Halep sfida la baby lettone. Oggi le semifinali uomini (Guidobaldi). Dalla Lettonia una finalista col pugno alzato (Clerici). Ostapenko samba e grinta. Sorpresa finale con Halep (Crivelli). Senza Serena più democrazia, parola di Lindsay (Azzolini). Dominator Thiem, testa e dritto alla prova Nadal (Crivelli). John McEnroe: «Tecnologia male del tennis. Ai miei tempi contava il talento» (Semeraro)
Halep sfida la baby lettone. Oggi le semifinali uomini (Laura Guidobaldi, Il Giorno)
La finale femminile verrà giocata da una ragazzina lettone sempre sorridente e che nelle conferenze stampa parla come una macchinetta senza mai prendere respiro, ma anche senza mai dire niente di interessante. Si chiama Jelena Ostapenko, ha compiuto ieri 20 anni («Mi sono fatta un bel regalo…» e non credo alludesse al milione e 60 mila euro spettanti al finalista che raddoppia se vince) ed è soltanto n.47 Wta però tira il diritto più forte di Andy Murray — lo dice un radar — sebbene lei dica che «il mio colpo migliore è il rovescio». La Ostapenko ha battuto in tre set, 7-6, 3-6, 6-3 la svizzera Bacsinszky, che festeggiava anche lei il compleanno (28 anni) questo stesso 8 giugno; se perderà la finale salirà intorno a n.18, mentre arriverà al n.12 se dovesse vincerla. Nessuna tennista classificata così in basso era mai arrivata in finale al Roland Garros. Dall’altra parte della rete ci sarà invece una ragazza ben più esperta e meglio classificata, la rumena Simona Halep, n.4 Wta (ora già virtualmente al n. 2) che fu già finalista qui nel 2014 (quando perse da Maria Sharapova 6-4, 6-7, 6-4) e che a differenza della piccola Ostapenko era fra le favorite della vigilia. La Halep ha sconfitto (6-4, 3-6, 6-3) Karolina Pliskova che sarebbe diventata n.1 del mondo se avesse vinto ieri. La nuova n. 1 potrebbe invece diventare domani la ragazza rumena che anni fa balzò agli onori poco onorevoli… del gossip, perché decise di sottoporsi ad un’operazione chirurgica per rimpicciolire i seni («Troppo grossi e pesanti per giocare bene a tennis»). Domani la Halep, che nei quarti con la Svitolina ha rimontato da 3-6, 1-5 e matchpoint nel tiebreak, giocherà da favorita contro la Ostapenko, anche se per chiudere un match Simona spesso lo deve vincere due volte. Oggi le semifinali maschili si preannunciano molto incerte. Murray ha battuto Wawrinka 10 volte su 17, compresa la vittoria dello scorso anno, proprio su questi campi, e Nadal ha sconfitto Thiem 4 volte su 6, tutte sulla terra battuta. Fra il maiorchino e l’austriaco sarà il quarto duello quest’anno. Nadal ha vinto nelle finali di Barcellona e Madrid, in due set, Thiem a Roma quando Rafa giocò sottotono. Quella è stata l’unica sua sconfitta quest’anno sui campi rossi, perché aveva vinto anche a Montecarlo per la decima volta. Alla “decima” punta anche qui. Forse la finale più avvincente sarebbe quella fra Nadal e Wawrinka, per il contrasto di stile che assicurerebbe il dritto mancino di Nadal contro il rovescio formidabile dello svizzero. Anche Thiem ha un bellissimo rovescio, però gioca troppo dietro la riga di fondocampo e Nadal può trarne profitto. Contro Wawrinka, insomma, sarebbe più dura. Attenzione, però: Murray ha avuto una stagione poco brillante, ma è in crescendo.
