Nati sbagliati, quando il tennis insegue Twitter e non viceversa
da Parigi, il nostro inviato
Le conferenze stampa, durante un qualsiasi torneo, sono spesso un argomento combattuto: specialmente tra gli addetti ai lavori di lunga data serpeggia la critica, nemmeno tanto velata, ai giocatori che si nascondono dietro affermazioni di circostanza, frasi fatte, “sarà una partita difficile”. Soprattutto i top players: quelli di cui si parla di più sono gli stessi che dicono meno. È quindi tutto un “Roddick e Safin mancano al circuito, non parliamo di Ivanisevic”, o “ci vorrebbero più Gulbis e Stakhovsky”. Si rimpiangono i tempi in cui gli intervistati non avevano paura di esternazioni scomode, i giocatori non si curavano di apparire in prima pagina con un virgolettato pesante: tempi in cui i giornalisti facevano vita notturna insieme ai tennisti, avevano con loro rapporti personali ben più stretti. Erano tempi in cui una rete di contatti faceva la differenza, il trapelare di una notizia era veicolato nei modi più disparati, dal passaparola in ascensore alla voce di corridoio rivelata dal custode degli spogliatoi. Almeno, questo è quello che gli anziani, in sala stampa, raccontano ai (pochissimi) giovani aspiranti.
L’ambiente, adesso, è ben più freddo di quello che ricordano i dinosauri di ogni nazionalità che continuano a popolare i tornei di ogni parte del mondo. Ci si divide tra leggende della carta stampata e web star di ultima generazione, con il filo conduttore di una quasi completa allergia alla cordialità, che a volte scade quasi nella maleducazione: al mattino sentire un “buongiorno” è una mezza chimera, si contano piccoli ghetti di maniaci dell’online e connazionali. Pochissimi tendono la mano per presentarsi, come se le pubbliche relazioni non potessero esistere senza un ritorno professionale. Non è un caso se l’unico che ancora fa attenzione a salutare e conversare, è Gianni Clerici. Altre paste. Un paio di under 30 ci sono, che cercano di fare amicizia e soprattutto supportarsi a vicenda, consigliando quale profilo omaggiare di un follow, che potrebbe essere vitale per poter entrare nella setta di quelli che contano. Questa è forse la cosa più triste, trasposizione naturale di quello che la società odierna sta imponendo: la quantità sostituisce la qualità, un seguito maggiore garantisce visibilità e quindi accesso a interviste e privilegi di genere vario. Che poi le eventuali pubblicazioni facciano schifo o meno, pare non interessare a nessuno. È lo scotto del bombardamento di informazioni ovviamente, della facilità di consumo delle notizie: rapido è meglio, punto.
Pochissimi insegnano, pochissimi imparano. Perché c’è in generale poca disponibilità da parte dei più esperti, che preferiscono stare tra loro o per contro proprio, senza interagire con i novizi se non per qualche parere che verrà utilizzato come passo della Bibbia. E perché c’è poca umiltà da parte dei fenomeni del web, che pretendono di potersi accontentare di un buon seguito sui social networks, senza curarsi di assorbire tecniche della vecchia scuola, consigli tratti da vita vissuta, punti di vista di chi gira i tornei da una vita. Qualcuno prova a dare lezioni da dietro una tastiera, quasi sempre scadendo in invettive sterili: più che dire la propria, è meglio attaccare il punto di vista altrui. E guai a segnalarglielo, perché capirebbero quello che vogliono loro, tornando a parlare di idee personali senza aprire a un dibattito. Definendolo peraltro giornalismo, rischiando di far credere a quelli che loro stessi definiscono incapaci, che sia davvero questo, il giornalismo.
Le stesse conferenze stampa di cui sopra sono momenti che trasmettono una sensazione di malinconia: come ci aveva detto la leggendaria Martina Hingis a Roma, il rapporto tra stampa e giocatori adesso è diventato estremamente formale, soprattutto a causa dei social networks e dei nuovi sistemi di informazione. Si fa la domanda, e non si guarda nemmeno negli occhi l’intervistato: subito con la testa china per il tweet, la mail, la storia. Perché si possano conquistare altri followers, perché si possa essere la fonte. Per poi andare a reclamare “mi raccomando cita il mio nome”, perché anche una domandina sul colore dell’abbigliamento deve avere una griffe marchiata a fuoco, proprietà privata. I complimenti sono rarissimi, anzi ce li si fa da soli: ho fatto una bella intervista, ho scritto un bel pezzo. Talmente bello che quello famoso ha fatto retweet, quell’altro ha risposto.
In tribuna stampa ci vanno in pochi, e poco. Spesso perché tempo ce n’è poco, specialmente nella prima settimana: i campi da coprire sono talmente tanti, poi le conferenze stampa, è una bella maratona e per ovviare al marasma ogni desk è dotato di un monitor interattivo, che trasmette live tutte le partite ed è aggiornato con tabelloni, statistiche, orari delle interviste. L’altoparlante dell’area stampa, che trasmette anche nei bagni, annuncia senza sosta chi arriverà, in quale delle quattro stanze, a che ora. Qualcuno quindi è costretto a non spostarsi dalla sedia, oberato di lavoro com’è: qualcun altro però semplicemente non vuole andarci, a vedere il tennis, perché è più importante avere tutto sotto controllo, per essere puntuali e fotografare, linkare, pubblicare. E l’abbigliamento è di quanto più impensabile si possa invece pensare: pochi romantici in giacca e camicia, fioccano pantaloncini corti e calzini di spugna.
La passione sembra essere sopita da qualche parte sotto lo smartphone e il registratore. Ovvio che non tutti possono, né devono, apprezzare il campo 16 quando il sole si abbassa alle sette di sera: se lo facessero tutti non sarebbe più così speciale. Ma la sensazione è la stessa che può attanagliare un tennista nel pieno di una propria crisi: quella di andare in ufficio, di andare al lavoro (perché certamente di lavoro si tratta), senza però realizzare il privilegio e l’opportunità che si ha. Code interminabili che si smaterializzano quando si fa vedere il badge, spalti dedicati, ristorante riservato con dieci euro di diaria (qui, negli altri Slam anche di più. In altri tornei ancora è tutto completamente gratuito). Tutto sembra non avere importanza, non avere valore, quando quello che conta è la corsa all’ora della statistica che nessuno ha, o della dichiarazione scottante. Con delle eccezioni, sia chiaro: Reem Abullelil, giornalista egiziana trapiantata a Dubai e membro della ITWA (International Tennis Writers Association) si spende per spiegare, raccontare, mettere a proprio agio anche chi è meno noto di lei nell’ambiente. Una rarità.
Non deve certo essere un paese dei balocchi, perché chi c’è (almeno quasi tutti) si impegna per lavorare come è giusto che sia. Non è un invito a trascurare il vero motivo per cui si è qui, che è quello di svolgere un compito trasmettendo emozioni e informazioni. Ma è triste sapere che si è troppo accecati dallo schermo per potersi godere una passeggiata attraverso stand e campi di allenamento, bere un caffè su una sdraio nel piazzale tra Lenglen e Chatrier, chiacchierare con un collega durante una pausa sigaretta. È un lavoro, ma prima di tutto è un privilegio: esperienze del genere su Twitter non si trovano.