Meno partite, più dettagli. Federer vuole l’8^ meraviglia (Semeraro). Djokovic chiama Becker in bancarotta: «Se hai bisogno ti aiuterò io» (Romani). Wimbledon e i suoi maestri (Azzolini)
Meno partite, più dettagli. Federer vuole l’8^ meraviglia (Stefano Semeraro, La Stampa)
Il braccio, la manina fatata, i piedi velocissimi. I muscoli di seta che sanno spostarlo con grazia assoluta nello spazio. I neuroni che sanno leggere in anticipo il tempo, le traiettorie. E lì, dietro la bandana immacolata, c’è la mente allenata da anni di vittorie che dirige quell’ingranaggio da tennis complesso e meraviglioso che si chiama Roger Federer. Una macchina morbida che quest’anno ha un solo vero traguardo: vincere per l’8^ volta a Wimbledon. Staccare Pete Sampras e l’avo Williams Renshaw (entrambi con 7 titoli, ma in secoli diversi) e aggiungere qualche libbra dorata a una già cospicua dose di immortalità. «L’unica possibilità che ho di continuare a giocare ad alti livelli è di mantenermi realista e obiettivo sulle mie condizioni fisiche – ha spiegato ad Halle, dove domenica scorsa ha trionfato per la 9^ volta -. Con il mio team valutiamo attentamente quali sono le mie chance, poi decidiamo la programmazione. Adesso, ad esempio, mi sento pronto a vincere Wimbledon». I trionfi in Australia e poi a Indian Wells e Miami sono stati il frutto inatteso, e insperato, dei 6 mesi di sosta dopo il doppio infortunio al ginocchio della scorsa stagione. I prati dell’All England Club, invece, sono il magazzino verde dove lo aspetta il raccolto più importante dell’anno. Roger non vince qui dal 2012, l’anno della doppia finale – Wimbledon e Olimpiadi – contro Andy Murray. Da allora è arrivato due volte in finale, sconfitto nel 2014 e nel 2015 da Djokovic, nel 2016 si è fermato in semifinale. Erano sembrati, a tutti, gli ultimi fuochi. La differenza è che quest’anno, a 35 anni e 11 mesi, Federer parte di nuovo da favorito. Anche per i bookmakers, che lo danno vincitore a 3,25 davanti all’acciaccato campione uscente Murray (4,33), a Rafa Nadal (5,50) e a Novak Djokovic (7). II Maestro ha spiegato che conta di giocare ancora a lungo, magari fino ai 40 anni. Insegue con suprema nonchalance record che sembrano follie. A Wimbledon non potrà tornare n. 1 – per quello eventualmente bisognerà attendere il resto della stagione -, ma supererà i 10 mila ace in carriera (è a 9994), entrando nel club che per ora comprende solo Ivo Karlovic e Goran Ivanisevic. Sembra un dettaglio, ma i dettagli sono l’essenza del successo del Federer edizione 2017, il formidabile patriarca che per vincere ha assoluto bisogno di servire bene, accorciare i punti, economizzare le energie. «Se voglio prolungare questa fase della mia carriera devo prestare la massima attenzione ai dettagli. Si è creato un equilibrio ideale che mi consente di divertirmi e vincere anche a 35 anni. E non voglio comprometterlo». Pierre Paganini, il custode del suo fisico, è l’uomo che più di tutti si preoccupa di dosare la magia residua. E stato lui a convincerlo a saltare la stagione sul rosso, compreso il Roland Garros, per concentrarsi sull’8^ meraviglia londinese. Uno start e stop che può aiutarlo a diventare a fine anno il più anziano numero 1 della storia (per ora il record è di Agassi, 33 anni e 4 mesi), in futuro il più longevo fra i vincitori di Slam, superando i 37 anni e due mesi di Ken Rosewall. Un miracolo laico, accuratamente progettato, che può iniziare a compiersi da lunedì.