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Dalla Lettonia una finalista col pugno alzato (Gianni Clerici, La Repubblica)
Adesso non mi lascerebbero più entrare, magari chiamerebbero addirittura gli incaricati al servizio d’ordine, uno di quei geni che ha suggerito che mi togliessi il cappello per vedere se sotto c’era la bomba. Sono stato per un anno compagno di doppio di Philippe Chatrier, prima che divenisse presidente dell’Itf e che gli dedicassero il Centrale. Questa mattina sarei dunque andato da lui per dirgli se non pensava che fosse ora di abolire i doppi. Sono stato il primo ad accorgermi che nel Millequattrocento si giocava in 3 contro 3, anche in 4 contro 4, un dettaglio dimenticato da quando i britannici avevano fatto credere che il tennis fosse una loro invenzione, verso il 1870. Ma ora i doppi non vengono più giocati se non da tennisti falliti o troppo vecchi per il singolare. Servono giusto per occupare gli spazi televisivi tra un singolare e l’altro. Andrebbero quindi aboliti, visto che le racchette contemporanee hanno costretto i singolaristi a scambi di 30-40 tiri, a partite di un minimo di tre ore. Questo avrei detto, se ancora fossi amico di qualcuno importante, per uno spettacolo al quale sono stato costretto ad assistere. E avrei motivato la mia richiesta, indicando la classifica dei due migliori tennisti iscritti al doppio, Safarova n. 39 e Verdasco n. 37. «Quel vecchio rimbambito si sarà almeno deliziato con le semi femminili» dirà qualche giovane lettore. Mica tanto, dacché Serena è incinta, la mia amata Venus ahimè invecchiata, e non si scorge ancora l’erede di una Navratilova né almeno di una Graf. Noi spettatori abbiamo dunque dovuto accontentarci dei tiracci scambiati dalla campionessa di Canapia, cioè dal naso adunco, Bacsinszky, svizzera adottiva, e dalla prima lettone con con racchetta, Elena Ostapenko. La lettone, per essere sincero, l’avevo già notata per aver vinto il singolare junior a Wimbledon 2014, e per il vezzo di mostrare il pugnetto ad ogni punto, verso l’avversaria o verso una sconosciuta divinità responsabile dei suoi errori. La singolarità della semifinale è stata il compleanno di entrambe le tenniste. Nell’ultima semifinale ho invano offerto le mie simpatie a Carolina Pliskova, praghese come Drobny e Navratilova. Tentando di colpire solo le righe, solo con colpi piatti, senza mai un tiro sporco, o un drop, Carolina ha finito per essere vittima della indomabile e poco avvenente Simona Halep, che era andata vicinissima alla sconfitta contro Svitolina. Se vincesse la finale, Halep diverrebbe una delle più deboli e ammirevoli n. 1 del mondo.
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Ostapenko samba e grinta. Sorpresa finale con Halep (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)
Il sole questa volta sorgerà a Oriente. Una finale dell’Est per una prima volta: l’esperienza e la solidità della romena Halep, già finalista qui, sconfitta nel 2014 da Maria Sharapova, e l’esplosiva esuberanza giovanile della sorpresissima Jelena Ostapenko, nuovo idolo di Lettonia. Parigi e lo Slam avranno una nuova regina, e ci dovremo abituare in fretta alla condivisione del potere: con Serena Williams presto madre e la Sharapova ancora affamata ma indebolita da un anno e mezzo di assenza forzata, tra le donne possono sognare in tante. Non sarà spettacolare, però sicuramente divertente. E chi ritiene stia tramontando un’epoca, sia tecnica, sia per l’appeal delle protagoniste, può vedersi una partita della Ostapenko: lo stile è quello delle bombardiere di oggi, si tira tutto a tutto braccio (50 vincenti, 45 gratuiti), ma la grinta e il carattere sono del tutto personali. Compiva 20 anni ieri e curiosamente è nata nello stesso giorno dell’avversaria sconfitta, la Bacsinszky (che ne faceva 28), e la personalità è di una che farà strada: «Credo sia bello manifestare le emozioni, purché non si oltrepassino i limiti». L’8 giugno 1997, tra l’altro, qui al Roland Garros trionfava per la prima volta Gustavo Kuerten, che fino ad allora non aveva mai vinto un torneo, come Jelena, la giocatrice con la più bassa classifica (47) in finale a Parigi: «Non potevo immaginarlo, sono felice, ho giocato sempre meglio a ogni partita». Figlia di un calciatore, da piccolina si è divisa tra ballo e tennis fino ai 12 anni e nel 2014, pur già avviata al professionismo, ha ripreso le danze da sala: «Quando posso, vado quattro volte a settimana, ho ricomprato scarpe e vestiti. Adoro il samba, mi ha aiutato nel movimento di piedi». Ieri, ha tirato un dritto a 117 all’ora, quarto più veloce del torneo dopo Nadal, Murray e Wawrinka, ma la potenza senza controllo non basterà contro la ragnatela della Halep. Dimenticati gli acciacchi della finale persa al Foro, Simona può riportare la Romania sul trono 39 anni dopo la Ruzici, la sua scopritrice, e avrà lo stimolo aggiunto del primato: se alza la Coppa Lenglen, diventa la 23^ numero 1 della storia nell’Era Open. Dopo aver domato la Pliskova con appena 14 gratuiti, dovrà dimostrare la maturità della favorita. Il passo che separa la campionessa dalla fuoriclasse.
