Next Gen: quanta strada ancora c’è da fare, per Ymer e gli altri
Per la “sezione negativa” del rendiconto annuale della Next Gen, vale naturalmente la stessa premessa del precedente articolo, dedicato ai migliori della stagione. Nel dispensare giudizi, occorre guardare oltre il ranking di ciascun tennista, per valutarne la stagione alla luce dei punti di partenza e delle aspettative riposte nella stagione precedente.
In quest’ottica, la delusione più grande per chi segue la cosiddetta Next Gen è legata probabilmente al nome di Reilly Opelka, classe ’97, oggi numero 229 del ranking. In molti ricorderanno la sua brillante apparizione al torneo di Atlanta, nell’estate scorsa, dove Opelka da n. 837 del mondo era approdato in semifinale superando Christopher Eubanks, Kevin Anderson e Donald Young. In semifinale si era trovato di fronte John Isner, tennista al quale è stato più volte accostato fin dalla giovanissima età per caratteristiche fisiche e potenza del servizio, oggettivamente fuori dal comune. Riesce a strappargli il primo set, ma alla fine perderà il match. Grazie all’exploit di Atlanta, Opelka diventa n. 395 del mondo e inizia la sua scalata nel ranking, che vede un’altra accelerazione a novembre (208), quando lo statunitense conquista il suo primo titolo Challenger, a Charlottesville. Gli elogi e i paragoni avventati si sprecano, le aspettative per la nuova stagione sono altissime. Il miglior risultato del 2017, tuttavia, è forse il match di primo turno conquistato agli Australian Open e perso in cinque set con David Goffin. Per il resto, una lunga serie di occasioni sprecate nel circuito Challenger, prestazioni deludenti sull’erba (superficie sulla quale, nel 2015, aveva conquistato il titolo di Wimbledon Juniores), tante eliminazioni al primo turno: emblematica quella subita da Malek Jaziri ad Atlanta, un anno dopo l’exploit, che ne determina inevitabilmente il crollo nel ranking. Nel match con il tunisino, in generale molto più solido di lui, Opelka spreca ben otto match point. Da quel momento inizia a sparare dritti a rete o un metro fuori dal campo, quindi il crollo nervoso e il 6-1 rimediato nel terzo set. Il resto della stagione, sulle superfici a lui più congeniali, è altrettanto privo di note positive.
L’impressione che si ricava osservando il gioco di Opelka, è quello di un tennis troppo grezzo e monocorde, oltre che estremamente vulnerabile sul lato del rovescio. È una caratteristica per certi versi comune al modello statunitense dominante, fatto di servizio e dritto molto pesanti, in alcuni casi formidabili, ma anche di lacune tecniche. A deludere, come lui, le aspettative, sono stati anche Noah Rubin (per quanto il giudizio su di lui debba essere rinviato al prossimo anno, causa un periodo di stop per infortunio) e in parte Ernesto Escobedo. Il messicano-statunitense, dal fisico potente, è un giocatore interessante prima di tutto per il percorso tennistico umile e originale che ha deciso di compiere, attaccato alle proprie radici e al di fuori delle grandi accademie. Grazie a risultati non appariscenti, ma relativamente costanti, Escobedo quest’anno è riuscito a raggiungere il suo “best ranking”, la posizione n. 67, a metà luglio. Il risultato migliore è arrivato sul rosso (semifinale a Houston), superficie sulla quale sembra trovarsi, come il connazionale Tiafoe, particolarmente a suo agio. Dall’inizio della stagione sull’erba in poi il suo percorso è stato però difficile e costellato di sconfitte anche banali. Se lo si osserva a distanza ravvicinata, si resta impressionati dalla velocità e dalla pesantezza del suo dritto. E tanto gli basterà, probabilmente, per affermarsi a buoni livelli nel circuito maggiore, un augurio che per gli stessi motivi possiamo rivolgere a un tennista come Matteo Berrettini. Ma non si può tacere delle debolezze sul piano mentale e delle lacune nella gestione dei match, che si porta dietro dall’esperienza del circuito Challenger e che nella prossima stagione saranno un po’ il metro della effettiva maturazione di Escobedo.
