Lo Slam racconta: Wimbledon ’77, fermate John McEnroe!

Maledizione, com’è successo? O almeno, quando? Dov’è lo stacco temporale, la cesura che fa apparire quelle immagini di quarantun anni fa come fossero preistoria? Palline bianche, calzoncini attillati, racchette di legno… Se non fosse per il colore potrebbero essere immagini degli anni ’40 o giù di lì, quando ancora nel nostro magico sport era l’abilità del giocoliere, e non la forza bruta, a contare. Oggi pas de finesse. The Times They Are A-Changin’, per dirla con un recente premio Nobel, quindi eccoci qui. Ai tempi di questa storia qualcosa stava proprio cambiando. Jimmy Connors portava livelli di violenza e aggressività fino allora sconosciuti nel tennis, Borg spazzolava drittone e rovescio a due mani con dinamiche nuove e la lotta per il trono era cosa loro. Ma il terzo uomo stava arrivando.

Qualche mese prima dell’edizione del Centenario di Wimbledon il nostro protagonista ha compiuto da poco diciott’anni e nel settembre seguente frequenterà l’università a Stanford, sulla West Coast. È rosso di capelli, svelto di mano, con la predisposizione alla baruffa tipica degli irlandesi. Si chiama John Patrick McEnroe Junior e il suo braccio sinistro compie mirabilie. Quella primavera la federazione statunitense di tennis gli ha appena dato il via libera per disputare i tornei europei quando, carico come una molla, corre alla Port Washington Academy – dove si allena sotto la guida di Harry Hopman e Tony Palafox – per chiedere consigli al più scafato del gruppo.

Questi è newyorkese come lui, ha una folta criniera bionda e origini lituane. Fra non molto tutti lo conosceranno come “Broadway” Vitas. Ecco le sue parole: “Te lo dico io cosa ti succederà al tuo primo Open di Francia. Il tuo avversario sarà un tennista europeo di cui non hai mai sentito parlare che ti farà un culo così”. La sera prima di partire John la passa con l’amico di sempre Doug Saputo. Stranamente i due non sono molto loquaci, nell’aria appiccicosa di Douglaston c’è un’atmosfera strana, sospesa fra presente e futuro. I tiri a canestro accompagnati da un paio di birre sono un rito di passaggio ed entrambi ne sono consapevoli. Nulla sarà più come prima.

Quando sbarca all’aeroporto De Gaulle di Parigi ha con sé un borsone, cinquecento dollari arrotolati in tasca e un fascio di racchette sottobraccio. John si sente smarrito, sotto la sottile scorza di durezza newyorkese la carne è ancora tenera. “Nessuno parlava la mia lingua, mi sembrava di essere in una scena di ‘Ma guarda un po’ ‘sti americani’. Chevy Chase e Beverly D’Angelo pranzano in un ristorante. Lui le sorride entusiasta: ‘Vedi come sono gentili, cara?’ Mentre il cameriere dice in francese ‘Stupido stronzo americano’”. Al Roland Garros supera l’ultimo turno delle qualificazioni passando una notte insonne, perché l’incontro decisivo era alle 8.45 del mattino e temeva di non svegliarsi. “Mi potreste svegliare? Chiesi all’impiegato della reception. Mi rispose in francese, ‘Và a farti fottere’, scommetto”.

Nel tabellone principale supera il primo avversario facilmente, poi perde dall’australiano Phil Dent al quinto e impara una lezione. Durante il match arbitro e giudici di linea commettono errori a non finire, “ …chiamavano out palle dentro di quindici centimetri”. McEnroe è abituato ai tornei di categoria, dove ci si arbitra da soli, e per tutto il tempo si rivolge direttamente a Dent con frasi tipo “…hey, non posso accettare questo punto. Rigiochiamolo”. Ma l’australiano non fa una piega, non apre bocca e vince. Alla stretta di mano Phil gli dice: “Giovanotto, adesso sei tra i professionisti. Gioca secondo quello che dicono e se hai delle obiezioni parlane con i giudici”. Non sa ancora fino a che punto sarà preso in parola, lo scoprirà solo qualche settimana dopo nel modo più doloroso.

Al Roland Garros vince il torneo juniores davanti a tre spettatori e il titolo del doppio misto con l’amica Mary Carrillo. Occupa il tempo rimanente scoprendo Parigi, poi raccatta le sue carabattole e attraversa la Manica, direzione Church Road, “…dove almeno parlavano una lingua vagamente simile alla mia”. Londra è più cara di Parigi e John condivide per tre sterline a notte una camera con altri quattro tennisti di belle speranze. È una specie di campeggio al coperto e la dieta base consiste in pizza e gelati. Calorie a poco prezzo. Siamo a una svolta decisiva. Si tratta di un evento minore, qualcosa che al momento sembra non avere importanza. Ma è il battito d’ali che scatena la tempesta.

