Svizzera, avremo un problema. O forse no?
da Basilea, il nostro inviato
Durante il suo discorso di ringraziamento per l’introduzione nella Basketball Hall of Fame, nel 2009, Michael Jordan si rivolse ai suoi figli, tra il serio e il faceto. Disse sorridendo che non li invidiava per nulla, non sarebbe mai voluto essere nei loro panni a dover portarsi dietro the burden, il fardello di un’eredità così pesante come quella del miglior giocatore di pallacanestro di tutti i tempi. Evitando di considerare che un po’ tutte le generazioni successive alla sua sono, in senso molto lato, figlie delle sue gesta e dei suoi risultati. Per Roger Federer si prospetta una situazione non troppo differente, per quanto gioco forza condizionata dalla diversa natura del tennis: non c’è una lega più importante di altre e soprattutto le identità nazionali sono ben più significanti rispetto alla NBA. Di figli ne ha addirittura quattro, ancora piuttosto lontani da un’età utile per benedizioni e promesse. Intanto ha dichiarato che il suo contratto con il torneo di casa scadrà nel 2019, e poi valuterà anno per anno cosa fare: all’orizzonte ci sono le Olimpiadi di Tokyo 2020.
Di certo mancherà al tennis tutto, quando tra cinquant’anni deciderà di dire basta: ancor di più mancherà alla Svizzera, che già era finita sul mappamondo tennistico grazie a Martina Hingis, sua coetanea che da poco ha annunciato il definitivo ritiro. Federer ha contribuito a solidificare e migliorare ulteriormente l’immagine e la reputazione della sua nazione nell’ambiente sportivo, tracciando la strada, forse, per l’avvento di un altro vincitore Slam come Stan Wawrinka. Insieme al compatriota è assurto ovviamente al ruolo di guida, prima che per qualsiasi tennista in erba, per gli svizzeri più giovani, che però hanno finora fallito di confermarsi anche soltanto a buoni livelli. Il ticinese Luca Margaroli, venticinquenne con best ranking di 692 quest’anno, è uno di questi: a Basilea era in tabellone di doppio con una wild card, e ha perso al primo turno in coppia con Marco Chiudinelli, che il giorno prima aveva annunciato il proprio ritiro: “Federer e Wawrinka sono guide. Avere anche solo la possibilità di allenarmi con Roger è una fortuna incredibile. Non credo metta pressione, anche se certo fa effetto condividere strutture e Federazione con uno dei più grandi sportivi della storia. Giocare in Davis è stato incredibile, anche Chiudinelli è stato di enorme aiuto a indicare un po’ la via a me e gli altri giovani. Sono esperienze che restano”.
La sensazione generale è che i giocatori svizzeri, pur ovviamente rispettando e ammirando quanto fatto da Federer, cerchino di distaccarsi da lui per evitare, giustamente, di venire risucchiati dallo stereotipo di “svizzero uguale Federer”. Il più serio sull’argomento è Henri Laaksonen, anche lui al miglior piazzamento in carriera in questa stagione, 93 ATP, che a Basilea ha perso al primo turno contro Coric pur andando avanti di un set: “Sì, senz’altro avere a che fare con lui e Wawrinka è un’occasione. Ma può paradossalmente essere controproducente: io cerco di focalizzarmi sul mio tennis e sulla mia persona, perché so che non potrei mai giocare come loro. Preferisco non pensare troppo a loro”. Laaksonen è finlandese naturalizzato, e anche più avanti con gli anni rispetto alle altre wild card qui. Il suo pensiero aleggia anche trai media locali: Raffaele Soldati, esperto inviato del Corriere del Ticino, conferma, e anzi aggiunge un pensiero di tipo geopolitico: “In realtà i giovani cercano quasi di svicolare questo argomento, hanno una sorta di timore reverenziale. Sono consapevoli di non poter raggiungere Federer e Wawrinka, quindi si accontentano di poter allenarsi con loro. Il problema potrebbe essere addirittura strutturale: la Svizzera non è un paese grande, e quasi tutti i campioni del passato hanno origini estere o sono stati naturalizzati. Hingis, Bencic, Golubic tra le donne, Wawrinka e Laaksonen tra gli uomini. Non è certo come il Kazakhistan, ma non è una situazione rosea. Di sicuro, avere due campioni contemporaneamente, tre contando la Hingis, sarà quasi impossibile”.
Hingis è stata la prima a mostrare la via, come ha anche detto Federer in una conferenza stampa durante il torneo. E forse è stata la prima a danneggiare, in senso ovviamente figurato, i giovani svizzeri. Bill Scott di DPA International: “I giovani qui hanno avuto un bel problema: già dai tempi di Hingis la svizzera è finita sui giornali, e tenere il passo con questi campioni non è affatto facile. Non credo però avranno problemi di tipo psicologico, non sarà difficile gestire l’eredità: hanno tutti una sorta di tunnel vision, pensano a sé stessi, incuranti di cosa è successo prima”. Tra l’altro, essere svizzero o in qualche maniera legato a Federer non comporta in alcun modo vantaggi da un punto di vista relazionale, nel circuito. Marc Andrea Huesler, ventunenne mancino intorno alla 700esima posizione mondiale, ha avuto una wildcard in doppio in coppia con Zimonijc, onorata con una vittoria al primo turno: “L’unico aiuto che posso ricavarne è quando posso confrontarmi con loro, scambiare qualche palla. La fama e la nazionalità non incidono in alcun modo sul reperimento degli sponsor ad esempio, o sulla mia reputazione on tour”.
