La materia di cui sono fatte le stelle. Perché Federer, Nadal e Djokovic dominano

L’estate del 2019 trasuda fatica anche per chi non si trovava a Londra il 14 luglio o a New York l’8 settembre, ma la sostanza di ciò che si è visto durante la già eternata finale di Wimbledon e la godibile cinqueore che ha concluso lo US Open non è stata qualche forma di traveggole: Nole Djokovic, l’uomo che ha anestetizzato la competizione fra il 2011 e la primavera del 2016, ha vinto quattro degli ultimi sei Slam, convinto di aver consolidato la presa sul trono ATP dopo un biennio da Sisifo. Si è però intromesso con grande profitto Rafael Nadal, che aggiudicandosi i due Slam restanti (Roland Garros e US Open 2019) ha guadagnato addirittura i favori del pronostico per chiudere la stagione in corso da numero uno del mondo.

Più significativamente, però, il fatto che gli unici due giocatori capaci di spingere Djokovic al limite sul Centre Court di Londra, a un anno e spiccioli di distanza, siano gli avversari di sempre, è il segnale di qualcos’altro, e cioè del fatto che quest’ultimo successo perpetui tre anni di restaurazione: gli ultimi 12 Major sono stati vinti da Djoker (quattro), spietato ai limiti dell’impersonale (mai come stavolta, e nell’esultanza finale e nel modo in cui ha trasmesso una padronanza totale del contesto in una partita dove è probabilmente stato inferiore sotto ogni aspetto), da Nadal (cinque), forse il più grande di tutti nella cangiante aggiunta di armi al proprio arsenale, o da Federer (tre), l’atleta più fotogenico di sempre, che continua a sbertucciare realtà in precedenza inoppugnabili quali la fisica o l’obsolescenza.

Per chi avesse passato gli ultimi tre lustri in criogenesi, sono gli stessi atleti che hanno elevato il concetto di rivalità nel maschile a quello di eroi dei fumetti, in cui i due (tre), così lontani ma così vicini, si affronteranno per l’eternità, reboot dopo reboot. I numeri, nel loro caso, sono uno strano incrocio fra la pura routine, in quanto già letti e sentiti ad libitum, e l’ineffabile, necessitando di continui aggiornamenti: 55 Slam, 96 Master 1000, 11 ATP Finals, 261 tornei vinti, 775 settimane in vetta al ranking.  

In ogni caso, il punto di questo pezzo non è analizzare la continuità di tre uomini manifestamente fuori dalla curva a campana dell’ordinario. Piuttosto, la sua ragion d’essere deriva dalla continuità espressa non solamente da loro, ma anche, uno o due plateaux più giù, dai vari Murray (meticcio dei due livelli), Ferrer, Tsonga, Berdych, e Wawrinka. Altri nomi potrebbero essere fatti, ma il succo della questione è: approssimativamente fra il 2008 e il 2015, e per certi versi anche ora, un nutrito drappello di tennisti semplicemente non poteva perdere contro elementi estranei alla loro élite.

I seguenti numeri evidenziano la continuità senza precedenti del drappello

  • Murray: 30 quarti Slam, 9 Finals (9 anni in Top 10, 12 in Top 20), 51 quarti 1000;
  • Ferrer: 17 quarti Slam, 7 Finals (7 anni in Top 10, 11 in Top 20), 45 quarti 1000;
  • Berdych: 17 quarti Slam, 6 Finals (7 anni in Top 10, 12 in Top 20), 45 quarti 1000;  
  • Tsonga: 15 quarti Slam, 3 Finals (6 anni in Top 10, 10 in Top 20), 26 quarti 1000;
  • Wawrinka: 16 quarti Slam, 5 Finals (5 anni in Top 10, 8 in Top 20), 23 quarti 1000.

Numeri simili e costanti, con Murray ovviamente più vincente, e con la possibile eccezione di Stanimal, che ha vinto tre Slam a fronte di un numero (relativamente) non elevatissimo di quarti Slam.

