Un mercoledì da leoni: McEnroe, è lesa maestà a Cincinnati 1984
Per gli amanti della letteratura, il 1984 è George Orwell. Per quelli della musica è Annie Lennox e i suoi Eurythmics, che diedero suoni e parole alla colonna sonora del film omonimo diretto da Michael Radford. Oppure è il New Gold Dream dei Simple Minds, ve lo ricordate l’incalzante “81-82-83-84” cantato da Jim Kerr?
E per il tennis? Facile. Il 1984 è l’anno di John McEnroe. In quella clamorosa stagione, che ben presto sarebbe diventata termine di paragone per altre simili fatte registrare da suoi più che degni colleghi di mestiere, l’irascibile geniaccio di Wiesbaden ebbe a perdere appena tre incontri, di cui due soli nel circuito, di cui uno solo lontano dalla terra. Ed è proprio di questo che parleremo oggi.
Cinque anni prima, nel 1979, il Cincinnati Open aveva cambiato definitivamente pelle. Dalle sponde dell’Ohio River, all’interno dell’Old Coney Amusement Park, il grande tennis aveva levato le tende per trasferirsi nel nuovo impianto creato a Mason grazie all’intervento dello studio di architetti Browning Day Mullins Dierdorf. Qui, con un nuovo stadio che inizialmente poteva ospitare 6.900 spettatori seduti, i giocatori non dovettero più scrollarsi dalle suole la terra verde perché tutti i campi del Lindner Family Tennis Center erano in quello che viene volgarmente definito cemento.
Incurante della leggenda urbana denominata “Sports Illustrated Cover Jinx”, John McEnroe posò per la copertina della prestigiosa rivista uscita in edicola il 16 luglio di quell’anno. Nel 1984, il newyorchese era più forte di tutti. Anche dei gatti neri e della presunta sfortuna che pareva colpire chi veniva scelto da SI. L’unico ad averlo fermato, fino a quel momento, era stato Ivan Lendl in una finale di Parigi in cui John aveva applicato anche alla terra rossa il suo credo offensivo fino a pagarne duramente lo sforzo dopo aver scialacquato più di un’occasione. Una buona dose di erba (Queen’s e Wimbledon) aveva però ben presto fatto dimenticare a John la malefatta di Parigi e nella finale di Church Road aveva dominato Connors raggiungendo forse il punto più alto della sua carriera. Lo stesso Jimbo era stato l’unico a strappargli un set a Toronto, negli Open del Canada, la settimana antecedente Cincinnati.
In Ohio, l’indiscusso numero 1 del mondo avrebbe debuttato contro Vijay Amritraj, un elegante trentenne di Madras avviato sul viale del tramonto di una carriera assai prestigiosa se commisurata alle origini. Dieci anni prima gli “Amritraj Brothers” avevano portato l’India alla sua seconda finale assoluta di Coppa Davis (dopo quella persa in Australia nel ’66) ma il governo del primo ministro Indira Gandhi aveva impedito ai suoi rappresentanti di recarsi a Ellis Park, nei campi in cui giocavano solo i bianchi e sulle cui tribune i sostenitori indiani sarebbero stati praticamente ghettizzati. Pur avendo perso un’ottima occasione di mettere le mani sull’insalatiera – anche se, lontano dalla lunga e soffice erba di casa gli asiatici erano assai più vulnerabili – l’India aveva mostrato coerenza e avrebbe dovuto attendere altri tredici anni per tornare in finale, stavolta però giocandosela senza un briciolo di speranza allo Scandinavium di Goteborg contro lo squadrone svedese.
Ma i rivoli della storia ci stanno allontanando dalla nostra vicenda ed è all’estate di quel 1984 che dobbiamo necessariamente tornare; quando cioè Vijay aveva messo in bacheca una decina di titoli in più (saranno 16 in totale al momento di appendere la racchetta al chiodo) e dieci anni di esperienza, oltre a vittorie contro tutti i migliori del tempo. Secondo di tre fratelli, a differenza del più anziano Anand e del più giovane Ashok, Vijay riuscì a trovare una dimensione di assoluta eccellenza anche in singolare. Nell’estate del 1977, i tre fratelli giocarono il doppio a Wimbledon (Ashok in coppia con l’australiano Gardiner) nello stesso anno in cui i Lloyd (John, David e Tony) fecero lo stesso ma nessuno dei sei andò oltre il terzo turno.
Proprio all’interno dei “clericiani” sacri recinti, Vijay aveva visto trasformarsi in incubi un paio dei suoi migliori sogni. Nel ’73, l’anno del boicottaggio, era stato a uno smash (fallito) dal procurarsi due match-point nei quarti contro Jan Kodes, che poi avrebbe alzato il trofeo; sei anni più tardi, al secondo turno, imbrigliò il tre volte consecutive campione del torneo Bjorn Borg per quattro set, non sfruttò un break di vantaggio nel quarto e alla lunga venne sfiancato dai passanti dell’orso biondo. Tuttavia, nulla aveva mai scalfito la sua principesca impostazione distribuita lungo 193 centimetri di grazia inusuale, servizi seguiti a rete da volée secche e la gioia di avere l’occasione di inseguire una pallina, lui che da bambino aveva contratto una rara malattia ai polmoni e che i genitori avevano avviato al tennis con enormi sacrifici per farlo stare all’aria aperta.
