Sognando Baker: il miraggio Slam oltre la sfortuna

Per una volta, non è stata una questione di promesse non mantenute, o troppa pressione dei media che hanno fatto implodere un talento cristallino. Di quello parleremo in puntate future. Brian Baker era destinato ad una carriera di dominio, certificata da una condotta juniores da primo della classe. Tutta la generazione degli ’86 e ’87, metà dei Fab Four inclusi, veniva presa a sberle dal suo tennis a stelle e strisce, fatto di gran servizio e colpi a rimbalzo poderosi, specialmente un rovescio anticipato da fotografare. Se ne accorsero anche le università: Stanford, Florida, Georgia, Duke e Virginia, tutte a correre per accaparrarsi i servigi di quello che era finito sulla copertina di Sports Illustrated come Atleta del Mese, e nominato MVP del liceo.

Ci si è messo di mezzo il fisico, troppo debole per gestire ritmi forsennati di allenamento e viaggi continui: Brian ha collezionato infortuni a ripetizione, che ne hanno compromesso definitivamente l’esplosione ad alti livelli. Quando tutto sembrava ormai nel dimenticatoio però, l’amore per la racchetta è rifiorito d’improvviso: smessi i panni accademici di coach dei ragazzini, ha ripreso a macinare chilometri e vincenti, fino a ritagliarsi uno spazio di rilievo nella nicchia del doppio. Lo avevamo incontrato a Parigi in esclusiva, nella affollatissima e caotica area interviste del Roland Garros.

Quest’anno finalmente il primo titolo, in doppio, a Memphis in coppia con il croato Mektic. Si sono ripetuti ad aprile a Budapest. Certo non i tipi di trofeo che tutti si aspettavano avrebbe alzato in carriera, ma una sensazione che difficilmente può essere spiegata dopo il calvario: “Un traguardo incredibile. Vincerne due in un solo anno fa ancora più specie. Mi sto dedicando di fatto esclusivamente al doppio ora, il mio corpo non può gestire la tipologia di allenamento che mi servirebbe per il singolare. Mi sto divertendo in questa transizione, e spero di poter ottenere altri buoni risultati”. La nuova specialità gli sta quindi permettendo di vivere una sorta di nuova vita tennistica, accantonando definitivamente i sogni di gloria che nutriva quando da juniores dava regolarmente lezioni a Djokovic, Murray e compagnia: “Se voglio continuare ad alti livelli, questa è la scommessa più sicura. Se anche iniziassi a giocare meglio in singolare, ho trentadue anni e dubito il mio corpo reggerebbe a lungo. Credo sia la mossa più intelligente, cercare di andare in fondo e perché no vincere tornei dello Slam in doppio”.

Le cliniche e le sale operatorie lo chiamano ormai per nome, stanti i numerosi tentativi di ripresa dopo infortuni terribili. Entrambe le anche, il polso, da ultimo il ginocchio che lo ha costretto ad abbandonare il campo in sedia a rotelle nel 2013, pur essendo in vantaggio contro Sam Querrey. L’anno precedente la prima finale in singolo, a Nizza, persa contro Almagro, e un best ranking di 52 che solo a pensarci sembra inconcepibile con un corpo così martoriato. Nel 2016 la ripartenza dal purgatorio Challenger, dominato in doppio con addirittura cinque tornei vinti in sei partecipazioni: “Lo scorso anno ho avuto la fortuna di poter usufruire del ranking protetto sia in singolo che in doppio. Ho ricominciato a costruire una buona base per la mia classifica,  ho giocato benissimo, ho avuto anche ottimi partner (due titoli con Groth, ritiratosi quest’anno, ndr). Questo mi ha permesso di poter entrare direttamente in tabellone negli Slam quest’anno”.

A fine (davvero fine, il 31 dicembre) 2016 anche una svolta importante nella vita privata: il matrimonio con Alathea, che l’ha sostenuto negli ultimi , fondamentali, anni di carriera e infortuni: “Qualcosa è effettivamente cambiato adesso, mi godo molto di più il tempo che passo con lei dato che viaggio così spesso. Ci sono ancora momenti in cui non lo realizzo, da quando ci siamo sposati ho giocato tantissimo e ancora dobbiamo andare in luna di miele! Probabilmente sarà qui a Parigi. Alathea è stata una roccia, non c’è altro da dire: è uno dei miei critici più duri, ma il sostegno più importante che potrei desiderare. Anche se adesso scherzo e dico che devo vincere il doppio dei match per mantenerci!”. 