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Djokovic chiama Becker in bancarotta: «Se hai bisogno ti aiuterò io» (Davide Romani, La Gazzetta dello Sport)
In campo ha raggiunto la semifinale del torneo di Eastbourne continuando nel suo percorso di avvicinamento al torneo di Wimbledon, fuori ha già vinto il titolo della generosità. Novak Djokovic non si dimentica della persona con cui ha condiviso molti successi negli ultimi anni e tende la mano a Boris Becker, suo allenatore dal dicembre 2013 al dicembre 2016, al centro delle cronache nell’ultima settimana per una vicenda extra sportiva. Il 21 giugno un tribunale londinese ha dichiarato la bancarotta per Boris al termine di una causa che durava da un paio di anni con una banca privata inglese alla quale Becker doveva circa 6 milioni di euro. Un vero e proprio crac economico. Una notizia che ha spinto Djokovic a tendere la mano al tedesco: «Quando ho letto la notizia dei presunti problemi economici di Boris, ho chiamato direttamente lui – ha raccontato il 30enne di Belgrado -. Mi ha detto che non è vero e che i media hanno ingigantito la cosa. Questo è tutto ciò che so». La notizia della bancarotta è stata subito commentata su Twitter dallo stesso Becker: «Sono sorpreso e amareggiato per la decisione presa nei miei confronti. Volevano che rendessi tutta la cifra in un solo mese e hanno rifiutato di ascoltarmi». Oltre alla presa di posizione sui social Becker, in un’intervista rilasciata al Suddeutsche Zeitung, è tornato a smentire la cosa: «Non sono né insolvente né in bancarotta. I miei beni sono sufficienti per saldare il debito». Una notizia che comunque ha scosso il tennista serbo, numero 4 del ranking Atp. Il campione di Belgrado, durante il torneo di avvicinamento a Wimbledon, ha ammesso: «Lo vedrò ora a Londra. Siamo ancora amici. Nonostante non lavoriamo più insieme, ci sentiamo. Amo Boris come persona e come coach ha contribuito tanto alla mia vita e alla mia carriera. Quindi se posso dargli una mano io ci sono, questo è ciò che gli ho detto. Può contare su di me». Dalle parole di Djokovic, che oggi sarà impegnato nella semifinale di Eastbourne contro il russo Medvedev, si capisce come sia ancora buono il rapporto tra i due. Nonostante le parole di Becker non troppo carine dopo l’annuncio del loro divorzio: «Negli ultimi tempi non siamo riusciti ad allenarci come avremmo dovuto perché Novak aveva cose più importanti da fare – raccontò in una intervista Becker —. Ha scelto di passare più tempo con la famiglia, ma i campioni di tennis devono anche saper essere egoisti». E allora, dal momento che la guida di Agassi non è a tempo pieno, chissà che non possa riformarsi il binomio che ha permesso a Nole di dominare tra il 2015 e il 2016. Quello annunciato da Djokovic non è un gesto nuovo tra i campioni del tennis. Ma per un motivo o per l’altro queste buone intenzioni non vanno a buon fine. Qualche settimana fa Andy Murray si era impegnato a versare a favore delle famiglie delle vittime del rogo di Grenfell, a Londra, il premio in denaro del Queen’s. Torneo nel quale è stato eliminato al 1° turno. E ora arriva il paracadute lanciato da Nole che però, almeno ufficialmente, Becker, rimanda al mittente.
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Wimbledon e i suoi maestri (Daniele Azzolini, Avvenire)
Quando chiudono il tetto, il Centre Court assume i colori di una camera da letto. Guardi la volta mentre si chiude, nel tramestio dei colombi che si affannano verso una via di fuga, e ti sembra che sia così da sempre. Wimbledon è esattamente questo, uguale a se stesso anche nelle cose che prima non c’erano. L’attuale sede, in Church Road, venti anni fa appariva spoglia, quasi essenziale. L’hanno ricostruita in buona parte, e a nessuno verrebbe in mente di definirla “nuova”. È come se a Wimbledon costruissero vecchi stadi moderni, antichissimi tetti ad alta tecnologia, antiquati maxi schermi digitali, persino l’ologramma di John McEnroe che guida il pubblico fra gli stipetti degli spogliatoi di una volta, ricostruiti all’interno del museo, ha un che di eterno. Wimbledon tiene a mente tutto, date e fatti che non dovrebbero interessare ad alcuno, ma che in fondo riscaldano il cuore. C’è chi li ha annotati, trascritti, conservati, considerandoli importanti, forse indispensabili. L’arte della memoria è l’attenzione. Dell’una