Mercoledì da leoni: George Bastl a Wimbledon 2002

L’elefante era andato a riposarsi per l’eternità nel cimitero di Wimbledon, ovvero il famigerato Court 2. Erano tutti d’accordo che non l’avrebbero rivisto più da quelle parti ed erano tutti d’accordo che avrebbero dimenticato in fretta il giorno del suo funerale perché le leggende non muoiono e Pete Sampras a Wimbledon (e non solo) era una leggenda. Non era nemmeno la prima volta, a dire il vero. L’anno precedente, ma sul Centre Court, si era fatto sorprendere sempre da uno svizzero ma quello era un predestinato, addirittura c’era chi – forse esagerando – mormorava che fosse il suo successore; il successore di uno che in otto stagioni consecutive su quei prati aveva perso solo un match, contro Richard Krajicek. Stavolta, invece. Il suo avversario di secondo turno aveva avuto una doppia fortuna sfacciata. La prima era stata quella di entrare in tabellone pur avendo perso all’ultimo turno delle qualificazioni, a Roehampton, dal tedesco Waske. Il tutto grazie al forfait dell’ultimo minuto di Felix Mantilla. La seconda quella, davvero insolita, di affrontare al debutto nel main-draw un altro lucky-loser, il russo Denis Golovanov. Meglio di così…

Anche la buona sorte, però, ha un limite e George Bastl forse quel limite l’aveva già superato. Perché altrimenti avrebbe continuato ad affrontare delle persone, non gli sarebbe toccato di giocare contro un totem. Il totem quindi era Pete Sampras, che non vinceva un torneo – un qualsiasi torneo – da due anni esatti. L’ultima volta era stato lì vicino, sempre sul Centrale, battendo Pat Rafter in quattro set per arraffare la settima coppa con l’ananas. Come William Renshaw e nessun altro. Per qualcuno, Pete era diventato come un fantasma che si aggirava negli spogliatoi dei tornei più importanti del mondo all’ostinata ricerca di un ultimo tesoro. Ci era andato vicino, inutile negarlo. I fatti parlavano chiaro: aveva perso due finali consecutive agli US Open (2000 e 2001), preso a schiaffi (Safin) e passanti (Hewitt) da quelli delle nuove generazioni che “non hanno più rispetto per niente, neanche per la gente”. Aveva perso anche altre finali, l’ultima sulla terra rossa diversa di Houston da un altro giovane irriverente, stavolta connazionale, un certo Andy Roddick dal Nebraska, tutto servizio e dritto, ma che servizio e che dritto! Sempre a Houston, qualche settimana prima, la leggenda aveva vissuto un altro duro colpo. Durissimo. Nel secondo incontro della sfida di Coppa Davis contro la Spagna, Pete si era fatto rimontare due set e aveva perso 6-4 al quinto con Corretja. Ci sta, direte voi, sulla terra… Invece no, per quell’occasione sul centrale del West Side Tennis Club texano era stata stesa l’erba.

Solo il grande, enorme rispetto per il re degli elefanti impediva ai mormorii di trasformarsi in grida. A che scopo continuare a farsi del male? Perché rovinare una carriera straordinaria con questa lenta agonia, in cui l’amarezza finiva per offuscare la gloria? Perché c’era un posto nel mondo in cui i valori cambiavano e lui poteva tornare se stesso. Non a caso in quel 115° Wimbledon era stato la sesta scelta per gli organizzatori, nonostante fosse solo il tredicesimo giocatore del mondo per il computer dell’ATP.  Del resto, l’anno prima non avevano forse concesso una wild-card a Goran Ivanisevic venendone ripagati dalla commovente impresa del croato in un insolito lunedì londinese? Il 26 giugno 2002 era un mercoledì ma non erano previsti leoni in quello spicchio dell’All England, arido e secco come la savana. L’uomo dall’altra parte della rete veniva da un comune del Cantone di Vaud, Svizzera, ed era n°145 del ranking, dopo essere stato al massimo n°71 un paio d’anni prima nonostante fosse appena stato battuto al secondo turno del challenger portoghese di Maia dal tedesco Phau (6-1, 6-2). Quella di George Bastl era stata una carriera senza acuti. Ispirato da Tashkent, il nostro ci aveva raggiunto lì l’unica finale nel circuito maggiore (battuto dal tedesco Kiefer nel 1999) e ottenuto la vittoria più prestigiosa se commisurata alla classifica dell’avversario (Cedric Pioline era n°14 quando lo sconfisse nel 2000). Per il resto, tanta, troppa vita in gruppo dal quale tentare inutilmente di emergere, di fuggire almeno una volta e piazzare la fuga solitaria che illumina per un giorno l’esistenza del gregario.