Ciò che colpisce è che questi piazzamenti sono simili, se non addirittura superiori, a quelli di gente con molti più galloni nell’epoca precedente. Qualche esempio? Murray ha vinto meno Slam di Courier, ma i numeri dell’americano (15 quarti Slam, 4 Finals, 4 anni in Top 10, 5 in Top 20, 26 quarti 1000) sono nel complesso di molto inferiori: per molti versi Sir Andy è paragonabile più a Becker ed Edberg che a Jimbo.

E lo stesso si può dire per i suoi contemporanei, che spesso e volentieri hanno vissuto più vite al vertice rispetto a dei predecessori con più trofei sollevati sui grandi stage. Gli unici con dei numeri paragonabili sono il neo-Hall-of-Famer Kafelnikov (13 quarti Slam con due titoli, 7 Finals, 6 anni in Top 10, 8 in Top 20, 25 quarti 1000, peraltro senza mai vincerne) e l’uomo che ha per certi versi rappresentato il trait d’union fra i due periodi, Roddick (19 quarti Slam con una vittoria, 8 Finals, 9 anni in Top 10, 11 in Top 20, 35 quarti 1000).

Gli altri vincitori di quel periodo, persino i più celebrati come Stich, Bruguera, Safin, Rafter, persino Guga Kuerten, evidenziano picchi maggiori (1, 2, 2, 2, e 3 Slam vinti, rispettivamente, più Stich e Kuerten campioni al Master), ma una continuità inferiore – nessuno di loro ha fatto più di 9 quarti Slam, 3 anni in Top 10, e 19 quarti 1000. Ciò che si trae è un periodo, gli anni ’90 e primi 2000, particolarmente frammentato ai vertici del tennis, in cui i due dominatori, Sampras e Agassi, vincevano a maggioranza più che all’unanimità, vuoi per l’allergia alla terra dell’uno, vuoi per le distrazioni e le paturnie dell’altro, ed erano inseguiti da un numero molto maggiore di pretendenti. Fa da contraltare, invece, l’epoca odierna, segnata dalla maggiore continuità di tre dioscuri con un cocciuto gruppo di inseguitori.

La domanda che sorge spontanea è: come ha fatto il tennis maschile dell’ultimo decennio ad esprimere tanti giocatori sincronicamente capaci di raggiungere una tale consistenza?

L’argomento è di raro interesse, almeno per coloro che hanno sviluppato parafilie sia per la racchetta che per le statistiche, specialmente se si guarda, come in parte già fatto, al tennis del periodo 1990-2004, quella che potrebbe essere considerata l’era degli specialisti, con un particolare riferimento agli inizi della scorsa decade. Il gioco consisteva in un avvicendamento colturale, con giocatori capaci di menare le danze per un certo periodo dell’anno per poi dileguarsi, impossibilitati a competere tout court dagli innumerevoli gradi di separazione vigenti fra le superfici: l’erba e il sintetico si articolavano sugli schemi blitzkrieg dei serve-and-volleyers, la terra battuta era quasi esclusivamente un convivio di trincee difensive e dritti arrotati, e il cemento si trovava nel mezzo a seconda delle condizioni e delle poetiche dei vari tornei – David Foster Wallace, per esempio, riporta una particolare lentezza del Deco Turf in “Democracy and Commerce at the US Open” del 1995.

Il corollario, come detto, fu una prevalenza degli specialisti che andò via via esacerbandosi, causando la sostanziale impossibilità, a inizio anni 2000, nell’ereditare le chiavi del Tour da Sampras e Agassi, specialmente considerando il livello di usura per il fisico che un’evoluzione tecnologica smodata può causare, portando ogni pretendente, di fatto, ad avere vita breve ai vertici – Kuerten, Safin, Hewitt e Ferrero sono dei chiari esempi di quella che Gianni Clerici definisce “usura” in “500 anni di tennis”, anche se nel caso del russo uno stile di vita non propriamente monastico ha indubbiamente contribuito ai suoi malanni.       