e dell’altra, Wimbledon ha fatto la propria roccaforte. Ed essere al passo con i tempi, conservandosi, è ormai una sfida. Fra le tante date ce n’è una importante. I Championships nacquero nel 1877, 140 anni fa. La storia è nota, e c’è chi conosce a memoria vincitori e vinti di uno dei tanti sport di cui i britannici si sentono maestri. Wimbledon è un laboratorio di scienza, oggi autorevolissimo, ma anche uno tra gli eventi che dettero vita a una nuova forma letteraria, a se stante, ancora poco considerata ma attiva e fiorente: la scrittura sportiva. Furono in sei a riunirsi in società nella sede dell’editore del Fields, desiderosi di avere un club tutto per loro, che li riunisse nei giorni di svago e sottolineasse il livello di notorietà raggiunto dal giornale, che a quei tempi era un settimanale. Tre dei soci trovarono il posto giusto a un’ora e mezza di carrozza dal centro di Londra. Troppo lontano, fu l’appunto degli altri. Ma al giusto prezzo, fu l’argomentazione vincente. L’All England Croquet Club nasce il 23 luglio 1868. Il tennis entrò a far parte della vita sociale del club solo nel 1877, l’anno del primo torneo e del definitivo conio: All England Lawn Tennis and Croquet Club, AELTC l’acronimo. Erano gli anni in cui lo sport (tutto) veniva codificato. Si davano regole definitive al calcio, al rugby, e anche al tennis (al Marylebone Club, il primo a ospitare un torneo). L’attenzione verso l’attività fisica all’aperto faceva parte di quel progetto, portato avanti dalla borghesia emergente, di appropriazione di tutto ciò che fosse appartenuto alla nobiltà. I soldi erano già passati di mano, la vera ricchezza era ormai nelle tasche di commercianti e industriali. Su mode e tradizioni, invece, i borghesi alacremente lavoravano per portarli a sé e imporsi del tutto sulla scena. Il positivismo era la filosofia che faceva da carburante, perché poneva l’uomo al centro di ogni progresso, con cinismo e senza troppe sottilizzazioni. E lo sport che proponeva sfide fra uomini si ritrovò presto in prima pagina. Anche la vittoria di Gore, la prima ai Championships (i Campionati, semplicemente), fu celebrata sulle pagine dello stesso Fields. Esaltando il vincitore, l’uomo, il suo sforzo, la sua attitudine, il suo ingegno. Proprio come accadeva nelle prime cronache del calcio e del rugby. Era la nascita del giornalismo sportivo e di un modo di scrivere sui vincitori che attingeva a piene mani dall’epica. Questa poneva al centro di tutto l’eroe, divinizzandolo. La scrittura dello sport collegò i due generi, trattò in divenire la cronaca e concesse sembianze divine ai vincitori. Più facile descrivere il laboratorio dei Championships. Wimbledon è al centro di grandi attenzioni dal mondo dell’agronomia, par le macchine che ha inventato (nebulizzanti, a getti d’aria) e per le teorie sulla composizione del prato perfetto. La storia di questo torneo è fatta di poa pratensis, di oregon bruna, oggi di segale. Misture che hanno permesso di stendere prati robusti e conformi ai voleri degli organizzatori. Dall’erba sconnessa e sdrucciolevole, che imponeva di giocare al volo per evitare pericolosi rimbalzi della palla, a quella compatta e più lenta di oggi, che ha suggerito il conio di “erba battuta”. In realtà, una via di mezzo alla fine è stata trovata, confermando la linearità dei rimbalzi, ma con una maggiore concessione alla velocità della palla. Il tutto attraverso la scelta accurata delle sementi (sono stati appena nove, in 140 anni, i capi giardinieri a Wimbledon) e dei millimetri su cui operare il taglio. Da quattro ai cinque. Restano detti antichi. Un buon prato si fa con un anno di lavoro, e cento anni di piogge. E forse è vero. Di sicuro, per una buona carriera basta un anno da protagonisti a Wimbledon. Anche per questo ai Championships tutti si presentano cercando qualcosa, quest’anno più che mai. Nadal il numero uno, Murray una vittoria per restare al primo posto, Federer l’ottava meraviglia, il traguardo mai toccato da nessuno, proprio come “la decima” di Nadal a Parigi. Djokovic semplicemente se stesso, ammesso che già non lo abbia trovato, ma forse fuori dal tennis. I giovani cercano la misura del loro valore. E le ragazze, le prime dieci fra loro, si chiedono chi riuscirà a sostituire la futura mamma Serena Williams. O, più semplicemente, perché nessuna di loro ci sia ancora riuscita.