnikov, un mito negli anni Cinquanta). Denis invece canadese, ma nato in Israele, genitori russi, giunto a Toronto che aveva 9 mesi, e l’Accademia se l’è trovata in casa, a Vaughn, poco fuori il centro della città, governata dalla mamma ex tennista e maestra. Parlano russo e battono i russi. Denis fa di più, si è affidato a un russo per costruire la sua carriera, Mikhail Youzhny, tennista fino all’anno scorso. La scelta l’ha fatta la mamma. Cercava un tennista giovane, esperto del circuito, e sufficientemente matto da non mettere le briglie al suo ragazzo. Mikhail inquadrava alla perfezione l’identikit. Era uno che giocava di fino, e quando s’infuriava spaccava racchette, sbattendole però sulla sua testa, non per terra. Con Youzhny, Shapovalov è ha vinto il primo torneo importante, a Vienna, è arrivato alla finale del Masters 1000 di Parigi Bercy, ha raggiunto il numero 15 della classifica. Ha rinunciato alla Next Gen, di cui era capofila per l’anno in corso, puntando sulla Davis in attesa, dal prossimo anno, di giocare il Masters vero, quello dei più forti. […] In queste strambe finali di Coppa Davis è il più giovane numero uno cui affidare le chiavi di una squadra che vince. In realtà, una transnazionale, più che una semplice nazionale, con capitan Dancevic di origini serbe, Vasek Pospisil di nonni cecoslovacchi, FelixAuger-Aliassime di padre africano, del Togo, e lui, Shapovalov, russo-israeliano-canadese, mentre è rimasto a casa per infortunio Milos Raonic, montenegrino. […]
Sinner, il Barone Rosso del tennis. E l’Italia sogna il nuovo Panatta (Gaia Piccardi, Corriere della Sera)
On. Off. On. Off. No, l’impianto elettrico di casa Sinner a Sesto Pusteria nell’autunno del 2008 non aveva nessun problema. «Era Jannik che, a 7 anni, aveva una voglia incredibile di giocare a tennis e una gran fretta di imparare — racconta da Brunico il maestro Heribert Mayr —. Non stava mai fermo, né accettava di sbagliare benché fosse agli inizi. Finita la lezione, riprendeva subito in mano la racchetta: palleggiava contro la parete della camera, cercando di centrare l’interruttore». Da bambino Bjorn Borg ripeteva ossessivamente contro il muro il gesto con cui nell’hockey su ghiaccio mandava il disco in rete. Andre Agassi odiava la macchina sparapalle con cui il padre Mike lo obbligava ad allenarsi. Roger Federer si decolorava i capelli e spaccava le racchette. Jannik Sinner accendeva e spegneva la luce. E dire che, all’inizio di quest’avventura, sciava: «Slalom e gigante, di cui ero campione italiano junior. Mi piaceva Bode Miller. Quando ho scelto il tennis tutti mi dicevano: come giochi bene! Io sono stato l’ultimo a crederci: solo adesso sono consapevole del mio talento e delle mie capacità». […] Jannik Sinner da San Candido, Alto Adige, non ama le interviste. Però, con la maturità nel tennis e nella vita che lo contraddistingue, da 18enne n.78 della classifica mondiale e enfant di un pays che aspetta il nuovo Panatta da quasi nove lustri, sa che non può esimersi. E stasera farà il suo debutto sulla tv nazionale a «Che tempo che fa», diretta su Raidue, perché è giusto che alla fine di una clamorosa stagione di prime volte tutti, e non solo gli addetti ai lavori, possano conoscere il Barone Rosso destinato a grandi voli anche se il suo ottimo coach, Riccardo Piatti da Como, avrebbe preferito che rimanesse all’Accademia di Bordighera ad allenarsi, senza perdere tempo, con un valido motivo: «Okay ha fatto una buona annata però non ha ancora vinto niente, questo ragazzo». Vero. Ma un italiano dotato di un talento lampante tanto da far sobbalzare Novak Djokovic sulla sedia («Next Gen non mente: la prossima stella del tennis mondiale è Jannik Sinner») e capace di un’arrampicata di 473 posizioni (il 1° gennaio era 551°), uno con un potenziale così devastante, su questi schermi non si era mai visto. […] Attaccatissimo alle sue montagne («Lassù c’è un’aria diversa, a Sesto mi ricarico ma dopo un po’ non so più cosa fare…»), Jannik vive a Bordighera da quando aveva 14 anni: «Lasciare la famiglia non è stata una scelta facile ma, sci o tennis, ho sempre voluto diventare forte in uno sport. I miei mi hanno lasciato libero, li ringrazio». […]