La specializzazione del gioco, che a questo punto andrebbe considerata un’eccezione più che una regola all’interno della sua storia, va ricondotta alla continua evoluzione delle racchette, i cui materiali sempre più leggeri avevano ampliato i sweet spot per l’impatto. Questi a loro volta accrescevano (e accrescono) la portata dei colpi violenti (servizio, risposta, e colpi da fondo), permettendo di generare sia maggiore potenza che maggiore spin, ampliando la differenza fra stili e superfici a seconda delle preferenze individuali.

La situazione di cui sopra, autentica distopia del progresso, fece sì che il firmamento del tennis fosse occupato da stelle part-time, producendo un calo di interesse per il gioco, o in altre parole un mancato ritorno d’investimento per le parti in causa, una situazione ben diversa dallo stato attuale: nel 2015, tennisindustry.org riportava che il valore economico del gioco era di 5.94 miliardi di dollari nei soli Stati Uniti (nonostante un vicolo apparentemente senza uscita di risultati nel maschile); il report del 2018 di Tennis Europe segnala un numero record di club, campi, e coach, un aumento di cui l’Italia sa qualcosa; gli Australian Open hanno raddoppiato l’affluenza nel giro di 20 anni (l’attuale “Happy Slam” negli anni ’90 aveva un montepremi più basso di tanti tornei meno glam, come Stoccarda e Miami); e l’Estremo Oriente, sempiterno target di qualunque impresa capitalistica, ha scoperto che le racchette più grandi hanno il loro fascino, con Shangai in coda per un allargamento a 96 giocatori del tabellone, e una parte di stagione interamente dedicata. 

Cosa
è cambiato nell’immagine del gioco per causare questa eucatastrofe?

Una possibile ancorché semplicistica spiegazione è quella di una Golden Age d’imposizione divina, un momento storico irripetibile, inspiegato ed inspiegabile. Ora, non c’è dubbio che la grandezza generi grandezza, e che i più grandi campioni siano generalmente dotati di uno sconfinato talento preternaturale – ciò che si è sempre detto di Federer come atleta trascendente va ormai reiterato per i suoi due rivali. Allo stesso tempo, però, questo non spiega la presenza di un gruppo di inseguitori quasi altrettanto costante, finché ne ha avuto, e più in generale una differenza tanto marcata fra due generazioni contigue. Per dare un’interpretazione più accurata, tre fattori sembrano i più significativi.

Innanzitutto, l’evoluzione incessante della medicina sportiva, soprattutto riguardo ai tempi di recupero, che ha significativamente allungato le carriere di quasi tutti i top player, estendendo il loro picco ben dopo i 30 anni, e per certi versi spostandolo in avanti, perché se il corpo è in grado non solo di rimanere su livelli costanti ma addirittura di progredire negli anni, è quasi ovvio che un giocatore dia il meglio più avanti, quando il suo QI tennistico raggiunge la piena maturità e il gioco “rallenta” nella sua percezione – Ferrer e Wawrinka sono due casi emblematici di come l’usura di cui sopra, certamente non diminuita negli ultimi tre lustri, sia ora maggiormente gestibile.

Il signore dei Benjamin Button tennistici è ovviamente Federer, a cui da over 35 sono riuscite le seguenti imprese: tornare da un sabbatico semestrale trionfando in Australia con tre match al quinto nel 2017, nell’anno dei 36; a ridiventare numero uno nel febbraio del 2018; a perdere una finale Slam francamente dominata all’alba della trentottesima rivoluzione terrestre. Il tutto rinunciando alla filosofia all-out di Edberg in favore di un gioco da fondo completo come forse mai prima d’ora sotto l’egida di Ljubicic. Lo svizzero è stato benedetto dal DNA, ma quello che la scienza e il duro lavoro hanno fatto per lui non andrebbe sottovalutato.

