Cosa resta di Wimbledon, qualche giorno dopo

Metabolizziamo Wimbledon dopo qualche giorno, con 24 ore di vantaggio psicologico per aver raggiunto il picco emotivo e di interesse sabato, non domenica. Al termine della battaglia tra Djokovic e Nadal. Il cerchio va però chiuso, partendo proprio dall’ultimo atto.

NOLE IS BACK – Il ritorno al successo di Djokovic, nella finale contro l’esausto Kevin Anderson, ha sorpreso un po’ tutti. Tranne i bookmakers, che si erano fatti incoraggiare dalle recenti prestazioni del serbo al punto da indicarlo alla vigilia del torneo come il primo rivale di Roger Federer. Hanno avuto ragione, più di noi che siamo ancora rimasti perplessi per l’eccessiva magrezza di un giocatore che sfigurava (senza offesa) rispetto agli avversari a ogni cambio di maglietta. La chiave del ritorno a così alti livelli è evidentemente nella testa, prima che nel fisico che comunque ha dovuto superare i recenti guai. La rassicurante presenza di coach Vajda nell’angolo, insieme al (ritrovato) sorriso della moglie hanno buona parte dei meriti. Prendiamo però in prestito le parole di Paolo Bertolucci su Gazzetta, rivolte direttamente a Nole, per aprire ufficialmente una nuova fase della carriera del fuoriclasse serbo. “Solo il lavoro combatte il vuoto, lo riempie di significato e può costruire qualcosa di nuovo dopo la sconfitta. Essere campione richiede silenzio, elaborazione del momento e un certo grado di penitenza”. Bentornato.

LONG SET E DINTORNI – Se Kevin Anderson – giustiziere di Federer – è arrivato in finale con le gomme sgonfie, lo si deve chiaramente alla maratona dei big server che l’ha visto superare John Isner al termine della semifinale più lunga della storia di Wimbledon. Quanto è bastato per riaprire l’insidiosa questione long set, utile forse a scrivere nell’immediato pagine di epica tennistica, sfalsando però il regolare svolgimento del torneo. Chi si è lamentato dopo le sei ore e mezza della prima semifinale, in realtà, avrebbe volentieri prolungato la durata del quinto set tra Djokovic e Nadal terminato “appena” 10-8. L’estetica però non può condizionare valutazioni di principio. Per assurdo, solo in una finale, quando non ci sarebbero poi conseguenze sul prosieguo del torneo, il fascino del long set potrebbe compensare la sua assurdità. A proposito di Djokovic-Nadal: Wimbledon fa storia a sé, chiaro. Non basta forse la legge inglese a dare un senso alla sospensione di un match alle 23, specie se si gioca con il tetto chiuso e le luci artificiali. Dura lex sed lex, si direbbe dalle nostre parti. Anche se, nella patria della common law, uno spiraglio d’evoluzione si potrebbe trovare.

SENZA FEDAL – In un torneo che non ha lesinato sorprese, è mancato l’esito che sembrava per molti quasi scontato. L’ennesima finale tra Federer e Nadal. Non è semplicistico definire occasionale il ko di Rafa in semifinale. Una sconfitta arrivata senza particolari demeriti, se non quello di non aver saputo portare dalla propria parte gli episodi contro il miglior Djokovic degli ultimi tempi. Nadal ha perso una partita che avrebbero potuto vincere entrambi, e che magari sarebbe stata diversa in una sfida di resistenza non spezzata in due giorni o (perché no) con gli ultimi due set giocati sotto il sole. Rientrato dall’infortunio ad aprile, il maiorchino ha perso solo due partite su 33. Più pesante l’impatto del ko di Federer, avanti due set a zero e beneficiario di un match point non sfruttato, prima di crollare sotto il bombardamento da servizio di Anderson. Non solo forza bruta, sia chiaro, quella del sudafricano, bravissimo a rimanere in partita quando altri avrebbero mollato per poi risalire centimetro dopo centimetro. Nella puntualissima cronaca del nostro inviato Vanni Gibertini si fa riferimento ai soli quattro precedenti che hanno visto il re svizzero soccombere da un tale vantaggio. Nessuna tragedia, ma una significativa iniezione di fiducia per la concorrenza in vista del cemento americano.

AHI, SASCHA – In tema di delusioni, tocca entrare ancora una volta con la lama nella piaga Zverev. Sascha ha regalato un pomeriggio di gloria al redivivo Gulbis, accodandosi ai tanti delusi della prima settimana (a proposito: un saluto anche a Marin Cilic). Ancora un flop a livello Slam per il tedesco, di cui però non si possono dimenticare i due titoli (e le due finali) di una proficua campagna di primavera su clay. Parlando di un classe 1997 comunque al numero tre del mondo, Luca Baldissera da Church Road ha giustamente sottolineato come la differenza tra Sascha e i Fab Four (o three?) sia in questo momento nella scarsa capacità di uscire dai momenti complicati. Soprattutto sulla distanza dei cinque set.

REGINA ANGIE – In un torneo femminile che ha spazzato via d’un soffio le prime dieci teste di serie, Angelique Kerber ha definitivamente colmato il vuoto (anche qui, la testa!) del 2017 consacrandosi campionessa matura, quando sono passati due anni dalla stagione in cui tutto ciò che toccava diventava oro. Il suo tennis costruito su solidissimi fondamentali difensivi e sulla massimizzazione dell’efficienza fisica rischia di non regalarle le meritate copertine per “eccesso di normalità”. Ma tre Slam non si vincono per caso e la rivincita della finale del 2016 è arrivata con pieno merito.

DA CAMILA A SERENA – Serena Williams merita un capitolo a parte. Anche per una parentesi di nostro interesse diretto. Prima di Kerber – infatti – l’unica a farla soffrire è stata Camila Giorgi. L’azzurra non cambierà mai il suo stile di gioco d’assalto ma certamente, con la ritrovata serenità, potrà limitare i black out mentali che l’hanno punita più delle tanto cercate forzature sul campo. Attendiamo Camila sul cemento americano, lì dove anche Serena potrà dare risposte ancor più stabili sul suo stato di forma. Da un lato, la cavalcata fino alla finale, lasciando spesso alla pallina l’onere di correre al suo posto, è da infiniti applausi se pensiamo al vissuto che c’è dietro. Tornando indietro di qualche mese, nessuno avrebbe pensato a Miami (brutto ko con Naomi Osaka) che il processo di smaltimento di quei chili di troppo avrebbe potuto viaggiare in parallelo con la rigenerazione di una campionessa. Arrivando in finale, Serena ha spazzato via d’autorità le polemiche sulla concessione della testa di serie (per quanto il criterio resti rivedibile). Allo stesso modo un suo successo, che sarebbe maturato in condizioni fisiche certo non ottimali per un’atleta professionista, non avrebbe rappresentato un bel segnale nel complesso vuoto di potere che vive il tennis femminile. Kerber ha messo le cose a posto, Serena a Flushing Meadows potrebbe arrivarci realmente da favorita. Senza più portarsi dietro polemiche, ma solo la sua grandiosità di donna e di atleta.