Roger e Rafa, gli altri siamo noi
Wimbledon, Centre Court, 5 luglio 2048. Una tensione che fa rumore attanaglia il pubblico mentre attende l’ingresso in campo dei finalisti. Nella pancia dell’impianto, pochi metri più in là, due tennisti che hanno saputo trattare vittoria e sconfitta allo stesso modo attendono concentrati sotto i versi di Kipling. Uno dei due saltella stringendo in pugno la racchetta, l’altro non muove un muscolo ma sotto la bandana bianca le pupille hanno il luccichio di sempre. Sono due della vecchia scuola. È giunto il momento, le porte si aprono lasciando entrare lame di sole e i protagonisti si incamminano verso le rispettive sedie. Sparsi nelle prime file alcune star del torneo, uscite inaspettatamente per mano di quei due. C’è Alexander Michael Zverev, detto MishaSascha. È un vichingo di due metri, usa un nuovissimo modello della Head in biocarbonkevlar che va conservato in grandi humidoir come i sigari cubani. Vicino e lui il fiero viso latino di Ramòn Carballes Vinolas Sanchez Carreno, ultimo rampollo di una famosa dinastia di campioni. Non riesce ancora a nascondere incredulità e dispetto per aver perso in semifinale. In campo i protagonisti dispongono con cura le loro cose. Acqua, integratori, racchette. Poi bende, garze, cerotti, una panciera di ricambio e una confezione di Prostamol.
Sorteggio, palleggio e si inizia. Sul seggiolone l’arbitro Mohamed Lahyani III annuncia con voce stentorea: “Quiet please, Mr. Federer and Mr. Nadal are ready”. Fantasia? Chissà… Ma parcheggiamo la macchina del tempo e torniamo a noi.
Roger ha trionfato per l’ennesima volta in uno Slam e a Rotterdam riconquista nell’anno dei trentasette lo scettro di numero uno mondiale. Quale momento migliore per una riflessione su quattordici mesi di tennis che neanche i fratelli Grimm con la consulenza di Isaac Asimov avrebbero saputo immaginare? Siamo stati a lungo indecisi se trattare questo argomento. Forse era preferibile qualcosa di più soft. Ma come si usa dire, questo è uno sporco mestiere e qualcuno deve pur farlo. Quindi sganciamo la bomba e al diavolo i timori.
La stagione che si è appena conclusa e il primo assaggio – direbbe il poeta – “della presente e viva” sono quanto di peggio potesse capitare per chi ha a cuore il futuro di racchette e palline. Per chi ama il tennis, intendiamoci, non per chi osserva il nobile gioco solo in funzione delle vittorie del proprio favorito. Frequentando i siti specializzati e le relative aree di commento, eccettuate poche isole felici, si sa bene che da anni ormai è diventato impossibile proporre qualcosa di diverso da una lode sperticata per i soliti noti. Affilate lame brandite da oscuri nicknames trafiggono immancabilmente il malcapitato che abbia l’ardire di provarci. Il Bar Sport anni fa genialmente descritto da Stefano Benni è diventato ormai grande come il mondo intero. Il tratto comune di questi dibattiti, ça va sans dire, è spesso la superficialità condita da aulici versi sulla moglie dell’uno o la calvizie incipiente dell’altro. Ma tant’è, haec tempora sunt. A maggior ragione oggi più che mai è necessaria una lettura che vada oltre il singolo incontro, il semplice accumulo di numeri, il mero conteggio delle vittorie. Proviamoci, con un balzo all’indietro di un anno abbondante.
La stagione 2017 parte sotto i migliori auspici per i rivali della banda dei quattro. Federer non gioca da Wimbledon per via di un ginocchio malconcio. Nadal si è ritirato dal Roland Garros pagando dazio ad un fisico logorato da troppe battaglie. Djokovic e Murray si spartiscono equamente il 2016 ma Nole stacca mentalmente dopo Parigi e da lì Andy fa corsa praticamente da solo. Il nuovo anno appare quindi a molti come incerto e appassionante. Forse sta per arrivare ancora una volta quel momento unico e magico nel quale scorgi un campione. Non sai perché, non esiste motivo razionale ma sai che è lui. Il tocco di palla di John McEnroe, la serena sicurezza di Mats Wilander, i tuffi del diciassettenne Becker, il servizio di Sampras allo US Open 1990. Nulla di tutto ciò. Roger e Rafa fanno man bassa, dalla loro tavola cade giusto qualche briciola che gli altri possono contendersi scodinzolando solo perché George Harrison e Ringo Starr, (non ce ne vogliano Nole e Andy) si prendono un anno sabbatico comprensibile dopo una vita passata a rincorrer miraggi.
Ed eccoci al punto. Gli altri dove sono? I vari Zverev, Thiem, Kyrgios, Rublev, Shapovalov, Fritz, Tiafoe, solo per pescare a caso nel mazzo, cosa stanno aspettando? Fossimo in loro cominceremmo a interessarci per affittare qualche metro quadro nel più vicino dimenticatoio. Gli spazi rimasti non sono più molti, considerato il numero di tennisti bruciati dalla longevità di quei due fenomeni. Federer e Nadal dominano ancora e indiscutibilmente per meriti propri ma nessuno dei giovani leoni sembra in grado di opporsi. Loro appartengono già al Pantheon del gioco, non c’è nulla di più che possano fare, tranne forse vincere uno Slam appoggiati al bastone e con il pappagallo sotto la sedia del cambio campo. Eventualità che, vista la tempra degli avversari, non è da escludere.