E il duro lavoro è oggi più che mai un aspetto complementare dell’evoluzione della preparazione atletica: il modello iper-professionista, che abbandona i valori decubertiniani del successo sulla base della rivalità nazionale in favore dalla vittoria in un contesto superiore, trova terreno fertile in uno sport individualista e apolide come il tennis, facendo sì che gli atleti non siano preparati a livelli inimmaginabili solo sotto il profilo atletico, ma anche sotto quello psicologico, garantendo una longevità matusalemmiana ai più forti, dotati come sono di maggiori certezze.

Roger Federer – Wimbledon 2019 (via Twitter, @wimbledon)

Un secondo aspetto fondamentale nel coagulare la superiorità è stato il nuovo approccio al business da parte dell’ATP: nel 1999 venne siglato un nuovo accordo di sponsorizzazione con ISL Worldwide, all’interno del quale venne inserita la presenza obbligatoria per gli allora Masters Series (Montecarlo ha poi perso lo status di evento obbligatorio nel 2009), di fatto forzando i migliori ad affrontarsi molto più spesso, consolidando la posizione dei migliori – basti pensare che con il vecchio sistema dei Super 9 nessuno ha mai vinto più di tre eventi in una stagione, mentre i Big Three hanno avuto stagioni da quattro, cinque, e sei successi.

Un altro cambiamento apparentemente sottile avvenne nel 2001: Wimbledon, e a seguire gli altri Majors, espansero il numero delle teste di serie da 16 a 32, di fatto annullando la possibilità di un upset nei primi turni – non sarà sfuggito all’attenzione di molti lettori che l’iniziale decisione di tornare a 16 per il 2019 è stata accantonata abbastanza in fretta, probabilmente perché non converrebbe a nessuno rischiare di perdere i nomi di cartello nella prima settimana. Questa decisione ha permesso un livellamento maggiore dello sport, con tanti giocatori a fluttuare nella fascia 17-32 per eoni (Verdasco, Simon, Kohlschreiber, Bautista fino a quest’anno, ecc…), con rare alterazioni significative, e con una probabilità molto inferiore di tabelloni spalancati (a meno di morie stile US Open 2017), cosa che peraltro ha innalzato il livello medio degli avversari per i campioni Slam in termini di ranking (ad oggi, il tabellone più complesso è quello di Nadal al Roland Garros del 2013, seguito a breve distanza da Federer agli Australian Open del 2010), ma ha abbassato la possibilità di minacce concrete nei primi due/tre turni.   

In ogni caso, il vero motore del cambiamento tecnico-tattico è la famosa (famigerata?) omologazione delle superfici. Un semplice dato per dimostrare le attuali affinità? Dal 2007 la differenza di break fra cemento e terra si è progressivamente ridotta (dati settesei.it), così come, dal 2004, quella fra il Roland Garros e Wimbledon (quella fra RG e US Open è sostanzialmente nulla nel 2016, dati tennismylife.org).

Il nostro Luca Baldissera è categorico in materia: “L’omologazione delle superfici è stato il fattore determinante per avere la continuità ad altissimi livelli degli ultimi 15 anni, senza precedenti, da parte dei top-player. […] Basti un esempio per capire quanto la scomparsa della specializzazione abbia influito: Thomas Muster, numero uno del mondo a metà anni novanta, devastante sulla terra rossa in modo paragonabile – per un paio di stagioni solamente – a Rafa Nadal, a Wimbledon o non andava, o perdeva subito. In carriera, solo 4 partecipazioni, 4 sconfitte al primo turno

Federico Principi de L’Ultimo Uomo, aggiunge: “Credo invece che il fattore che abbia sempre più omologato i risultati sia stata l’evoluzione del gioco, che ha creato un ritmo sempre più serrato da fondocampo, al punto tale che diventa difficile interpretare le partite in maniera diversa da quella ormai canonica.” Questa interpretazione pone dunque l’accento sull’uniformazione degli stili prima ancora delle superfici, implicando che se tutti fanno le stesse cose, chi le fa meglio sarà sempre destinato a vincere più degli altri, anche se allo stesso tempo è difficile pensare ad un appiattimento tattico se non sostenuto da uno sviluppo simile per i terreni di battaglia dello sport.

