I primi dati sullo shot clock sorprendono: i match sono più lunghi
La grande novità regolamentare dell’estate nord americana è stata senza dubbio la decisione della federazione tennis statunitense, in collaborazione con ATP e WTA, di introdurre nei tornei estivi nordamericani (Washington, San Jose, Toronto, Montreal, Cincinnati, New Haven Winston Salem e US Open) lo shot clock. Questa innovazione tecnologica, studiata per permettere il rispetto della regola dei 25 secondi a disposizione del giocatore al servizio tra un punto e l’altro, ha già avuto un iniziale impatto anche nel primo Slam della storia nel quale è stata utilizzata.
Su Tennis.com Steve Tignor ha raccolto a tal proposito alcune dichiarazioni dei grandi protagonisti del torneo. La più intelligente è stata probabilmente quella di Sloane Stephens, la quale ha centrato un aspetto che va oltre i pareri favorevoli (Svitolina: “Credo sia una novità positiva!”, Kvitova: “Tutto sommato, non è male“) e negativi (Djokovic: “Semplicemente non mi piace“, Serena: “La odio“) raccolti in queste settimane. La campionessa degli US Open 2017 ha infatti sottolineato: “Lo shot clock non è una vera vittoria della tecnologia: alla fine, la decisione di farlo partire, metterlo in pausa e fermarlo, spetta pur sempre a un essere umano, l’arbitro di sedia“. Detta cosi, sembrerebbe in effetti cambiar poco. Tuttavia, quel che certamente è cambiato con questo ulteriore ingresso della tecnologia nel tennis professionistico, è la reazione dei giocatori in campo. Con lo shot clock possono finalmente leggere su un monitor quanto tempo hanno a disposizione prima di dover nuovamente servire e regolarsi di conseguenza.
Un aspetto sottolineato proprio da Svitolina: “Mi piace perché sono sempre così veloce tra un punto e l’altro e adesso posso finalmente sapere che. ad esempio. ho ancora 15 secondi a disposizione. Ho la chance di prendere tempo e pensare meglio a dove servire e cosa provare a fare nel punto“. Sebbene cinque settimane siano davvero poche per giungere a conclusioni sensate, Jeff Sackmann sul sito Tennis Abstract ha analizzato i dati provenienti dai tornei già giocati con lo shot clock, giungendo alla conclusione che mediamente il tempo tra un punto e un altro è aumentato di un secondo.
In ogni caso, quel che conta è che non sembra si sia affatto condizionato il precedente ordine dei valori in campo: i due tornei più importanti tra gli uomini già giocati con questa innovazione, Toronto e Cincinnati, sono stati vinti da due dominatori dell’ultimo decennio, Nadal e Djokovic (entrambi mai entusiasti riguardo a questa introduzione). Quel che è certo è che la decisione del giudice di sedia far partire lo shot clock dipende da tante variabili (ad esempio, la temperatura atmosferica in campo, il numero di scambi del punto precedente, la durata dell’applauso, particolari situazioni di punteggio come il tie-break e il relativo passaggio delle palle da una parte all’altra del campo ogni due punti) che ancora non permettono di eliminare in alcun modo la centralità del fattore umano.
Tuttavia, in un tennis che cerca in ogni modo di velocizzzare i match per venire incontro alle esigenze di tv e spettatori, in un mondo che corre sempre di più, lo shot clock, che fu già utilizzato con esiti positivi nelle quali degli US Open 2017, sicuramente migliora l’esperienza del pubblico. Con questa innovazione lo spettatore può meglio intuire, a differenza del passato, se un giocatore stia “rubando” secondi e accertarsi che non ci siano perdite di tempo. Le prime partite degli US Open 2018 confermano l’impressione di questo mese di tornei: così come è regolamentato adesso, lo shot clock incide ben poco nel ridurre la durata dei match (basti pensare al primo turno tra Anderson e Harrison, durato 4 ore e 15 minuti) e va studiato altro, magari tornando alla regola che nei Major prevedeva soli 20 secondi tra un punto e l’altro.