Le occasioni, però, bisogna attendere che il destino te le faccia recapitare e, per uno come George, il destino passa una sola volta. “Erano tre settimane che mi allenavo e giocavo sull’erba e sapevo di avere una possibilità” confesserà lo svizzero alla fine del match. All’interno dell’intimo e riservato Court 2, che ospita le lapidi immaginarie di altri elefanti eccellenti (McEnroe, Connors, Nastase e Agassi, solo per fare quattro nomi), meno di tremila persone sono lì per vedere il più grande dell’Era Open, il sette volte campione del torneo, che gli organizzatori hanno spedito in periferia. “Non ero contento di sapere che avrei giocato sul 2 perché qui erano tanti anni che giocavo sempre sui campi principali ma questo non cambia di una virgola il risultato di oggi” ammetterà un Sampras sorpreso da se stesso in conferenza stampa.

Per due set, i primi, non c’è partita. Bastl, sceso in campo con l’intento di tenere la scia dello statunitense, non crede ai suoi occhi. Sampras è falloso con il dritto e ha percentuali di servizio così basse da consentire all’elvetico di dominare e ritrovarsi 6-3, 6-2. Come in una favola. Ma il lieto fine è lontano. “Non ero al mio meglio oggi, ma anche quando sono stato sotto di due set ho continuato a pensare che ce l’avrei fatta” dichiarerà l’americano agli inviati della stampa. E infatti. Pete ottiene il primo break nel terzo gioco del terzo set (2-1) e il secondo gli consente di accorciare le distanze (6-4). Ogni tanto, ai cambi di campo, Sampras legge qualcosa da un foglio. “Sono parole di incoraggiamento che mi aveva scritto mia moglie Bridgette” confesserà Sampras. Utili alla causa, se è vero che nel quarto parziale il suo gioco si fa più fluido (“Il problema di Pete è mentale al 90%” dirà l’ex-coach Paul Annacone) e gli errori diminuiscono (6-3).

Molto spesso al cimitero ci si va a trovare gli amici, non per restarci. Così Sampras si porta avanti 4-3 e ha la palla-break (chiamatela pure palla-match, se volete…) del 5-3 ma Bastl ritrova il coraggio, va a rete a prendersi la salvezza, pareggia e nel gioco seguente è lui ad avere la possibilità di allungare. Una risposta di rovescio sulle stringhe di Sampras fa sedere l’elvetico in vantaggio al cambio di campo. L’ultimo cambio di campo di Sampras a Wimbledon. E, poco dopo, anche l’ultimo dritto che vola via come il pensiero. E fa volare Bastl, conscio di aver compiuto l’impresa che gli darà celebrità eterna. Le zanne dell’elefante più grosso sono sue e adesso può togliersi la fascia e lanciarla verso il pubblico, perché stavolta la fuga l’ha portato sotto il traguardo. Lo svizzero lascia il Court 2 per primo, radioso, ma la gente sugli spalti, ammutolita, ha occhi solo per Sampras che rimane seduto altri due minuti a reggere la racchetta dall’ovale fino a lasciarla rimbalzare sull’erba ai suoi piedi.

Due giorni dopo George rimedierà sei giochi, due per set, con l’argentino Nalbandian e rientrerà immediatamente nei ranghi. Negli anni a venire diventerà uno specialista delle qualificazioni (ne otterrà ben 32 ad ogni livello, dagli slam ai futures) finché il menisco lo costringerà a lasciare, nel 2013. E Sampras? C’è chi pensa che sia giunto il momento per ritirarmi ma non sarà certo con una sconfitta come questa che chiuderò con il tennis. Voglio farlo con una nota ben più alta e credo di avere ancora la possibilità di vincere un grande torneo”. Il delirio di un vecchio elefante incapace di accettare la realtà e all’ultimo respiro di una carriera gloriosa. Due mesi dopo, nel catino immenso dell’Arthur Ashe Stadium di New York, Pete Sampras solleva il trofeo al cielo e annuncia il ritiro. La nota alta.