La Piccola Biblioteca di Ubitennis: altri mondi, Kareem Abdul-Jabbar

Kareem Abdul-Jabbar, Coach Wooden and me, ADD editore, Torino, 2017

C’è una striscia dei “Peanuts” di Charles M. Schultz in cui Sally, la sorella minore di Charlie Brown, dice alla sua maestra: “Dovevo consegnare un tema di duemila parole, ma ho letto da qualche parte che un’immagine vale mille parole: ecco qua due disegni”. Le foto in prima e quarta di copertina di parole ne valgono milioni. Una è del 1966, presa al Pauley Pavillon, la casa degli UCLA Bruins di Basket. Il giovane centro della squadra – palla a spicchi sotto il braccio – ascolta intento il suo coach che sotto di lui a braccia allargate illustra un movimento. L’altra è di quarant’anni dopo, a colori, stesso posto. Ora i due sono più curvi, camminano e il ragazzo di allora – occhiali da vista appesi al collo – tiene per mano il suo allenatore mentre escono lentamente dal campo. Il loro campo. Chi sono? Kareem Abdul Jabbar, nato Lewis Alcindor a New York nel 1947, fra i più grandi pivot della storia, sei anelli di campione NBA, il primo con Milwaukee e gli altri con i Lakers di Magic Johnson. John Wooden, il mago di Westwood, insegnante di letteratura diventato allenatore di basket. Dieci titoli NCAA con i Bruins di cui sette consecutivi, morto nel 2010 alle soglie del secolo di vita.

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Kareem è ora un intellettuale rispettato. Laureato in storia, scrive libri e articoli per il Washington Post – quello del Watergate – e il New York Times. Nel 2016 Barack Obama lo ha insignito, insieme ad altri fra cui Robert Redford, De Niro e Bruce Springsteen, della Presidential Medal of Freedom. Si tratta del più alto onore civile della nazione, conferitogli per il suo impegno sociale e civile nell’integrazione delle minoranze. Potrebbe essere il solito libro di memorie sportive ma non è così. Nonostante si potessero facilmente scrivere migliaia di pagine sui successi di questi due uomini, non scoverete una briciola di autocompiacimento nelle duecentoquarantasei che compongono il libro. Vi ritroverete invece gli occhi velati di lacrime al termine della storia profonda, ricca di umorismo, sorprendente, improbabile della vera amicizia, nata in uno dei periodi più travagliati nella storia degli Stati Uniti – quello della lotta per i diritti civili, di Rosa Parks, dell’assassinio di Martin Luther King del pugno guantato di Tommy Smith e John Carlos alle Olimpiadi messicane – fra due uomini che più diversi non avrebbero potuto essere. Un nero di New York e un bianco dell’indiana, separati da 37 anni di età e quasi mezzo metro di altezza. Fu vera amicizia? Sì.

È il viaggio di un granellino di sabbia che diventa perla. Il granellino è un ventenne di due metri e diciotto centimetri che dopo aver sbriciolato ogni record statistico a livello di scuola superiore siede speranzoso sulle gradinate insieme ai suoi compagni in attesa delle prime parole del coach. L’ostrica che lo proteggerà per una vita intera è un uomo con gli occhiali dalla montatura pesante e la scriminatura fra i capelli tirata con il righello, che li guarda in silenzio. Finché poi dice: “Buon pomeriggio signori, oggi impareremo come metterci le scarpe da ginnastica e le calze in modo corretto”. Costernazione. E poco dopo: “Io adoro vincere, ma vincere non è il nostro obiettivo. Il nostro obiettivo è lavorare duro. Non sperate mai, la speranza è per la gente non preparata” Sgomento. Questo era coach Wooden, attenzione ai particolari, abnegazione, integrità.

Nonostante i primi dubbi Kareem non si pentirà mai della sua traversata di 4.500 chilometri verso il sole della California. Anche il rapporto che li legherà per sempre è stato un lungo cammino, durante il quale non lasciarono mai che le reciproche differenze culturali, razziali e religiose diventassero ostacoli. Si presero per mano come in quella bellissima foto e se le lasciarono dietro. Kareem racconta la storia di come un uomo bianco del Midwest, cresciuto in una fattoria senza acqua corrente, abituato a combattere quei rigidi inverni con mattoni scaldati nella stufa, sia diventato un secondo padre per lui. Una vicenda ricca di insegnamenti senza tempo sulla sincerità, il rispetto della parola data e del prossimo, l’importanza di andare avanti sempre. C’era qualcosa nel suo atteggiamento – scrive Kareem – una comprensione paziente che mi fece capire che quel che più gli interessava era insegnarmi ad abituarmi alla delusione, a resistere. Il coach mi insegnò le tecniche per affinare il gancio e trasformarlo nel mitico tiro che mi ha aiutato a vincere numerosi campionati… Ma la sua vera lezione sulla perseveranza e la necessità di adattarsi alle difficoltà mi è stata d’aiuto nella vita al di fuori del campo da basket”.

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Una comprensione paziente, un rispetto che Wooden mostra soprattutto quando Lewis Alcindor decide di convertirsi all’Islam ( “… non sapevo come affrontare l’argomento con i compagni. ‘Hey ragazzi, andiamo in campo e polverizziamo quegli idioti. E, a proposito, sono diventato musulmano. FORZA BRUINS!’ ) diventando Kareem Abdul Jabbar, generoso servo di Dio. Nulla rappresenta meglio la filosofia di vita del coach di una poesia anonima, divenuta uno spot della Gatorade, che Wooden preferiva a tutte le altre. Eccola:

Nella vita devo stare attento / un piccoletto mi sta seguendo
So che non oso uscir di carreggiata / per timore che anche lui faccia qualche bravata
Pensa che io sia sempre giusto e buono / crede a ogni mia frase, a ogni mio suono
Mostrare il mio peggio non intendo / a questo piccoletto che mi sta seguendo.
Devo essere cauto mentre consumo le suole / sulla neve d’inverno e d’estate al sole.
Perché per gli anni a venire sto formando / questo piccoletto che mi sta seguendo”.

Uno di quei piccoletti è stato lui.

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