Non era la prima volta che Vijay affrontava John, anzi. Era la dodicesima e l’indiano l’aveva spuntata in una sola occasione, a Montreal nell’81, quando aveva recuperato un set all’americano annullando un match-point e dominando il terzo (5-7, 7-6, 6-1). Ma tre anni prima Vijay era un altro giocatore, navigava nelle zone nobili del ranking ed era stato avanti di due set con Connors nei quarti a Wimbledon, prima dell’ennesimo crollo.
Adesso invece la stella dell’indiano si era opacizzata. Un 1984 in cui Vijay aveva fatto parlare di sé soprattutto per essere uscito dai primi 100 dopo il capitombolo di Wimbledon contro il tedesco Schwaier, rimediato solo in parte dal titolo conquistato a Newport, erba di conquista per i delusi dei Championships. Amritraj si presentava a Cincinnati con un record di 10-8 ma nel mini-tour dell’Ohio si era fatto battere da David Pate a Cleveland e da Hank Pfister a Columbus, due americani che gravitavano attorno alla 150esima posizione mondiale.
Quel martedì 21 agosto aveva già avuto un preambolo sorprendente con la sconfitta in due set del n°4 Aaron Krickstein per mano del qualificato israeliano Shahar Perkiss, ma nessuno poteva ipotizzare ciò che sarebbe successo sul campo centrale. Il primo parziale è incerto, equilibrato. Vijay si tiene a contatto con l’imbattibile avversario grazie a un servizio costante e incisivo ma alla fine tutto quello che ne ricava è una dignitosa resa al tie-break. I suoi gesti ricordano da vicino gli americani Stan Smith (soprattutto nella battuta) e Arthur Ashe (nei colpi di rimbalzo e nelle volee). Vijay lavora con cura prima e seconda palla mentre dritto e rovescio non sono inquinati da alcuna rotazione, piatti e fendenti come dardi.
Attaccare un attaccante è sempre una buona idea ma occorre qualcosa di più per invertire la rotta di una tendenza che, nel corso degli anni, ti ha quasi sempre visto soccombere nei confronti di un determinato rivale. Anche se hai fatto penare Connors e hai battuto almeno una volta tutti i migliori della tua epoca, c’è sempre qualcuno che ti è più indigesto di altri. Questo è McEnroe per Amritraj, ma all’inizio del secondo set arriva finalmente il break, poi un altro e siamo 6-2 e un set pari. L’indiscusso numero 1 del pianeta tennis viene sospinto sempre più dietro la linea di fondo campo dall’inusitata profondità degli approcci dell’indiano e in apertura di terzo set arriva un altro break, quello di non ritorno.
“Sono sorpreso da come ha giocato lui” dirà John McEnroe a fine partita. “Perdere un match non è certo la fine del mondo, anche quest’anno finora era successo raramente. Ha servito benissimo e mi ha tolto il controllo della sfida. Non c’è altro da aggiungere”. Per lui, forse. Perché invece Vijay ha qualcosa da dire. “Oggi mi sentivo davvero bene e ho disputato il miglior match dell’anno. Essere riuscito a non perdere mai la battuta è qualcosa di speciale. Non è la miglior partita della mia vita. Penso di aver giocato meglio quando sconfissi Laver agli Us Open del 1973”.
Amritraj chiude 6-3 il terzo set e consegna agli archivi l’unico neo di John McEnroe sui fondi rapidi in quel magico 1984. Dal giorno successivo, la terra riprende a girare nel verso giusto. Vijay perde subito con il connazionale Ramesh Krishnan mentre McEnroe torna a casa con qualche giorno di anticipo e dominerà gli imminenti US Open e il resto della stagione, facendosi beffare solo da Sundstrom nella finale di Coppa Davis.
Prima di darsi al cinema e a un dopo-carriera diviso tra telecronache, impegni politici all’interno dell’ATP e fondazioni umanitarie, Vijay troverà modo di far brillare il suo gioco ancora per qualche anno, togliendosi un paio di soddisfazioni sui prati. A Bristol, nel 1986, metterà in bacheca l’ultimo di 16 titoli conquistati nel circuito maggiore e l’anno successivo darà un contributo determinante alla causa indiana in Davis, cogliendo la seconda finale nella storia del suo paese. Il canto del cigno di un grande personaggio a cui idealmente si sarebbe potuto ispirare Kipling nella sua celebre poesia “If”, se mai il grande scrittore avesse immaginato che un giorno un estratto di essa avrebbe campeggiato all’ingresso del Centre Court di Wimbledon.