L’aspetto più affascinante del fenomeno, e se vogliamo il più machiavellico, è la maniera quasi pollicinesca con cui le modifiche sono state apportate, iniziando attorno al 1996: quello fu l’ultimo anno in cui le ATP Finals si svolsero sul sintetico (con la solitaria eccezione di Shanghai 2005), progressivamente abbandonato in favore del cemento indoor – l’ultimo Master 1000 sintetico è Bercy 2006, l’ultimo utilizzo in assoluto nel circuito maggiore è il primo turno di Coppa Davis 2009.

L’epitome dell’ammodernamento, però, è senza dubbio il passaggio di Wimbledon a un diverso compostaggio (da 70% segale e 30% festuca rubra a 100% segale), determinato dall’intenzione di rallentare i campi, e che ha notoriamente sterminato il serve-and-volley, portando molti più giocatori a vincere a SW19 giocando da fondo.  

Piccolo excursus comparativo: è interessante notare come la FIFA nel calcio e la NBA nella pallacanestro abbiano incontrato a loro volta problemi nella esagerata dimensione fisica raggiunta nello stesso periodo storico, e come entrambe abbiano apportato delle modifiche regolamentari per favorire lo spettacolo. Nel calcio, i cambiamenti fondamentali furono la modifica del fuorigioco in linea e del retro-passaggio, e l’espulsione per fallo da tergo, mentre nel basket USA i provvedimenti riguardarono l’hand-checking, i tre secondi difensivi, e l’interpretazione dell’infrazione di passi. Mentre sarebbe eccessivo, se non addirittura dietrologico, leggere la situazione in maniera totalmente olistica, è comunque interessante notare come, nell’arco di un decennio, gli sport più popolari del globo abbiano sentito la necessità di apportare delle modifiche per rimanere al passo coi tempi. 

Non tutti i dati sono a sostegno dell’assunto sul rallentamento delle superfici (gli ace sono aumentati e i break sono diminuiti, per esempio, andando a sostegno della maggiore importanza dei colpi potenti, come detto), ma molti sembrano quantomeno puntare ad un’uniformazione delle velocità: la prima finale post-lifting erbaceo (Wimbledon 2002) fu anche la prima fra due giocatori da fondo in tempi moderni, Hewitt vs Nalbandian; e fra i principali 14 tornei del circuito (Slam, 1000 ed ATP Finals) solo tre sono classificati come medio-rapidi (Australian Open, Shanghai, e le Finals), e nessuno come veloce (dati perfect-tennis.com).

Ça va sans dire, non si sta alludendo ad un complotto dell’ATP per pompare questo o quel giocatore, ci mancherebbe. Piuttosto è logico pensare che si sia voluto conservare (e migliorare) l’intrattenimento delle partite, che eufemisticamente tende ad incidere sui rating. Principi riassume perfettamente: “Onestamente non credo che, ad esempio, il rallentamento dell’erba sia stato deciso per fare in modo che ad ottenere il successo sarebbero stati sempre gli stessi tennisti, ma è un dato oggettivo che i giocatori di successo stiano diventando sempre più alti e i servizi sempre più potenti – al punto che Nadal ha prospettato per il futuro un accorciamento del rettangolo del servizio – per cui sarebbe impossibile oggi mettere in scena partite divertenti sull’erba degli anni Ottanta, a mio parere

Un secolo fa, Virginia Woolf scriveva che la prosa avrebbe assorbito la poesia, e lo stesso discorso potrebbe essere riproposto qui: si potrebbe dire che le modifiche abbiano favorito una certa gestalt del gioco, quello della continua pressione da fondo, il discorso ritorna all’uniformità del modo di intendere lo sport che favorisce i migliori in questa specifica interpretazione. L’uovo e la gallina paiono sempre più confuse, insomma.

