Laver Cup: tra suggestioni e credibilità
Oggi, che fuori c’è il sole e pensare di restare tutta la giornata chiusi all’interno della pur meravigliosa O2 Arena fa un po’ fatica, proveremo a parlare di credibilità e percezioni. Questa già tanto vituperata nonché criticata Laver Cup ha vissuto la giornata centrale del suo programma e buona parte di quelle che fino a ieri erano mere supposizioni, ora trovano (parziale) conforto nei numeri e nelle sensazioni. Il primo vero nodo da sciogliere è il seguente: esibizione o sport vero? Bella domanda. Per rispondere proveremo a ricordare che, in fondo, anche la prima edizione del torneo di Wimbledon non fu altro che un’esibizione dimostrativa a pagamento il cui ricavato sarebbe servito ad aggiustare il rullo per i campi da croquet. Ogni cosa ha una sua prima volta, alcune ne hanno altre e solo poche resistono al tempo e alle intemperie. In quale di queste categorie si collocherà la Laver Cup è senza dubbio presto per dirlo anche se può giovare alla causa esaminare l’esito di analoghi esperimenti del passato.
Nel 1923 la statunitense Hazel Hotchkiss Wightman ebbe l’idea di creare una competizione sul modello della Coppa Davis e la chiamò proprio Wightman Cup; si trattava di una sfida annuale tra rappresentative femminili di Gran Bretagna e Stati Uniti che si disputava alternativamente in casa dell’una o dell’altra nazione. Interrotta solo durante la Seconda Guerra Mondiale, la sfida durò fino al 1989 quando la schiacciante superiorità delle americane (54-10) ne decretò la morte inevitabile. Un altro esempio potrebbe arrivare dalla World Team Cup (Coppa delle Nazioni) patrocinata dall’ATP e svoltasi dal 1978 al 2012 sulla terra rossa del Richusclub di Dusseldorf o, ancora, dalla Grand Slam Cup, il famoso Master alternativo voluto dalla Federazione Internazionale per raggruppare ogni anno i migliori sedici classificati nelle quattro prove del Grande Slam. Organizzata a Monaco di Baviera, quest’ultima, anche perché nata in parte per fare un “dispetto” all’Associazione dei giocatori, ebbe vita breve ma non mancò di regalare agli appassionati incontri esaltanti.
Vista così, dunque, parrebbe che nel tennis, sport tra i più tradizionalisti, ogni tentativo più o meno convinto di imitazione sia destinato al fallimento. Ora, dato per scontato che la tradizione si accumula solo con gli anni e sarebbe stupido pretenderla in una competizione nuova qual è la Laver Cup, proviamo a concentrarci su ciò che può rappresentare al momento. In conferenza stampa, dopo aver battuto Querrey, alla domanda specifica Roger Federer ha seccamente ribadito come questa coppa non voglia mettersi in concorrenza con nessuno, né con l’ATP e tantomeno con la Coppa Davis. Una precisazione, quella dello svizzero, doverosa ma che non fuga del tutto i dubbi, anche e soprattutto se la stessa riuscirà ad avere negli anni il medesimo clamoroso successo di pubblico che sta avendo a Praga.
Tuttavia, non pochi tra i veri appassionati di tennis continuano a storcere il naso quando si tratta di competizioni non riconosciute, quando cioè gli incontri non fanno statistica e vengono derubricati alla stregua di esibizioni. Anche qui, però, sarebbe bene ricordare che non tutto il pubblico del tennis ha la medesima percezione – talora eccessivamente snobistica – della questione e non presta molta attenzione all’ufficialità o meno del prodotto che gli viene riferito. Starà poi agli interpreti stessi riuscire a garantirne il livello e l’autenticità, come peraltro accade in qualsiasi altro settore dello spettacolo. E siamo tornati al punto di partenza, quello della credibilità. Ebbene, tra venerdì e sabato le testimonianze non sono mancate e anche i più scettici tra gli inviati hanno dovuto ricredersi su molti aspetti di questa Laver Cup. Certo, da casa la percezione in alcuni casi può essere diversa ed è concepibile che lo sia ma lasciatevelo dire da chi è già stato a Slam, 1000 e quant’altro, qui non c’è quasi nulla di diverso. Anzi.
L’organizzazione, come ricordavamo nei giorni scorsi, dal punto di vista logistico non ha nulla da invidiare a contesti ben più consolidati ma non sempre è garanzia di successo di pubblico, come invece è stato qui. E ciò nonostante la formula, originale finché si vuole ma che ha impedito a chi voleva acquistare i biglietti di sapere in anticipo quali incontri sarebbe andato a vedere. Eppure, gli spettatori hanno seguito con interesse e curiosità anche le partite della prima giornata, pur in parziale assenza (Nadal ha giocato solo il doppio mentre Federer si è visto solo in panchina) dei principali elementi trainanti.
Per finire, data per ineluttabile la vittoria dell’Europa, il team avversario è riuscito quantomeno a rendere incerti quasi tutti gli incontri, pur partendo i suoi componenti sempre con il pronostico avverso. La rapidità del terreno di gioco ha in parte appiattito i valori e i ripetuti tie-break, sia pur finiti tutti o quasi nelle tasche europee, hanno contribuito a tenere alta la tensione. Poi, l’identità delle due formazioni si è rivelata assai simile al temperamento dei suoi capitani e non poteva essere altrimenti: gli “australo-americani” hanno dato spettacolo anche fuori dal rettangolo di gioco, inscenando siparietti che hanno catturato il pubblico ceco, e sono sembrati più gruppo e meno individualità mentre gli europei, pur non facendosi mancare reciproco sostegno e incoraggiamento, sono parsi più composti.
Il tutto, però, sempre a debita distanza dall’ipotesi di similitudini con il circo o, tanto per rimanere in tema sportivo, con quello che gli Harlem rappresentano per il basket. Nessuno dei giocatori ha modificato di una virgola la propria filosofia di gioco o concesso alle situazioni curiose di rubargli più di qualche attimo di concentrazione. E anche questo è un punto a favore della Laver Cup, forse ancora non suggestiva come la città che ne ha ospitato l’edizione inaugurale ma di sicuro predisposta a non lasciare nulla di intentato affinché possa diventare in futuro un appuntamento irrinunciabile del calendario mondiale. Solo il tempo potrà dirci se riuscirà.