Il crowdfunding in tempo di guerra
Sono passati sette anni da quando Barack Obama ha adoperato il crowdfunding per finanziare la campagna elettorale che lo ha coronato Presidente degli Stati Uniti d’America, rendendo “famosa” in tutto il mondo la raccolta di fondi attraverso il web. Dal 2008 in poi, sono state molteplici le realtà che hanno adoperato questa metodologia di finanziamento ottenendo in alcuni casi ottimi risultati. Quando, però, si realizza un’innovazione tecnologica ad uso civile spesso viene naturale pensare ad un precedente successo della stessa in campo militare. In questo caso, invece quello che accadde è l’inverso: piattaforme create e pensate per imprenditori, enti no profit, giovani musicisti, e, più in generale, per chiunque avesse un’idea ma non il denaro per realizzarla, hanno trovato, nei conflitti in corso, ulteriori possibilità di impiego. Le richieste di finanziamenti, in ambiti militari, hanno avuto scopi tra i più disparati. E’ il caso, per esempio, di Jason Smith, veterano paracadutista dell’82ª divisione Airborne dell’esercito degli Stati Uniti, che, nel marzo di quest’anno ha lanciato una campagna di crowdfunding con lo scopo di raccogliere i fondi necessari per partire ed unirsi con i peshmerga nella guerra contro l’ISIS. Più interessante, più che altro per i possibili risvolti futuri, è quanto accaduto in Ucraina a partire dalla primavera del 2014. Il paese nel 1991 poteva contare su un esercito di circa 900.000 unità. Alla vigilia della crisi il numero era sceso al 10% rispetto all’anno dell’indipendenza dalla Russia. Scarseggiavano, inoltre, equipaggiamenti e medicinali. Si è, così, deciso di iniziare delle campagne di finanziamento sia tramite pagine su Facebook (come Luta Sprava che in cambio di una donazione offre una t-shirt) che attraverso piattaforme come Wings Phoenix. Particolare è anche il caso di un gruppo di volontari ucraini che hanno effettuato, sempre nella primavera 2014, una raccolta fondi per l’acquisto dei componenti necessari per la costruzione di 10 droni con cui monitorare i confini del paese. Anche se non per usi puramente militari, l’utilizzo del crowdfunding trova largo impiego in quei media che decidono di assistere e narrare il conflitto in prima persona aggirando l’informazione delle agenzie di stampa. Il racconto di Pietro Suber sulla sua esperienza di inviato in Afghanistan, all’indomani dell’11 settembre 2001, hanno, infatti, fatto emergere l’inadeguatezza di un giornalismo in crisi per garantire le risorse necessarie per lo svolgimento del lavoro degli inviati, e di un informazione mediata soprattutto dai grandi network internazionali, gli unici ad assicurare assistenza logistica sul campo ai giornalisti. In uno scenario di questo tipo il crowdfunding diventa il mezzo in grado di assicurare la presenza sui media di testimonianze dirette dalle zone di crisi. E’ il caso, per esempio, de Il Giornale che già, nel febbraio 2014, aveva iniziato una raccolta fondi per il finanziamento di tre reportage: “Diario da Kiev” e “Afghanistan goodbye” di Fausto Biloslavo e “Libia, il nostro petrolio è in pericolo” di Gian Micalessin. Più che una vera e propria novità nel modo di pianificare una guerra si tratta di un modo diverso di parteciparla, che sicuramente porterà a sviluppi futuri. Resterà, infatti, da vedere se i donatori rimarranno privati cittadini con transazioni di modesta entità o se, alla fine, si faranno avanti grandi investitori con le ovvie conseguenze che quest’ultima opzione porterebbe con sé.