A proposito di sostegno e motivazioni, il passato di Brian è pieno zeppo di momenti in cui sembravano sparire a causa del suo maledetto fisico. In tuta e immancabile cappellino, mentre si gratta la nuca, ci ripensa con una vena di consapevolezza in più: “Gioco a tennis da quando avevo tre anni, e per tutta la vita sono stato bravo in questo, mi ha sempre dato grande gioia. Sono un combattente e un agonista, poter definire il tennis come il mio lavoro è speciale. Ci sono stati momenti in cui l’ho odiato, tutt’ora tra l’altro. Ma il 95% delle volte mi sveglio contento di fare il lavoro che faccio: so di essere incredibilmente fortunato, non capita a tutti di poter essere così contenti del proprio lavoro. C’è anche tutto questo seguito che ci permette prize money tali da poter vivere di questo, ed è un’altra fortuna enorme”.

Nelle pause forzate dal tennis, Baker si è dedicato anima e (poco, fortunatamente) corpo al mondo accademico: Belmont University, a due passi dalla sua Nashville, Tennessee. Si è diviso nei ruoli di coach per la squadra NCAA e di studente, in un cammino che ha completato nel 2015 con una laurea in business adminstration. “Al momento non sono coinvolto con Belmont, non seguo classi ma sono davvero contento di aver finito il mio percorso. Una volta smesso con il tennis avrò la possibilità di seguire qualche altra strada. Ci sono molti lavori relativi al tennis che comunque richiedono un titolo di studio. Vorrei rimanere in questo mondo, ma non sono ancora sicuro di che ruolo mi piacerebbe ricoprire. Vorrei fare il coach, ma non l’ex professionista che allena, insomma dedicarmici davvero. Dipenderà anche dalla mia famiglia, e dalle possibilità che avrò di viaggiare”.

La barba incolta a contornargli un viso pieno e degli occhi chiari intensi, le spalle che si alzano in continuazione come in un continuo “mah”. L’obiettivo primario, adesso e fino alla fine della sua carriera, sarà quello di rimanere integro fisicamente. Ma i due titoli del 2017 potrebbero portare nuove idee: “Con il mio curriculum, direi che il corpo è per forza di cose l’obiettivo primario! Ma quest’anno non ho avuto problemi, e il doppio richiede molto meno sforzo al mio fisico. Certo devo giocare di più, ma va bene. Non mi sono seduto a scrivere quali potranno essere i miei obiettivi, al momento sono 29 del mondo in doppio: arrivare nei primi 20 ed eventualmente rimanerci, o raggiungere quarti o semi in uno Slam sono le cose a cui terrei di più. La top 20 mi sembra il traguardo più realistico, se dovessi mantenere un livello costante”.

L’ultimo sguardo è verso la sua vita. Il passato e il futuro. Se fosse stato più solido fisicamente, staremmo parlando di una storia diversa, accarezzata o scossa da quel rovescio bimane che a vederlo in full power fa impressione. Ci sono rimpianti enormi, ma anche speranze altrettanto grandi. E per descrivere tutto Brian si ferma quasi un minuto a pensare in silenzio: “Non so se parlerei specificamente di rimpianti, quelli li avrei se non avessi fatto tutto quello che potevo. Gli infortuni sono frustranti, non sono un rimpianto. In ogni caso, mi pento di non essermi preso cura del mio corpo nel periodo più importante, tra i 15 e i 18 anni. Avrei dovuto seguire un programma migliore, avrei dovuto apprendere, studiare meglio il mio corpo per capire di più sulla dieta, sulla preparazione atletica. Non credo di essere stato molto professionale all’epoca, anche se ovviamente era praticamente un’epoca diversa. Se avessi avuto dieci anni di condizione fisica adeguata, sono sicuro avrei ottenuto molto di più di quanto ho fatto”.

C’è un barlume piuttosto consistente però: “La mia speranza più grande in realtà è la mia filosofia. Sono ancora qui a lottare e scalciare, il mio tennis è ottimo e posso competere con chiunque. Il problema è fisico, come al solito, ma basta un po’ di fortuna, un buon tabellone e un buon risultato, il ranking migliora, si diventa teste di serie nei tornei che contano. Mi diverto ancora, odio il tennis quando perdo ma il giorno dopo è di nuovo l’amore della mia vita. Non vedo l’ora dei prossimi tre-cinque anni, per mettermi alla prova in una disciplina che è completamente diversa da quella a cui ero abituato. Se miglioro in un paio di punti chiave, potrò togliermi delle soddisfazioni importanti”.

Va via sorridente e con un ritmo da passeggiata nel parco, quasi spaesato. Come se assaporasse ogni attimo della sua permanenza in uno dei tornei più importanti del mondo, lui che avrebbe potuto guardarli solo alla tv se non si fosse impegnato con ogni goccia del proprio animo. Altri tre-cinque anni, come ha detto lui, per poter vedere il suo talento sfortunato brillare in qualche campo secondario di tornei di periferia. O magari, finalmente, vederlo sul tetto delle competizioni più ambite. Come avrebbe meritato, e come il suo corpo non gli ha concesso.