Rafael Nadal – Wimbledon 2019 (via Twitter, @wimbledon)

Cosa
prospetta il futuro allora? Anche se questa sarà la prima generazione di
tennisti dai tempi di Laver e Rosewall che avrà la possibilità di competere e contemporaneamente
avere una crisi di mezza età, il tempo può essere ingannato fino a un certo
punto. Il continuo successo dei Big Three (soprattutto negli Slam) ha fatto
assurgere questa fase del tennis maschile ad era geologica, ma ogni tifoso dovrà
realizzare che la sua fine, ancorché non improvvisa, prima o poi avverrà.

Ecco perché l’ATP, che in quanto multinazionale sa cosa fare e quando farlo, spamma a livelli parossistici il mantra NextGen e la Race To Milan – non avrebbe avuto senso creare l’iniziativa nel 2010, quando non c’era neanche un Under 22 in Top 100, a dispetto dei 10 attuali. Per lo stesso motivo, il torneo meneghino è anche la cavia da laboratorio per le supposte modifiche TV-friendly, che sembrano toccare tutto tranne le superfici in sé, anche se sorge spontaneo chiedersi: a) perché non si possa semplicemente accelerare alcuni campi come a Melbourne se si vogliono partite più rapide e b) perché bisognerebbe effettivamente accorciare le partite se il pubblico televisivo vuole scambi più lunghi ed epici.

Dovremmo dunque preoccuparci per l’outlook escatologico del tennis maschile? “Da un lato, varietà equivale a interesse. Ma l’elemento del cosiddetto ‘stardom’ che esprimono i tre big è notevolissima e ancora di difficile quantificazione. Per ‘stardom’ si intende la capacità di attrarre pubblico soprattutto generalista e non specificamente appassionato di tennis, vista la presa mediatica che personaggi che Federer, Nadal e in minor misura Djokovic esercitano. Il primo a riuscirci fu Bjorn Borg a inizio anni ’80, con scene di isteria che ricordavano le apparizioni dei Beatles,” dice Baldissera. “I vertici del gioco dovranno cercare di spingere dei nuovi personaggi, ma il pericolo in assenza di grandi rivalità è il minore interesse. Se Zverev (per esempio) si metterà a vincere 3 Slam all’anno senza trovare avversari che lo impensieriscano con continuità, il rischio è concreto. Perché non è detto che il ragazzo abbia lo spessore per reggere da solo l’attenzione del pubblico

Principi non vede così buio: “Secondo me avere quattro vincitori diversi nei quattro Slam stagionali non pregiudica la credibilità del tennis di alto livello, però dipende dalle dinamiche che ci sono dietro. Nel 2012 ad esempio questo fenomeno si è verificato ma nessuno si è sognato di mettere in dubbio l’altissimo livello di quei giocatori – che, per l’appunto, erano Djokovic, Nadal, Federer e Murray in ordine. Se si crea un club ristretto di 4-5-6 tennisti che si confermano costantemente al di sopra della media, a mio avviso, quella situazione è garanzia di eccellenza e non è un problema se i quattro Slam stagionali vedano quattro vincitori diversi compresi tra quella ristretta élite.”