Nessuna pressione, dunque, anzi quasi una vena di rassegnazione, realista ma ottimista. Renèe Stauffer, svizzero, è il biografo ufficiale di Federer, ed è nell’ambiente da più di vent’anni: la sua è un’opinione addirittura di carattere socio-antropologico: “Non ci sarà nessun altro Federer, lo sanno tutti. Lo sappiamo noi media, lo sanno i giocatori, che quindi non avranno questo tipo di pressione. C’è anzi una consapevolezza sul fronte opposto. C’è da essere realisti, certo, ma anche ottimisti: il sistema svizzero, con la Federazione e le strutture, è una base solidissima e di eccellente valore per poter costruire un team di buon livello. Non per forza top 5 o top 10, ma già nei primi 100 non credo avremo problemi ad avere esponenti. C’è anche un altro aspetto da considerare, comunque: in generale, gli svizzeri originari, quindi non immigrati o figli di immigrati, hanno una mentalità poco incline al sacrificio. È raro che qualcuno decida di sacrificare tutto per poter seguire la carriera di un figlio, come ad esempio ha fatto il padre di Belinda Bencic (ex numero 1 Juniores, ndr). Federer d’altronde è mezzo sudfricano (ride). Sarà difficilissimo trovare qualcuno che voglia davvero dare ogni cosa per poter arrivare al top, ma in media avremo ottimi giocatori”.
Sulla stessa scia interviene Claudio Mezzadri, ex 26 ATP e capitano di Davis rossocrociato, oggi commentatore per la TV svizzera e per SKY Italia: “Il fenomeno non lo costruisci. Avere buone strutture non garantisce di poter mettere su un giocatore di livello mondiale: piuttosto, significa poter aiutare i talenti a sbocciare, a coltivarsi. Il fenomeno è qualcosa che va oltre un programma fatto bene: è certo che però avere un ambiente equilibrato in tutti sensi aiuta a non bruciare questi talenti. Si vedono troppo spesso ragazzini presi da giovanissimi e rovinati a causa della fretta di far fare loro risultati: sradicati dalle loro famiglie per portarli in un centro federale, o cose del genere, senza fare attenzione ai reali bisogni del giovane”. Ed è qui che interverrebbe la bravura del sistema svizzero, la qualità di un giro che ha tirato su campioni di livello assoluto già prima di Federer e Wawrinka: “In Svizzera, al di là delle strutture, sono molto bravi a gestire situazioni del genere. Prima ancora di Roger e Stan, sono venuti fuori Rosset, Laasek. Anche io, se vogliamo. In Svizzera gestiscono la situazione del ragazzo in funzione delle sue necessità. Se lui ha bisogno di allenarsi vicino casa perché non vuole allontanarsi, lo fanno allontanare vicino casa, non lo portano nel centro di Bienne per forza”.
L’ambiente quindi non sarà pesante, ostile da un punto di vista psicologico, per chi si approccerà al tennis con l’etichetta di connazionale di Federer. Anzi, secondo Mezzadri c’è anche una spinta in pi: “I ragazzi sono stimolati, molto, dalla presenza di Federer e Wawrinka e da tutto quello che è accaduto nella nostra storia tennistica. Tutto iniziò con me, Laasek, Gunthardt, che a fine anni ’80 siamo saliti nel Gruppo Mondiale di Davis. Nel ’92 abbiamo fatto finale e c’era anche Rosset: è lì che è iniziata la nostra tradizione, la nostra immagine nel mondo ha iniziato a girare. Adesso di me e degli altri quasi nessuno si ricorda più, siamo un’altra generazione, ma Federer e Wawrinka sono uno stimolo enorme per i ragazzi. Quando vado al centro federale o partecipo alle selezioni, vedo i ragazzi molto motivati, tutt’altro che impauriti o sotto pressione. E gli allenatori sono molto bravi a far sentire loro l’importanza dell’occasione che hanno”.
Lo scenario è dunque diviso a metà, apparentemente: da un lato i giocatori, che cercano di allontanarsi dal problema, se di problema si può parlare, pensando a se stessi pur in un alone di ammirazione. Dall’altro gli addetti ai lavori, media e membri dell’organizzazione svizzera, che pur rassegnato alla giusta ammissione di non poter trovare in futuro un nuovo Federer, si accontenterebbe di un team ben piazzato nei primi 100, forte di un sistema di assoluto livello. L’ultima parola, manco a dirlo, è quella di Roger, dopo la mostruosa vittoria in semifinale contro David Goffin: “Spero davvero di non rappresentare un problema, per il futuro del tennis in Svizzera. Piuttosto spero potrò aiutare i giovani. Sarà interessante vedere come i media, addetti ai lavori, coach, reagiranno. Se si accontenteranno di avere uno svizzero nei top 100, top 50. Lo vedranno come un fallimento o capiranno che quel giocatore rientrerà comunque tra i migliori del mondo e avrà lavorato duramente. Solo il tempo potrà dirlo. Spero che i giovani non cadranno nella trappola di pensare al giudizio della gente. A chi interessa, riguarda ogni singolo giocatore e il sogno di ciascuno, non è importante essere paragonati a me, Wawrinka, o Hingis. Non sarebbe realistico, e sarebbe incredibilmente sbagliato. Spero di poter essere d’aiuto”.
Michael Jordan chiuse il proprio discorso di ringraziamento con una frase storica (“I limiti, come le paure, sono spesso soltanto un’illusione”), condita da una frecciata da far tremare i polsi: “Non ridete, potreste rivedermi in campo a 50 anni”. Il 2018 sarà l’anno dei 37 per Federer. C’è ancora tempo.