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Senza Serena più democrazia, parola di Lindsay (Daniele Azzolini, Tuttosport)
Il tennis al tempo di mamma Serena Williams mette in campo le storie più intriganti. Ci sono le eroine, le bellissime, le coraggiose, le bizzarre, e c’è anche il corredo di mamme volubili, padri indesiderati, autisti, segretari, guardie del corpo. Abbondano i centimetri, i muscoli, talvolta i chili, anche quelli “di troppo”. Fa difetto, piuttosto, lo spirito guida, cioè quella dote personale che permette di assemblare tutto questo in un insieme che abbia un senso. E, già che ci siamo, che eviti di schiantare nella parte bassa della rete una volée giocata a 5 centimetri dal nastro. Le doti tecniche sono di prima scelta. Il talento in alcune scorre fluente nelle vene, ma quello che manca è quel qualcosa che possa unire le qualità di ognuna di queste ragazze, così pronte ad azzuffarsi per l’eredità Williams, con la capacità di raggiungere l’obiettivo. Serena riempiva quello spazio di poderose sbracciate, e sulle stesse costruiva tutte le proprie sicurezze, incurante di apparire a volte sin troppo tracotante. Le ereditiere invece, inciampano su di esso, o peggio ci finiscono dentro. Diciotto anni di potere Williams hanno cambiato il loro dna, le hanno trasformate in inseguitrici. Quello lo sanno fare. Porsi alla guida del gruppo, invece, è un’altra cosa. In finale vanno Simona Halep e Jelena Ostapenko. Vogliamo dirla tutta? E la sfida meno attraente da 15 anni a questa parte. Jelena è una cara ragazza, ma non ha ancora vinto un torneo. Simona può diventare la numero uno, ma deve vincere il torneo. Ci ha provato nel 2014, sconfitta da Maria Sharapova. Una via più diretta l’aveva ottenuta Karolina Pliskova. Bastava battere la Halep, e le prime due (Kerber e la stessa Serena) le sarebbero finite dietro. Ma Karolina si è piantata sul più bello, lei come molte altre prima di lei. Ha recuperato un set, dall’alto di un tennis tutto d’anticipo, poi un break nella terza partita, ma poi ha lasciato andare il match. «Non giocavo per diventare n. 1, ma per vincere», ha spiegato senza riuscire però a chiarire perché abbia fallito l’uno e l’altro. «Questi mesi senza Serena renderanno il tennis femminile più democratico», è il parere di Lindsay Davenport, che fu n. 1 quando la sfida era con la vecchia guardia e le Williams erano ragazze. Forse. Ma essere la n. 1 del mondo impone risultati, sicurezze, carisma, e questo Roland Garros ha mostrato una top ten incerta, per non dire inadeguata, con 7 top ten uscite nei primi 3 turni, una è in attesa di una bimba, una è caduta nei quarti, due si sono sfidate in semifinale e ha vinto (Halep) quella che ha messo in campo audacia e nervi saldi ma colpi meno brillanti. Onestamente, “vinca la meno inadatta” non può essere lo scopo della rivoluzione democratica del tennis femminile.