Il campione da cucciolo (Giampaolo Visetti, La Repubblica)
Il diciottenne più forte del mondo nel gioco del tennis è nato in fondo alla pista da sci che scende dal Monte Elmo. La sua casa, tra le Dolomiti di Sesto, in queste ore affonda sotto un metro di neve fresca. Jannik Sinner è cresciuto qui, tra i larici che crescono ai piedi del sentiero che sale alle Tre Cime di Lavaredo. Papà Johann, 56 anni, nella Talschusshutte cucina canederli e Wienerschnitzel. Mamma Siglinde, 54 anni, porta i piatti in tavola da quando era una ragazza. «I primi sci — dice — mio figlio li ha messi a tre anni. È naturale: nasci nella neve e vuoi provare a sentire quanto è calda». Jannik però ha fatto un’altra scelta e in Alta Pusteria la gente è ancora stupita. Il papà spiega così il passaggio dagli sci alla racchetta: «Era un bambino che pensava molto». […] «Abbiamo confidenza con lo stare soli — dice il papà — i villaggi sono piccoli e le montagne grandi. Devi cavartela senza chiedere aiuto. Fai subito i conti con te stesso: l’istinto spinge meno verso i giochi di squadra». Lontani da Sesto è difficile capire come il diciottenne più forte del mondo con una racchetta in mano, possa essere cresciuto con gli sci ai piedi. La storia è semplice. Come tutti i sudtirolesi di montagna, Jannik da piccolo aspetta la prima neve. Scia coni genitori, poi con la compagnia del paese. Il suo primo maestro di sci è Andreas Schoenegger. «Mi sono accorto — dice — che era diverso. Non assomigliava agli altri. Non cercava di divertirsi: voleva imparare». Jannik non ha ancora sette anni e sulla neve va veloce. A 8 anni diventa campione italiano di gigante. A 12, sempre tra coetanei, arriva secondo. Tutti dicono: diventerà un campione. Invece no: essere secondo è poco. E’ l’estate del 2014. Ogni giorno Jannik aspetta che il padre finisca di cucinare nel rifugio per giocare insieme a tennis sui campi coperti di Moso. Lo vede l’allenatore Heribert Mayr. In novembre parte una telefonata ad Alex Vittur. Anche lui è stato fortissimo ed è amico di Andreas Seppi. «Mi ha chiesto — dice — di dare un’occhiata a un ragazzino che tirava cannonate». Alex Vittur gioca con Jannik per un’ora. «Non ha fiatato — dice — ma non voleva più smettere. Sembrava già uno che fa il suo mestiere. Ai genitori ho detto che con un tipo così, un progetto poteva avere senso». Così, cinque anni fa, Jannik lascia la neve delle Dolomiti e scende fino al mare della Liguria e di Bordighera. Vittur lo affida a Riccardo Piatti, l’uomo che tennisticamente parlando «trasforma il talento nell’arte massacrante di vincere». «A noi però — dicono i genitori — preme che impari come si diventa una persona anche dedicandosi a una passione. Devi fare il massimo: male che vada hai fatto il massimo». A Sesto Jannik era un bambino, a Bordighera si trasforma in un adolescente. […] Sul campo da tennis, Riccardo Piatti è un secondo padre. L’obbiettivo è «fare in modo che questo ragazzo sempre serio sia qualcuno anche se non dovesse rivelarsi qualcuno». Dopo il Next Gen di Milano, una settimana fa Yannik Sinner ha vinto il Challenger di Ortisei ed è balzato al numero 78 del ranking mondiale: «Ho preferito il tennis allo sci — dice — perché è un gioco. Vedi il tuo avversario, la gara non finisce subito. Hai il tempo per capire cosa sta succedendo». Famiglia e amici frenano. «Non ha fatto ancora niente — dicono — la strada per diventare un campione resta lunga, dura e incerta».