Sì, perché di tempra in fondo si tratta. Di gusto per la sfida, istinto di caccia, voglia di migliorarsi per vincere. Tutte qualità che agli alfieri della Next Gen sembrano far difetto. Ma la logica dello sport esige un momento, chiaro e distinto, nel quale il campione perde la corona sul campo e il nuovo re la raccoglie. È successo a tutti. A Tilden e Gonzales, a Laver e Borg, fino a quel drammatico ottavo di finale di Wimbledon nel quale un ragazzetto svizzero sconfisse Sampras al termine di cinque epici set. È così che dovrebbe andare. E sarebbe sciocco e superficiale attribuire il fatto che questo non stia accadendo alla sola grandezza di quei due (più Nole, d’accordo, ma un bel gradino sotto!). A parziale scusante delle generazioni bruciate dai fab four bisogna dire che gli ultimi 16 anni sono stati perlomeno anomali. Da Wimbledon 2003 all’Australian Open 2018, su 61 edizioni Slam, Federer, Nadal e Djokovic ne hanno vinte 48. Non esiste nulla di paragonabile in un periodo altrettanto lungo nella storia del tennis. Ma ci sono riusciti proprio perché hanno saputo mettersi in discussione, migliorare, adattare il proprio tennis all’obiettivo di sconfiggere il numero uno. Ed ecco Nadal affacciarsi a rete, Djokovic lavorare sulla battuta fino a farne un’arma affilata. E Federer, che di nulla sembrava abbisognare, inventarsi un nuovo stile “o la va o la spacca” per continuare nella caccia a sé stesso. Ecco perché sono grandi. E in ottima compagnia.
Tilden, Budge, Borg. Chi erano costoro? Quando Big Bill capisce che col suo debole rovescio difensivo non avrebbe mai sconfitto il rivale Johnston trascorre l’intero inverno del 1920 ad allenarsi. La mattina spacca legna per irrobustire braccio e polso, il pomeriggio sul campo colpisce solo dal lato sinistro. Johnston non vince più. Don Budge scopre l’anticipo arbitrando un’esibizione fra Fred Perry ed Ellsworth Vines. Si esercita con il coach Tom Stow a colpire allo stesso modo e dopo qualche settimana di caccia al piccione è in grado di padroneggiare la nuova tecnica. Sarà Grande Slam, il primo a realizzarlo. Quando Borg si allena sull’erba del Cumberland Club in vista di Wimbledon, i soci lo vedono tanto scarso che alcuni di loro sono convinti di poterlo battere. Lui tace lavorando duro sulla battuta e su quel rovescetto tagliato d’attacco così contrario alla sua natura. Il risultato è sugli almanacchi.
Insomma, tutti i grandi veri hanno mostrato capacità adattive perché chi si ferma è perduto, nello sport come nella vita. Ce lo ha ben spiegato Darwin 160 anni fa. Quindi, a meno di considerare i dominatori di quest’epoca come alieni venuti dallo spazio, come altro da noi, non rimane che una conclusione. I pretendenti al trono non sono in grado di conquistarlo. Lo prenderanno, certo, ma più per consunzione del sovrano che per meriti propri. Perché ad oggi, per chiunque non sia un profano, appare difficile capire come i giovani rampanti possano mai sconfiggere ancor oggi Nadal o Federer in un’occasione importante. E per decenza verso di loro non includiamo nel discorso Djokovic o Murray. Il motivo è complesso e difficile da capire, le cause possono essere molteplici. Forse la montagna di soldi che piove loro addosso in giovane età ne smorzi gli ardori, probabilmente l’evoluzione di campi, racchette e palline li ha portati a credere che la potenza e un paio di schemi di gioco buttati lì siano sufficienti per scalare la vetta.
Ma il tennis è un gioco che coinvolge abilità sia mentali che fisiche. La potenza è solo una di queste, e nemmeno la più importante. Sempre Tilden racconta in “Match play and the spin of the ball” che in battuta effetto e piazzamento valgono molto più di un cannon ball. Federer non si avvicina neanche lontanamente alle botte di Groth o Karlovic ma continua a mettere giù carrettate di aces. E ancora, il compito di un tennista vincente non è bucherellare il campo ma far giocare male il proprio avversario. Jack Kramer, altro grande studioso, sosteneva che il colpo più importante di un campione è la seconda palla di servizio. La storia del tennis è piena di esempi e buoni consigli da seguire. Quanti giovanotti con la racchetta si son presi la briga di leggere, e riflettere, su questi concetti? Certo la realtà odierna appiattita sull’immediatezza del presente non aiuta. Studiare costa tempo, quindi perché sudare sette camicie quando la popolarità al giorno d’oggi si trova più su Youtube, Twitter o Instagram che dentro la coppa di Wimbledon?
In questo senso la vicenda di Darko Grncarov dovrebbe far suonare più di un allarme. Tempo fa dovevi prima conquistare allori per diventar famoso, oggi basta avere un bel faccino e saper tirare un paio di colpi. In questo preciso ordine. E con il fisico giusto non è poi così difficile sparare un servizio sopra i 200 kmh e un dritto poco sotto, ma il vero tennis, signori, è un’altra cosa. Bisogna avere la completezza di un uomo rinascimentale e la testa di uno scacchista per uscire vivi da una battaglia di cinque set. Certo, è faticoso e duro aver l’umiltà di riconoscere i propri limiti e ancor di più trovare la costanza di lavorarci sopra. Però di questa fatica è lastricata la via del successo. Pensateci ragazzi. Vista la fine fatta recentemente del ventunenne Chung contro Federer, diventa anche una questione di amor proprio…