Sempre tutte sulle spalle di Fognini? Forse non le ha abbastanza grosse
“Tocca a me togliere sempre le castagne dal fuoco, io ci metto la faccia, ma talvolta a toglierle ci si brucia…”.
Queste le parole con cui Fabio Fognini si è espresso in sala stampa dopo la sconfitta che ha dato il 3-1 e il passaggio alle semifinali per la Francia e che – appunto – brucia per le occasioni che Fabio ha mancato nel terzo quando ha servito invano sul 5-3 e quando ha mancato 3 set point. Due li ha ben annullati Pouille, ma sul terzo quello che sarebbe stato un vincente a campo aperto di Fognini, il net ha frenato il tracciante accomodando la palla per il successivo vincente di un Pouille oggettivamente baciato dalla buona sorte in quel frangente.
Che poi Pouille si sia dimostrato più solido nei momenti importanti, salvando tante palle break con il servizio (che fila 20/30 km più veloce rispetto a quello di Fabio), e giocando decisamente meglio nel tiebreak, è un altro paio di maniche. Cedric Pioline mi ha detto (e potrete ascoltare il suo audio prossimamente quando avremo preparato anche un po’ di traduzione): “Fabio è un giocatore fantastico, ma gli manca sempre qualcosa, altrimenti sarebbe stato quei sei o sette posti più in alto in classifica”.
Le parole pronunciate da Fabio ricalcano un po’ quelle che per l’appunto mi aveva detto suo padre Fulvio, al mattino presto, quando stavamo per entrare nell’impianto di Valletta Cambiaso: “Fabio deve sempre vincere, è troppo solo, se non vince lui la squadra non va avanti, sono anni che è così. Poi quando vince salgono tutti sul carro del vincitore…”. Il classico semplice sfogo di un padre che, dal 2008 a oggi aveva visto suo figlio perdere due soli match casalinghi di singolare in Coppa Davis , nel 2008 con Gulbis a Montecatini e nel 2016 a Pesaro con Delbonis. Obiettivamente Fognini in Davis, anche se ha quella macchia del match perso in Kazakistan con Nedovyesov sul 2 pari, ha sempre dato molto, ancor più che nei tornei individuali come impegno, sudore e lacrime. Resta il fatto, che con tutti i suoi limiti, Fabio Fognini è stato il miglior giocatore italiano degli ultimi 40 anni, sia in termini di classifica che di tornei vinti.
A differenza della Francia, che da anni ha tirato fuori top-ten a iosa, e continui ricambi ai migliori – Pouille è l’erede dei vari Tsonga, Monfils, Gasquet, Simon, – l’Italia da anni è sempre ancorata agli stessi giocatori. Di giovani rimpiazzi non è emerso nessuno, Seppi ha 34 anni, Lorenzi 36 e mezzo, Fognini 31, Bolelli 32…e ora siamo in brodo di giuggiole perchè Berrettini a 22 anni si è affacciato fra i primi 100 del mondo. A chi si riferisse papà Fulvio con quel “tutti salgono sul carro del vincitore” non glielo ho chiesto. Lì per lì ho interpretato – ma certo mi si dirà che è la solita interpretazione maligna dello Scanagatta ipercritico nei confronti della Federtennis – che fossero i “federales”.
In effetti a vantarsi dei… successi del tennis italiano in Davis e in Fed Cup sono stati soprattutto loro: “Siamo sempre fra le prime 8 squadre del mondo” è stato il costante leit-motiv di Corrado Barazzutti, così come Angelo Binaghi non cessava di ripetere ad ogni trionfo in Fed Cup: “Siamo campioni del mondo!”. In effetti Binaghi avrebbe dovuto più onestamente dire: “Queste ragazze sono campionesse del mondo” e non invece “il tennis italiano è campione del mondo”, arrogandosi meriti di sistema che sono invece meriti individuali. Così ho accennato a Fulvio Fognini il mio pensiero e cioè: “Tutto sommato i giocatori italiani che in questi anni hanno tirato la carretta in Davis sono stati, insieme a Fabio che da ragazzino è costato un bel po’ di sacrifici economici per la famiglia (ai tempi in cui lui e Naso si allenavano sotto la guida di Caperchi e a spese di papà Fognini), giocatori come Seppi e Lorenzi che, anch’essi, sono venuti fuori soprattutto grazie a realtà locali (Seppi con il supporto di mezzo Trentino Alto Adige, tutto Caldaro e il fidatissimo Sartori) e familiari (Lorenzi e Bolelli) e non certo come frutti di un sistema federale.”
Un po’ la stessa storia insomma – a ben vedere – delle nostre ragazze top-ten che hanno potuto godere del concreto sostegno della federazione – sebbene Flavia e Roberta da ragazzine fossero insieme da junior prima del terzo millennio nei college federali – soltanto dopo aver conquistato i primi veri risultati da professioniste con una gestione autonoma e indipendente, in Spagna per Sara Errani con Pablo Lozano, ma anche per Flavia Pennetta con Gabriel Urpi, per Francesca Schiavone un po’ qua e un po’ là (anche lei spesso coach spagnoli e non federali), mentre Roberta Vinci ha vissuto le sue varie esperienze in Sicilia (prima con Palpacelli e poi con Cinà). Poi, per carità, una volta affermatisi a livello individuale, tutti e tutte hanno goduto del sostegno FIT, con la Federtennis che si è giustamente fatta carico di affiancare quei giocatori e quelle giocatrici che erano i soli a poterla rappresentare, in assenza di una “produzione” del deficitario allevamento di Tirrenia che, come è noto, dal 2004 a oggi non ha mai prodotto un solo top 100.
Barazzutti ha espresso fiducia sul fatto che qualche giovane ricambio prima o poi possa arrivare a rimpolpare l’asfittico tennis azzurro, ma quando gli ho chiesto perché ciò non fosse avvenuto negli scorsi 10-12 anni, la sola risposta che mi ha dato è stata questa: “Forse non avevamo del materiale buono a sufficienza”. Mah, a mio avviso sono anche mancati coach di sufficiente livello e investimenti sufficienti a coinvolgere coloro che invece quel livello avevano. Una questione di priorità, insomma. Soltanto da pochissimi anni si è finalmente capito che vanno incoraggiati i team privati. Ma quella che dovrebbe essere la prima missione di un movimento federale, cioè migliorare la situazione tecnica del nostro tennis, che per ora e da 20 anni, ha dato obiettivamente risultati sconfortanti. E non c’era bisogno di questa sconfitta in Coppa Davis, in fondo avvenuta contro la squadra campione in carica, per scoprirlo. Non può essere la Davis il solo termometro della situazione tecnica di un paese. Tuttavia se da 12 anni abbiamo avuto quasi sempre la stessa squadra, un qualche problema esiste.
Quindi sarebbe serio e onesto intellettualmente ogni tanto sentire un minimo di autocritica. Non succede mai.