Nonostante i risultati positivi raccolti recentemente, deve essere incluso in questo bilancio anche Stefan Kozlov, che ha chiuso l’anno n. 167, un relativo arretramento rispetto al finale della scorsa stagione quando lo statunitense, classe ’98, si era piazzato quasi a ridosso delle prime cento posizioni, anche grazie ai due titoli Challenger conquistati nella seconda parte dell’anno. Il suo 2017 è stato un anno a corrente alternata, volendo usare un eufemismo, anche se sul finale sono arrivati due acuti a livello Challenger: il titolo a Las Vegas e la semifinale a Charlottesville. Non si possono trascurare le buone prestazioni sull’erba –superficie sulla quale Kozlov si muove molto meglio di altri della sua generazione – dove ha centrato un doppio secondo turno nei tornei maggiori (‘s-Hertogenbosch e Queen’s). Perché considerare allora deludente la sua stagione? Perché in termini di qualità e varietà dei colpi, timing sulla palla, rapidità negli spostamenti laterali, Kozlov ha pochi eguali nel panorama della Next Gen, soprattutto quella statunitense. Il suo è un talento enorme che rischia però di essere disperso se non accompagnato da una crescita adeguata della muscolatura e, soprattutto, da una gestione migliore delle diverse fasi di gioco. Il tennis di Kozlov mostra ancora, da un lato, una certa impazienza e superficialità dal punto di vista tattico, dall’altro, non per caso, si traduce in una forte vulnerabilità quando è chiamato a giocare scambi più lunghi e fatti di colpi interlocutori.
Sul versante europeo, rientra nell’elenco “negativo” Quentin Halys, uno dei “prodotti di punta” della federazione francese. Considerato il talento del ragazzo e i risultati brillanti a livello Juniores, gli addetti ai lavori avevano previsto la sua consacrazione nel circuito maggiore già lo scorso anno. Le cose sono andate però diversamente e Halys ha disputato quasi esclusivamente tornei Challenger (vincendo il suo primo titolo, a Tallahassee), mentre vani sono stati i suoi tentativi di avanzare nei tabelloni principali del circuito maggiore. A distanza di un anno, la situazione appare sostanzialmente immutata. Il francese, oggi 129 del mondo (l’anno scorso aveva chiuso 153), ha raccolto molti punti a livello Challenger grazie alle due finali e alle quattro semifinali raggiunte nel corso dell’anno, che gli consentono appunto di guardare a distanza ravvicinata la top 100. E tuttavia, ogni volta che il francese si affaccia nel circuito maggiore, le sue cadute sono sistematiche e in alcuni casi sorprendenti. Con l’eccezione di Atlanta, dove ha raggiunto il secondo turno, Halys è stato eliminato al primo turno o al primo turno di qualificazione, in tutti i tornei disputati nel circuito maggiore. Allenato da Olivier Ramos, sotto la supervisione anche di Arnaud Clément, Halys sembra da tempo pronto per un salto di qualità che però tarda ad arrivare. Va però detto, e non è un dato di poco conto nel panorama in larga parte monocolore della Next Gen, che il francese è dotato di una precisa identità di gioco, votata all’attacco e basata anche sulla ricerca della rete. Sarebbe un peccato non vederlo il prossimo anno, finalmente, varcare la soglia della top 100.
Da quanto tempo è atteso, invece, l’ingresso dei fratelli Ymer – o meglio, quello di Elias, il maggiore, classe ‘96 – nelle prime cento posizioni del ranking? Sicuramente dal 2015, l’anno in cui Elias conquistava il primo Challenger della carriera e superava i tre turni delle qualificazioni di tutti e quattro i Major, richiamando alla mente le gesta di Soderling quattro anni prima. Il problema è che da allora il ranking di Elias dà una sensazione di ineluttabile fissità: 127 il suo best ranking nel 2015, 124 nel 2016, 144 nel 2017, grazie a una decisa risalita nel seconda parte dell’anno grazie alla conquista di due titoli Challenger (sul rosso di Cordenons e sul cemento indoor di Mouilleron le Captif). Vittorie incoraggianti per tentare di imprimere una svolta decisiva nella propria carriera. Considerazioni per certi versi analoghe valgono per il fratello Mikael, classe ’98, oggi n. 418, posizione non distante da quella con cui aveva chiuso la stagione precedente. Tuttavia anche Mikail, il più talentuoso dei fratelli, ha lanciato buoni segnali, congedandosi (pare definitivamente) dal circuito Futures, a inizio anno, con una vittoria, e da quel momento giocando in pianta stabile a livello Challenger, dove naturalmente a causa del ranking è costretto a partire sistematicamente dalle qualificazioni. Al di là dei risultati (da segnalare i quarti di finale a Biella e la semifinale a Bastad) è sul piano del gioco e dell’esecuzione di alcuni fondamentali – su tutti il servizio – che si sono potuti notare alcuni miglioramenti. Per Mikael, che ha 19 anni, la “variabile tempo” è sicuramente meno incombente, ma c’è da scommettere che la sua progressione nel ranking potrà essere più improvvisa e fulminea rispetto a quella del fratello maggiore.