Libia e Mali: il jihadismo sfida l’immobilismo europeo e internazionale

Non solo da est. La minaccia jihadista incombe anche dal sud. Dall’Africa. Nel secondo weekend di marzo, Libia e Mali sono stati gli epicentri di due efferate azioni. Una di matrice Isis, l’altra firmata Al Qaeda.

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Un attacco contro il campo petrolifero di Al Ghani, a sud di Sirte, ormai controllato dallo Stato Islamico, ha provocato l’uccisione di 11 guardie, di cui 8 decapitate, ad inizio marzo. L’azione è avvenuta vicino al luogo in cui è avvenuta l’esecuzione dei 21 egiziani copti. E almeno cinque sono gli impianti di produzione del greggio, da Tripoli fino ai confini con la Cirenaica, presi di mira dai ribelli. Il tutto mentre nella Libia continua il caos politico, con il governo di Tobruk riconosciuto dall’Occidente e dalla maggior parte della comunità internazionale, contrapposto all’esecutivo dislocato nella capitale, protetto da Turchia e Qatar.

Un caos che regna anche nel vicino Mali. Sabato 7 marzo, circa 40 razzi hanno colpito il campo Onu di ‘Minusma’ nella regione di Kidal (nord est): le fonti parlano di almeno 3 morti, di cui un militare della missione internazionale. Il raid è riconducibile ai gruppi rivoluzionari che fanno capo ad Al Qaeda.

Da almeno due anni, la situazione politico-istituzionale in questo Paese è assai critica. Le Nazioni Unite, in special modo la Francia, sono presenti per aiutare il governo ad arginare le spinte jihadiste che provengono dai movimenti dislocati per lo più nel nord est dello Stato africano. Le azioni violente, infatti, sono all’ordine del giorno. Come l’uccisione di 5 persone in un ristorante della capitale Bamako avvenuta anch’essa nel secondo weekend di marzo.

La richiesta di aiuto lanciata dal premier italiano Renzi alla comunità internazionale e il recente colloquio avuto con il presidente russo Putin fanno capire come non solo l’Italia, ma l’Europa e l’Occidente debbano trovare un’intesa rapida per districare innanzitutto la matassa libica. L’Onu, per non ripetere l’errore commesso nel 2011, auspica una soluzione diplomatica e non militare. Ma i colloqui in corso tra il governo di Tobruk e quello di Tripoli devono subire un’accelerazione, al netto delle pressioni di Egitto da una parte e Turchia e Qatar dall’altra.

Giacomo Pratali

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