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Dominator Thiem, testa e dritto alla prova Nadal (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)
Quel giorno, pochi si curarono di lui. Succede, se l’avversario che ti batte si chiama Bjorn perché il padre aveva come idolo Borg. Nell’albo d’oro del Roland Garros juniores, perciò, rimarrà indelebilmente scolpito il nome dello yankee Bjorn… Fratangelo, ma siccome la storia finisce sempre per baciare il talento, il ragazzo con le lentiggini sconfitto in quel lontano pomeriggio parigino ha dimenticato in fretta i turbamenti giovanili. Fino a ritrovarsi a inseguire la gloria più alta. Mentre oggi il buon Fratangelo, conquistatore del piccolo Slam francese nel 2011, naviga oltre la centesima posizione Atp (ora è 138) senza mai essere arrivato oltre la 99, Dominic Thiem, n. 7 del mondo, gioca la seconda semifinale consecutiva dei grandi alla Porte d’Auteil dopo aver frantumato le ultime certezze di Djokovic e con il cammino immacolato (non ha ancora perso un set) di chi non vuol scendere dalla giostra. Anche se l’esame di maturità ha la sagoma da incubo del più grande di sempre sul rosso, quel Rafael Nadal alla caccia della Decima: «Non poteva capitarmi avversario più difficile», mormora l’austriaco. I due si affronteranno per la quarta volta in cinque settimane, dopo i successi di Rafa in finale a Barcellona e a Madrid e la vittoria dell’austriaco nei quarti a Roma. Un precedente che pesa, anche se questo Nadal, 22 game concessi e la faccia feroce dei tempi dell’invincibilità, viaggia nell’iperspazio: «Non ci sono grandi segreti nell’affrontare Nadal, devo evitare che trovi la miglior posizione in campo per fare male con il dritto, altrimenti non avrò difese. Dopo il match di Roma ero stanchissimo, per fortuna dopo la vittoria contro Djokovic ho avuto un giorno in più per riposarmi». A Rafa, Thiem è stato avvicinato spesso. Non solo perché la terra è indubbiamente la sua superficie preferita, come confermano le 22 vittorie stagionali per entrambi (anche se il maiorchino ha perso una sola volta e l’austriaco quattro). Dell’avversario di oggi, Dominic possiede l’esuberanza fisica dei primi anni e la voglia infinita di tennis, tanto che nel 2016 ha finito per giocare 82 partite, quasi senza sosta e tra febbraio e marzo di quest’anno, unico nel circuito, si è sobbarcato il trittico Rotterdam-Rio-Acapulco in due settimane. La programmazione ipertrofica, del resto, è una delle critiche che lo accompagna più spesso, ma la replica è tutta in un nome e in un cognome, Alex Stober. Già preparatore di Sampras, Agassi e Kuerten, è il mago che cura i suoi muscoli: «Tutto quello che so del tennis l’ho imparato da lui, il suo arrivo nel 2015 ha dato la svolta decisiva alla mia carriera». Stober gli ha dato più velocità di piedi, maggior equilibrio, tenuta mentale più solida. Non a caso, l’anno scorso ha compilato un record di 22 vittorie e 3 sconfitte nei set decisivi e in questa stagione ha vinto due partite annullando match point (Dimitrov a Madrid e Querrey a Roma). Certo, poi c’è la tecnica: la crescita al servizio, la frustata di dritto, il rovescio che nacque bimane e che poi coach Bresnik modificò portandolo a una mano (come successe a Sampras). Per Kuerten, vincitore qui due volte, può bastare cosi: «Dominic e Zverev domineranno il torneo nei prossimi anni». E Muster, fin qui unico austriaco ad aver sollevato la Coppa dei Moschettieri (nel 1995), può innaffiare l’orgoglio: «Ha dimostrato di sapere gestire le due settimane, per me è già pronto». Lui, Dominator, non rifugge dal sogno: «E’ difficile, ma ho uno spirito nuovo. Prima, mi spegnevo con il passare del tempo e soffrivo con i grandi avversari, adesso anche la terra più veloce mi può dare una mano». Austria felix. Beati loro.
