Selfie e vittorie. Il 2019 inizia già nel segno di Federer (Clerici). Vamos Bautista, tennista country (Semeraro). Anderson firma la finale più alta (Viggiani). Quella danza meravigliosa chiamata tennis (Santoro)
Selfie e vittorie. Il 2019 inizia già nel segno di Federer (Gianni Clerici, La Repubblica)
Giungono,via computer, notizie di quell’ingordo di Roger Federer che, non contento di esser considerato da una vasta cerchia di disinformati il più grande tennista di tutti i Tempi, ha vinto la Hopman Cup, dedicata al miglior coach di tutti i tempi, quell’Harry Hopman australiano, zio di Lew Hoad, Ken Rosewall, Frank Sedgman e Tony Roche, con i quali mi onoro di essere sembrato un raccattapalle invece che un tennista. Federer ha vinto un altro evento, tanto insolito che la Federazione Internazionale l’ha abolito, e cioè la Hopman Cup, basata su un format fatto di due singolari misti e di un doppio misto, battendo – insieme alla connazionale svizzera Belinda Bencic – la Germania di Alexander Zverev e la sua partner Angelique Kerber per 4-0,1-4, 4-3, punteggio ridotto per ragioni televisive a set di quattro games, con tie-brek ai cinque punti sul tre pari secondo i nuovi tentativi di riforma del tennis. Mentre Roger confermava la sua incancellabile condizione, i suoi due presunti concorrenti (Djokovic e Nadal) si facevano Djokovic ferire a Doha da Bautista Agut (che ha poi vinto il torneo di Doha), e Nadal da uno stiramento alla coscia a Brisbane. Roger in realtà aveva già vinto la Hopman Cup l’anno passato, sempre insieme alla Bencic, e quella di dieci anni or sono con Martina Hingis, a conferma di non aver letto le statistiche di Luca Marianantoni, che ha posto in dubbio la qualifica di “più forte di ogni tempo”, confrontandolo a Big Bill Tilden (1893-1953). Il quale non aveva mai raggiunto l’Australia, aveva vinto solo tre Wimbledon perché incapace di acquistare il biglietto, ma aveva trionfato in ben sette Campionati americani. Contro questi record Roger ha vinto una volta il Roland Garros, otto Wimbledon, sei gli Australian, cinque in America. Con grande sportività, dove lui eccelle, lo svizzero ha lasciato a Djokovic la palma del favorito per Melbourne. Ma, ce la facesse ancora una volta, secondo Luca – e secondo me – sarebbe primo a pari merito.
Vamos Bautista, tennista country (Stafano Semeraro, Corriere dello Sport)
Chissà che il segreto di un inizio anno clamoroso dello spagnolo atipico Roberto Bautista Agut – vittoria a Doha in finale su Tomas Berdych (6-4 3-6 6-3) dopo aver eliminato il n. 1 del mondo Novak Djokovic in semifinale… – non stia negli allenamenti invernali a Valencia con Sara Errani. «Sara è una grandissima ragazza e una superprofessionista – sorride Roberto, da oggi ufficialmente il vice-Nadal grazie ai 250 punti conquistati in Qatar che lo posizionano davanti a Pablo Carreno-Busta al n. 23 del ranking. «Ho la fortuna di passare un po’ di tempo con lei fuori e dentro il campo, non ha attraversato un momento facile e mi fa piacere se posso motivarla un po’ allenandomi con lei. Le auguro tanta fortuna ora che sta per tornare in campo. Fra l’altro è bravissima anche a calcio…». Bautista Agut ne sa qualcosa: fino a 14 anni giocava nelle giovanili del Villarreal: «A tredici anni ho giocato anche un torneo a Cava dei Tirreni, poi ho scelto il tennis, ma sono sempre un grande tifoso del Villarreal e sono rimasto in contatto con i miei compagni di allora». Ha lo sguardo da buono, Roberto, ma in campo tira fuori grinta vera. Venerdì è riuscito – impresa difficilissima – a rimontare un set e un break a Djokovic. Ieri, dopo aver ceduto il secondo set a un Berdych di nuovo frantumante, non si è fatto scoraggiare. È il suo nono torneo in carriera. L’anno scorso non è stato facile, fra la scomparsa di mamma Ester (cui ha dedicato la vittoria a Doha) pochi giorni prima del Roland Garros, e un infortunio agli addominali che lo ha tenuto fermo a lungo in estate. La forza per riprendersi il suo tennis lineare ed elegante, adattissimo al cemento, l’ha trovata nella calma della sua casa-fattoria. Ora che ha battuto il numero 1 a inizio anno, è lecito coltivare qualche ambizione per Melbourne, e il progetto di migliorare il best ranking di n. 13 Atp raggiunto nel 2016? «Quest’anno spero solo di stare lontano dagli infortuni. La partita con Djokovic, e tutta la settimana qui, sono state fra le più belle e dure della mia carriera. Certo che se continuo a giocare così, un pensierino alla Top Ten ce lo faccio». È l’altra Spagna che bussa alla porta.