Allo stesso modo, però, risponde al riflesso meno accattivante: “Diverso sarebbe il caso in cui i quattro vincitori diversi vengano percepiti come ‘casuali’, se avessero semplicemente fatto il torneo della vita partendo dalla posizione 25 del ranking e tornandoci dopo un anno, soprattutto se il rimescolamento dei top 10 dovesse essere continuo. Se l’elenco dei potenziali credibili vincitori di uno Slam si allargasse perfino a 20 nomi, come è successo più volte nel circuito femminile con l’assenza di Serena Williams o in quello maschile prima dell’arrivo di Federer, allora forse quello a mio avviso sarebbe il segnale di una scarsa qualità del livello di eccellenza. […] Per cui, secondo me, il tennis ha sempre bisogno di giocatori che mantengano un livello costante al vertice per poter mantenere alta la credibilità sulla raffinatezza del proprio prodotto, e non è importante il semplice fatto che a vincere i quattro Slam stagionali siano quattro giocatori differenti”.

La stagione sull’erba non è stata certamente la miglior pubblicità per il rinnovamento della nomenclatura, date le pessime figure rimediate da molti giovani, ma l’estate nordamericana – soprattutto grazie alla deflagrazione di Daniil Medvedev – ha consolidato un trend di parziale rinnovamento, almeno nel due su tre, dove il massimo grado di continuità (soprattutto mentale) sul lungo periodo non è richiesto. Da Cincinnati 2016, solo 14 dei 31 tornei maggiori (fra 1000 e Finals) sono stati vinti dai Big Three, e per la prima volta in tre anni, a Indian Wells, un torneo a cui erano presenti Nadal, Djokovic e Federer è stato vinto da qualcun altro, ovvero Dominic Thiem.

In fondo, proprio l’attuale N. 1 è stato battuto da diversi giovani nell’ultimo anno: Tsitsipas a Toronto 2018, Khachanov a Bercy 2018, Zverev alle ultime Finals, e Medvedev a Montecarlo e Cincinnati nel 2019 – il russo è anche l’unico ad averlo messo in difficoltà a Melbourne, così come Hurkacz ha forse giocato il suo miglior tennis di sempre per un paio d’ore a Wimbledon contro Nole.

Il dato interessante è che i nuovi esemplari del gioco, quasi tutti abbondantemente over-sized, non sembrano essere molto interessati ad imitare chi è venuto prima di loro, venendo spesso impostati con servizi pesanti e dritti dalle aperture ampie con flessione del gomito e presa Western, ma Baldissera nota che la discrasia è in realtà esclusivamente stilistica: “In realtà, dai dati recentemente raccolti da Craig O’Shannessy (stratega ed esperto di match analisys del team Djokovic), oltre il 70% dei punti nel circuito maschile viene risolto entro i primi 4 scambi, a maggior ragione da parte dei tre big, che a loro volta ottengono la grande maggioranza dei punti vincenti proprio dalla combinazione servizio e dritto. Ovviamente, agli appassionati rimangono in mente gli scambi epici da 25 mazzate a punto, ma l’analisi statistica ci dice che il tennis moderno si fonda nella gestione aggressiva dei primi tre, massimo quattro colpi dopo il servizio. I giovani, a partire da Alexander Zverev, fanno esattamente la stessa cosa, magari in modo meno brillante o a volte spettacolare, ma come sappiamo, un 15 vale un 15, che sia ottenuto con la ‘banale’ pressione dei fondamentali o che arrivi da un anticipo fulminante, o altra soluzione di cosiddetta ‘classe’”.

Alexander Zverev – ATP Finals 2018 (foto Alberto Pezzali Ubitennis)

La certezza è che il tennis del futuro si fonderà su dei canoni ben precisi, ed è quindi facile immaginare che eventuali modifiche del gioco andranno a favorire i migliori di questa Nouvelle Vague.

Riassumendo, la Golden Age di questi anni è stata coadiuvata da una serie di fattori? Certamente. L’ATP dovrebbe facilitare gli uomini nuovi come ha fatto per gli ultimi 20 anni? Molto probabilmente sì. C’è il rischio che la prossima finale di cinque ore su Centre Court abbia meno risalto se questo non verrà fatto? La logica del “quando si ritireranno quei tre smetterò di seguire il tennis” non dovrebbe appartenere ai veri appassionati, quindi non ci preoccuperemmo troppo.

Tommaso Villa