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John McEnroe: «Tecnologia male del tennis. Ai miei tempi contava il talento» (Stefano Semeraro, La Stampa)
Dica la verità: al tennis oggi manca uno come lei?
Non sta a me dirlo. La personalità è importante, se in campo vanno due di cui non ci interessa niente, non è un granché. A me piace Nick Kyrgios, tranne quando non si impegna. Ha fisico e talento, ma non può permettersi di non essere in forma. Quando lo vedo mollare di testa, mi chiedo: cambierà? Spero di sì, è giovane e ha gente che lo aiuta. Ma non so se ci scommetterei.
Dicono che il tennis sia diventato noioso: concorda?
Colpa della tecnologia. Noi abbiamo iniziato con le racchette di legno, poi i materiali hanno continuato a evolversi. Il bello sta nella costruzione di un punto, oggi invece basta un colpo. Ai miei tempi i grandi atleti erano pochi, chi aveva talento spesso aveva la meglio. Oggi è il contrario. Ma se guardiamo a Federer, Nadal e Djokovic, troviamo un’ottima combinazione tra qualità atletiche e menti tennistiche.
Quale può essere la soluzione? Velocizzare le superfici?
Può aiutare il tennis d’attacco. Federer ha vinto a Melbourne perché è il più bravo ad adattarsi e sa giocare un tennis più aggressivo. Incoraggiare uno stile più completo è sicuramente un bene.
Se Federer o Nadal dovessero tornare n.1 sarebbe una buona o una cattiva notizia? Sono due fra i più grandi: non può essere cattiva. Stanno di nuovo vincendo più di tutti, e questo mi sorprende, ma il loro esempio può spingere gli altri a migliorarsi.
Thiem, Zverev, Kyrgios sono i giovani più forti: chi si prenderà per primo uno Slam?
Se devo scegliere dico Zverev. Anche se Kyrgios è favorito rispetto agli altri due a Wimbledon, e Thiem è il più solido e può fare bene ovunque, specie sulla terra.
Se Nadal trionferà per la decima volta a Parigi bisognerà rivedere l’opinione che ritiene Federer il migliore di sempre?
Nadal è già un grandissimo. Senza gli infortuni i suoi numeri sarebbero stati ancora migliori, ma quando lui è un po’ calato, Roger è tornato a bussare alla porta: se consideriamo il numero di semifinali Slam non c’è dubbio che sia lui il più continuo. Per Nadal non credo che vincere 9 o 10 volte Parigi faccia molta differenza, diverso sarebbe stato conquistare l’Australia Open a gennaio, o altre due volte Wimbledon, o una gli Us Open.
Al Roland Garros sono arrivati in fondo i soliti noti: perché?
E’ un torneo che sa tirarti fuori il peggio. Separa chi è disposto a dare tutto, a non mollare, da chi si accontenta. Per me era un torneo durissimo. Soprattutto per una questione mentale.
Murray resterà numero 1?
Con la concorrenza che c’è è dura anche essere il n. 5. Andy può resistere, ma sarà dura. Se Federer vincesse Wimbledon potrebbe avere una chance per tornare al vertice, ma non so se giocherà abbastanza tornei.
In che cosa Agassi può aiutare Djokovic in crisi?
Sul piano delle motivazioni. Djokovic può reggere molti anni ancora, spero che continui anche la loro collaborazione, che è positiva per il tennis.
Lei, a parte la collaborazione con Raonic, non ha allenato molto: di chi farebbe il coach?
L’ideale sarebbe Kyrgios: abbiamo teste simili. A Raonic ho detto di sì perché aveva bisogno di me part-time. A casa c’erano da crescere un po’ di bambini, da 7 anni ho la mia academy a New York, poi mi piace ancora giocare nel senior tour. Troppe cose.