Parte la lotta contro l’ottava, ma Federer è davvero favorito?
Che il tempo si sia fermato nel tennis maschile è cosa nota da tempo. E nel luogo più caro alle tradizioni e alle vecchie consuetudini questo concetto vale addirittura più che altrove. D’altronde dalle parti di Church Road per trovare un nome nell’albo d’oro diverso da quello dei fab-four bisogna tornare alla vittoria di Lleyton Hewitt del 2002: da lì in poi 7 Roger, 3 Nole, 2 Andy e Rafa. Negli stessi quindici anni – tanto per fare un semplice raffronto, con un’edizione in più a Melbourne e Parigi – gli Australian Open hanno avuto le “intrusioni” di Agassi, Safin e Wawrinka, Il Roland Garros di Ferrero, Gaudio e Wawrinka, New York di Roddick, del Potro, Cilic e il solito Stan. È vero che nei primi anni 2000 3/4 di Fab non erano ancora tali ma ci sono fondati motivi per ritenere che nel 2017 non avremo un nuovo vincitore dei Championship’s.
Nulla sembra più naturale pertanto di considerare favorito per la vittoria un signore che ha già vinto sette volte, ha già giocato dieci finali e che in fondo nella disgraziata stagione 2016, pur giocando su una gamba sola, quasi raggiungeva l’undicesima.
Dal giorno successivo all’epica finale di Melbourne è cominciata a serpeggiare tanto nel fanatico federeriano quanto nell’illustre commentatore la meravigliosa idea: “se ha vinto questo torneo in questo modo dopo sei mesi di stop, come può non vincere Wimbledon?“. Un pensiero ingordo che ha sostituito la più naturale considerazione della irripetibilità del trionfo australiano, dell’ennesimo miracolo del Divino, dell’inebriante saluto al suo mondo del più grande di sempre.
Ovviamente Roger ci ha messo del suo, prima prolungando l’aura magica ad Indian Wells e Miami, poi salutando l’allegra compagnia per tutta la stagione sulla terra, ingenerando una spasmodica attesa per il suo ritorno.
Ma è logico considerare favorito in un torneo di due settimane al meglio dei cinque set un tennista che ha quasi trentasei anni e che non vince da queste parti da cinque edizioni? Un torneo dove le distrazioni nei primi turni storicamente si pagano più caro che altrove e dove le insidie dei grandi battitori possono fare danni irrecuperabili.
Eppure sembra quasi che non ci siano alternative all’ottavo trionfo di Roger, chi avanza dubbi sulle sue condizioni o sulle difficoltà del suo tabellone viene tacciato come tifoso vittima di “maniavantismo”: in fondo – dicono – Dolgopolov si batte da solo, Tsitsipas è già contento di trovarselo di fronte sul Centre Court, Mischa Zverev gli fa il solletico, Isner o Dimitrov non sono competitivi, con Raonic quasi ci vinceva da zoppo e con Zverev jr abbiamo visto giusto qualche giorno fa come va a finire se Roger ha voglia, Djokovic è finito e Murray quasi.
In verità se i primi tre mesi dell’anno hanno di fatto “drogato” le aspettative su Federer in vista di Wimbledon, la quasi contemporanea resurrezione di Nadal con tanto di Decima a Parigi ha prodotto risultati ancora più sbalorditivi: considerare Rafa trai favoriti per i Championship’s non ha alcuna logica tecnica e costituisce un puro atto di fede nelle infinite risorse del maiorchino.
Per carità, quando si parla di Roger e Rafa è giusto fare una premessa: stiamo assistendo a qualcosa di mai visto nella storia del tennis e dunque è giusto non porre limiti alla provvidenza quando si è in presenza di tali fenomeni straordinari, appunto fuori dall’ordinario. Detto ciò, la terza vittoria di Nadal a Wimbledon sarebbe una delle più incredibili imprese nella storia di questo sport. Non è solo il ricordo dei Brown, dei Rosol e dei Darcis o il fatto che Rafa non giochi un match sull’erba da due anni. Bisogna addirittura tornare indietro di sei anni per rintracciare l’ultima vittoria di Nadal su erba contro un giocatore trai primi quindici del mondo (Murray, semifinale di Wimbledon 2011) e le difficoltà fisiche prima che tecniche paiono talmente evidenti che già trovarlo in corsa lunedì prossimo sarebbe una sorpresa.
E allora, dovremo rassegnarci a non avere la finale dei sogni? Probabilmente si. Anche perché se la lunga storia dei due giganti ha un peso e se l’attualità degli ultimi mesi di Djokovic e Murray non va sottaciuta, sembra quasi che si stia dimenticando cosa è accaduto a Wimbledon negli ultimi sei anni. E cioè, che Andy e Nole hanno vinto le ultime quattro edizioni e cinque delle ultime sei (nel 2012 Federer- e chi se no? – battè Djokovic e poi Murray), o sei delle ultime sette se volessimo considerare anche l’edizione olimpica. E d’altra parte, il mitico algoritmo di Wimbledon parla molto chiaro.
Dunque sono solo i patimenti del serbo dal Roland Garros 2016 in poi e i tentennamenti di Andy da quando è salito al numero 1 del ranking ad orientare questa scarsa fiducia nei due campioni.
Su Djokovic abbiamo letto e scritto di tutto, ma se il suo è – come sembra ormai chiaro – un problema esclusivamente mentale – Wimbledon è il posto ideale dove trovare nuovi stimoli e quello che è accaduto qui lo scorso anno francamente non fa molto testo visto il pochissimo tempo trascorso dalla sbornia parigina dove aveva centrato l’obiettivo inseguito un’intera carriera.
C’è poco da dire invece sull’attitudine di Andy Murray ai Championship’s e sulla sua capacità non banale di reggere le pressioni del pubblico di casa. Nelle ultime otto edizioni, sette volte è arrivato almeno in semifinale e al Roland Garros i suoi progressi sono stati evidenti.
Probabilmente la fatidica prima settimana (o giù di lì) londinese sarà decisiva per entrambi, perché salvo clamorosi imprevisti, sarà nei primi giorni di torneo che le prime due teste di serie si troveranno di fronte forse gli unici due credibili outsiders del torneo.
Il bivio di Nole si chiama del Potro al terzo turno, in un match che rievoca battaglie memorabili. Se il serbo dovesse superare l’ostacolo potrebbe cominciare a crederci davvero.
Murray ha Kyrgios sulla sua strada in ottavi e sappiamo tutti che il bad-boy per antonomasia è capace di tutto, ma non dimentichiamo che dodici mesi fa l’australiano tornò a casa prendendo una severa lezione di tennis da erba e non sembra che in un anno abbia fatto quei clamorosi progressi che ci si aspettava.
Cilic potrà inserirsi nel quarto di Rafa ma i miracoli riescono una volta sola, di Raonic si ignorano le condizioni dopo un’annata disgraziata, mentre Zverev, Thiem e Wawrinka paiono fuori contesto sui prati. Non si esce dai soliti quattro insomma. E alla fine, forse – chi vivrà vedrà – i veri favoriti sono i due attualmente meno fab e meno attesi.