Anderson firma la finale più alta (Mario Viggiani, Corriere dello Sport)
Non capita certo in tutti i tornei, una finale come quella di ieri a Pune, in India. Dopo 57 ace (36 a 21 per lo sconfitto) e 3 tie-break, se l’è aggiudicata Kevin Anderson, che appunto per 7-6 6-7 7-6 dopo 2h45′ l’ha spuntata sull’altro bombardiere Ivo Karlovic. I due peraltro hanno fatto registrare un record insolito, ovvero quello della finale più alta di sempre, dove l’altezza non è quella sul mare della città ospitante ma quella dei due giocatori: 2 metri e 03 il 32enne sudafricano, 2 e 11 il 39enne croato, per un totale quindi di 4,14 che migliora il primato precedente di 4,11 che lo stesso Anderson divideva con il 2,08 statunitense John Isner (risaliva ad Atlanta 2013). Karlovic si consola con un altro record e un altro particolare riferimento statistico: sabato è diventato il primo giocatore a superare il muro dei 13.000 ace in carriera (nella semifinale vinta contro il belga Steve Darcis: ha chiuso il torneo a quota 13.060), e ieri il più anziano finalista Atp dai tempi di Ken Rosewall, che era addirittura 43enne a Hong Kong 1977. Per Anderson, n. 6 del mondo, è il sesto torneo vinto in carriera.
Quella danza meravigliosa chiamata tennis (Gabriele Santoro, Il Messaggero)
«Il problema di fondo, da cui discendono tutti gli altri, è che il gioco in sé non si lascia quasi raccontare. I colpi si possono descrivere, le partite ricostruire, le crisi o gli stati di grazia evocare, ma l’elemento che lega tutto, e senza il quale il resto non ha senso — la meravigliosa fluidità che rende questa danza con una palla diversa da qualsiasi altro sport — si sottrae alle parole». Con questa premessa, Matteo Codignola sa restituire al tennis la dimensione profonda delle storie che l’hanno animato, quando era libero dalle regole dettate dal professionismo e dal mercato. Nel libro “Vite brevi di tennisti eminenti“, Codignola intesse venti racconti, che interpretano altrettante fotografie in bianco e nero capaci d’ispirare la narrazione. Gottfried von Cramm, il più forte giocatore a non avere mai vinto Wimbledon, apre la raccolta. Von Cramm è l’ultimo sopravvissuto di un’epoca in cui i risultati contavano molto meno della pura bellezza di un colpo. Negli anni più difficili, non tradì mai la passione per il tennis. Disse no al corteggiamento del regime nazista, pagando col carcere l’omosessualità, per poi tornare sul campo con la consueta eleganza. Maureen Connolly appare in una fotografia con un’espressione perplessa. Lei appena diciottenne vinse i quattro tornei dello Slam e scomparve appena trentaquattrenne. Nel suo sguardo, dopo un colpo non andato a segno, c’è il dialogo interiore e con l’ambiente esterno di un tennista, che corrisponde alla costruzione del tempo di una partita. Le parole pronunciate dalla piccola ragazza con la racchetta grande testimoniano la progressiva trasformazione del tennis al femminile: «Ora le donne con le gonne corte e i pantaloncini hanno una maggiore libertà nei movimenti. Corrono anche più veloce, perché non pensano ad apparire posate sul campo. Si allenano di più per divenire buone atlete. Molte più donne vanno a rete e mostrano confidenza con la volée e e lo smash. Le racchette sono incordate in modo più saldo e consentono di colpire veloce e forte». Fra i ritratti colpisce quello di Jaroslav Drobny. Il padre, dopo anni di servizio nella Marina austroungarica, all’inizio degli anni Venti era il custode del migliore circolo di tennis di Praga. Jaroslav cominciò a giocare all’età di cinque anni e alla bellezza sapeva abbinare l’agonismo. «Drobny era un giocatore naturale, immensamente dotato, partito dal serve and volley per approdare a un gioco a tutto campo molto fluido e crudele. Quella gentilezza di tocco aveva sempre fatto passare in secondo piano le sue straordinarie doti di agonista». Nel 1953, a Wimbledon, entrò nella memoria collettiva del tennis con uno dei match più lunghi, segnato da scambi da venti o trenta colpi, rarissimi sull’erba in quegli anni. Alla domanda più semplice e più alta, il fuoriclasse Ilie Nastase risponde: «Che cos’è il tennis? Il gioco più strano che sia mai esistito».