La guerra di informazione siriana
Si chiama “rapporto delle falsificazione dell’informazione” ed è stato stilato dal Governo Assad per elencare gli episodi rimbalzati sui video delle principali emittenti arabe e ripresi dai mass media occidentali costruiti appositamente per provare le brutalità del regime contro gli oppositori. Parliamo di tivù come Al Jazeera, Al Arabiya, per citare le più importanti, supportate dai finanziamenti di quella fetta di mondo che comprende Arabia Saudita, Qatar e offre spazio anche alla Turchia.
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Paesi che il Governo Assad ha identificato come i nemici dai quali partono gli input e soprattutto il denaro per foraggiare quel terrorismo che fa male alla Siria e al suo popolo e si traveste con i colori grevi di una opposizione interna in realtà pressoché sbiadita e inesistente per non lasciare trasparire la sua vera natura di intransigente fanatismo, importato semplicemente per creare disturbo e intorbidire le acque. E’ l’opinione di Elias Murad, presidente dell’Unione siriana di giornalisti. Murad parla di un servizio televisivo ritoccato per cambiare i colori delle bandiere sostenute dal popolo e trasformare una manifestazione da filo-governativa quale era, al suo esatto opposto. E di una riunione governativa di piazza a Damasco affollata di gente proveniente da villaggi anche lontani che ha preferito tornarsene a casa al mattino successivo, scelta che ha assunto, nei servizi realizzati, i connotati di una massa dispersa per volontà di Assad. Il bilancio tracciato trasuda i toni del bollettino di guerra. “Fino ad ora – racconta – sono stati uccisi 30 giornalisti siriani ed in 10 sono stati rapiti. Durante il massacro di Adra, nel dicembre scorso, i corpi di alcuni colleghi sono stati utilizzati come barriere dai terroristi per proteggersi dai colpi. In questi anni di crisi, a 50 giornalisti sono state distrutte telecamere e macchine fotografiche. Altri sono stati feriti e non possono più camminare, altri sono stati rapiti e poi liberati dall’esercito. Quattro mesi fa, la sede siriana dell’emittente Al Manar a Damasco è stata colpita da due autobombe. La prima si è schiantata contro la barriera che ne protegge l’entrata, l’altra è riuscita a varcarla ma fortunatamente non è esplosa”. La Siria, in base alle statistiche, occupa uno dei posti al vertice della classifica che mette in fila i paesi in cui più pericoloso è fare il mestiere di giornalista. Accanto ad un terrorismo concreto, fatto di spari, massacri, uccisioni, Murad parla di “terrorismo mediatico” che non conosce bandiere e tantomeno religioni. Come il blocco imposto di fatto dall’Unione Europea al segnale della tv siriana che Murad ritiene un pessimo esempio da parte “di paesi che vogliono esportare la democrazia. I giornalisti – continua – devono poter ascoltare tutte le parti”. Certo è che la crisi siriana ha influito sulla pluralità dei mezzi. Degli oltre 35 quotidiani presenti nel paese prima delle crisi ne sono rimasti oggi soltanto una ventina. Migliore è la situazione del giornalismo elettronico. Attualmente sono on-line un centinaio di siti di informazione, 40 dei quali hanno ottenuto il permesso governativo ed quindi sono riconosciuti. All’elenco si aggiungono 22 radio e 7 tivù.
Monia Savioli
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