La Libia in amministrazione fallimentare
A vederle oggi certe realtà politiche danno più l’impressione di essere gestite in regime di amministrazione fallimentare, piuttosto che governate da istituzioni vagamente riconosciute o che abbiano qualche parvenza di affidabilità sul lungo termine.
L’intensa crisi politica e sociale che sta interessando la Libia può essere ben descritta da alcuni dati: nell’anno appena concluso sono oltre 2500 le vittime ufficiali del confronto tra fazioni (a cui andrebbero aggiunte le morti causate dalle traversate del deserto, quelle in mare ecc.), milioni di armi di vario calibro sono a disposizione della popolazione (importate o sottratte alle riserve del passato regime) e centinaia le fazioni grandi e piccole che si contendono la loro fetta di territorio, con un livello di criticità dell’intera area del Sahel libico corrispondente a quello di una zona ad alto rischio. Per intenderci, nel rating che bolla uno Stato come fallito, la Libia è a metà, a un passo dal fallimento ufficiale.
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Non che in passato questo Paese godesse di condizioni di stabilità diffusa ed ordine sociale, ma certamente la crisi terminata con la morte di Gheddafi ha fatto esplodere una bomba ad orologeria tenuta sotto controllo da esercito, polizia e accordi locali che si sono rivelati fragili e dettati da questioni di convenienza politica. D’altra parte per lo stesso Gheddafi era divenuto ormai impossibile controllare un territorio di quasi due milioni di chilometri quadrati, in larga parte disabitato e desertico che si era trasformato in una delle bocche africane dalle quali fuoriuscivano profughi diretti verso le nostre coste: dalla sua capitale non a caso situata a nord, il Ra’is controllava ben poco, ma se non altro la sua autorità politica gli consentiva di mediare per quella porzione di Libia che valesse la pensa rappresentare, considerando il caos tribale del sud. E comunque, era pur sempre un leader con cui volenti o nolenti si era tenuti a trattare. Proprio l’instabile meridione libico è al contempo compreso nella fascia centrale del deserto del Sahara e rappresenta il nord di quel buco nero, quella zona grigia che è il Sahel, riconosciuta come una delle aree più pericolose del mondo ed in cui non vi è praticamente alcuna forma di governo riconosciuto se non quello tribale, legato a traffici di armi, droga e persone.
Non solo a causa della sempre crescente presenza dei miliziani dell’ISIS ma anche per colpa di uno stato di instabilità che lo sta risucchiando, questo territorio rischia ogni giorno di più di entrare ad ogni titolo tra i cosiddetti Failed States, appellativo caro agli occidentali ma che descrive realtà statali collassate, non Paesi che da sempre si sono retti su una sorta di amministrazione fallimentare permanente (di fatto lo era con Gheddafi, di fatto lo sono molti altri governi tenuti in piedi con la forza). Queste debolezze sono alla base della facilità con cui le milizie dell’ISIS sono penetrate nella regione e sono riuscite a farsi largo tra le varie fazioni. Inoltre, in una nazione in guerra come la Libia affannata internamente da una tendenza all’implosione incontrollata ed esternamente dalla sfida al ribasso lanciata sul petrolio oltre che alle influenze degli Stati confinanti e non, il controllo della produzione di greggio resta un’incognita enorme ed allo stesso tempo un’importante partita non solo per i partner esterni. Da esso si sono scatenate rivolte interne, ammutinamenti, da esso dipende la credibilità del futuro governo o della futura coalizione nonché la tenuta del patto civile interno alla Libia stessa.
L’evoluzione della situazione che ha reso più potenti alcune fazioni (vedi i gruppi che controllano la zona di Misurata) non ha portato ad un indebolimento di altre, ragion per cui lo scontro fra ribelli pre e post Gheddafi è ancora molto vivo. Sono in molti a ritenere propria la fiaccola di paladini della libertà o a dichiararsi eredi della Primavera Araba e nessuno è disposto a cedere lo scettro, tanto più quando c’è di mezzo lo scontro tra esponenti dell’antico regime ed islamisti. A questo punto ci si è arrivati anche a causa agli scontri avvenuti nel 2014, che hanno visto come risultante un ricompattamento del fronte islamista da un lato (antichi gruppi fomentati dall’ondata fondamentalista), contrapposto al fronte anti islamista o progressista dall’altro. Questo rapido inasprimento delle violenze ha avuto tra le cause principali la lotta per il controllo del governo (di qui il fallito tentativo di golpe del generale Haftar). Ad oggi si contano oltre mille gruppi armati a contendersi il territorio o una qualche minima fonte di legittimità. A calmare la situazione non sono bastati i governi succedutisi in questi ultimi anni che, anzi, non hanno potuto fermare le guerre fratricide di chi da una parte o dall’altra si proclama erede della rivoluzione e non hanno potuto fermare neanche esecuzioni, rapimenti, omicidi che giornalmente si sono compiuti. Attualmente, nel rispetto della geografia del Paese, a ovest del golfo di Sidra nella capitale Tripoli si è insidiato un governo islamista e ad est del golfo, nella zona di Tobruk il governo di al Thani e del generale Haftar. Quest’ultimo ha un passato interessante, trascorso in parte negli USA dove emigrò per poi ritornare per il fallito colpo di stato e autoproclamandosi principale bastione contro le milizie islamiste. Accusato di essere agente della Cia, è però parte dell’esecutivo attualmente riconosciuto dalla comunità internazionale e più o meno apertamente appoggiato dal vicino Egitto (che dal canto suo teme la nascita di basi di addestramento dello Stato Islamico al confine con il suo Egitto).
In tutto il resto della nazione è anarchia, che rischia di fagocitare anche i due grandi competitors.
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