Mac gioca il primo turno di qualificazioni per il Queen’s, l’incontro si disputa su un campo di legno al coperto perché piove e il suo avversario è il connazionale Pat DuPré, lo stesso che due anni dopo negherà ad Adriano Panatta le semifinali di Wimbledon. McEnroe sfrutta il talento innato nell’anticipo per dominare il primo set ma alla pausa una donna fra lo sparuto pubblico prende ad insultarlo pesantemente e non smette più. Frastornato, John cede 7-6 al terzo prima di scoprire che la molestatrice altri non era che la moglie del suo avversario. Niente Queen’s, il fato ha altri disegni. “La mia sconfitta nel match contro DuPré si trasformò in una fortuna: se fossi passato non credo che avrei avuto il tempo di partecipare al torneo cercando nel frattempo di qualificarmi per Wimbledon. Quindi, grazie di cuore, signora DuPré!”.
Le qualificazioni del Torneo dei Tornei sono un girone dantesco che si disputa sui campi del Roehampton Club, sole, vento o pioggia che sia. Mac rischia di perdere subito ma sopravvive e vince sotto l’acqua, contro il francese Gilles Moretton, l’incontro decisivo per l’accesso al tabellone principale. Alla fine è sporco di fango come un mediano di mischia al Sei Nazioni. Irlandese, ovvio. Mary Carrillo ha un ricordo netto di quei momenti. “Migliorava continuamente, aveva una mano fatata e quell’incredibile primo passo… Appena lo vidi sull’erba pensai che avrebbe potuto essere grande. Solo non pensavo così grande…”. L’accesso a Wimbledon vale sessanta sterline al giorno di rimborso spese e la prima cosa che John fa sono i bagagli per trasferirsi al Cunard Hotel con Eliot Teltscher e Robert Van’t Hof. “Scegliemmo quello solo perché aveva due distributori del ghiaccio”. Del resto allora non c’era bisogno del dietologo o della camera iperbarica per essere un campione.

Nel tabellone dei grandi il Mandrake newyorkese si fa largo a spallate. Le immagini dell’epoca ce lo mostrano ancora paffutello, vestito Fila come Borg, mentre urla “Are you sure?” al giudice arbitro con le gote rosse di rabbia. Il servizio è ancora frontale, solo l’anno dopo inventerà quel suo movimento unico per ovviare al mal di schiena. Ma tempo sulla palla, nitidezza di traiettorie e creatività sono già quelle. El Shafei, Dowdeswell, Meiler e Sandy Mayer vengono annichiliti e nei quarti di finale va in scena il replay del match parigino contro Phil Dent. L’australiano lo ha battuto da poco, è un falco da erba duro come la pietra al pari di tutti i suoi connazionali, secondo i dettami dello spietato Harry Hopman. Spara la battuta e un secondo dopo è con gli artigli sulla rete.

Nel pomeriggio del 28 giugno 1977 i contendenti varcano la soglia del Court 1, per molti il vero Wimbledon, camminando affiancati a pochi metri dagli spettatori. John non è per nulla nervoso e vince il primo set con un ispirato 6-4. Oltre il net però c’è uno che non molla mai e pareggia i conti in un teso tie-break segnato da qualche chiamata dubbia contro il nostro. Quando l’australiano mette a segno il punto del pareggio McEnroe spacca in due la sua Wilson e la prende a calci fino alla seggiola. A Wimbledon non si può fare e il pubblico lo sommerge di fischi. Dent non crede ai suoi occhi, ha creato un mostro che ora non lo degna di uno sguardo e lancia improperi contro tutto e tutti. Lui ne approfitta per vincere il terzo.

“Mi ero messo in una brutta situazione, ma feci un profondo respiro e chiamai a raccolta tutte le mie forze”. Ed ecco, abbacinante, la qualità dei grandi: sapersi cavare dalle sabbie mobili quando la situazione lo richiede. Un parziale di 4 giochi a 1 per l’aggancio e un solo piccolo break al quinto spediscono il ragazzotto irlandese in paradiso. In semifinale lo attende un dio con la racchetta, d’acciaio come la sua volontà di vittoria, di nome James Scott Connors. Nessuno era mai arrivato così lontano partendo dalle qualificazioni. Nessuno. Il giorno seguente nell’atrio del Gloucester Hotel, la casa dei campioni, sono esposte le quote dei bookmakers sui possibili vincitori del torneo, John scorre la lista mangiando una coppa di gelato.

Borg 2-1

Connors 3-1

Gerulaitis 7-1

McEnroe 250-1

È forse in quel momento che McEnroe perde mezza semifinale. L’altra metà la lascia negli spogliatoi poco prima del’incontro. Connors aveva portato nel tennis la sua mentalità da pugile, aveva bisogno di odiare l’avversario per dare il meglio e quando John si avvicina con la mano tesa per salutarlo lui lo trapassa con lo sguardo, raccoglie il suo borsone e se ne va. “Si comportò come se non esistessi”. Supermac a distanza di decenni ricorda ancora distintamente i suoi pensieri in quel preciso momento. “Ma cosa c’entro io qui? Non posso vincere, non ce la faccio”. E invece, volendo, chissà cosa sarebbe potuto succedere. Con papà e Tony Palafox in tribuna perde netto i primi due set – “…faticavo persino ad alzare le braccia” – poi si accorge che Jimmy non è in gran giornata. Vince il terzo ma ormai è troppo tardi, game, set and match Connors. Non mancheranno occasioni di rivincita, sovente con l’intervento dei pompieri per spegnere le fiamme.

Da quel giorno John Patrick McEnroe junior non avrà mai più bisogno di girare con dieci racchette in spalla sperando di sentirsi chiedere se è un giocatore di tennis. Torna a casa, e al fido Doug basta uno sguardo per comprendere che le birre di poche settimane prima non avrebbero mai più avuto lo stesso sapore. Alea iacta est.