L’UOMO DEI BOTTONI
Intervista con Giordano Maioli apparsa su “SuperTennis” del febbraio 2006
di Giancarlo Baccini
In principio, era Nicola. Nicola Pietrangeli, chiaro. Poi, dieci anni dopo, fu Adriano. Adriano Panatta, ovvio. E nel frattempo?
“A contrastarlo (Nicola, ndr), qualche volta addirittura a batterlo, vennero allora due ragazzi lombardi, Sergio Tacchini e Giordano Maioli. – racconta Gianni Clerici nella Bibbia dei tennisti, “500 anni di tennis” – Di ottima razza, di estrazione borghese, Sergio e Giordano non ebbero in dono dagli dei le armi fatate di Nicola, ma ci rappresentarono sempre con dignità. Tacchini batté addirittura Cliff Drysdale in Davis. Maioli diede una prova di grande educazione sportiva, quando un capitano, Vasco Valerio, gli attribuì responsabilità che erano soltanto effetto della cattiva conduzione della squadra”.
Tacchini e Maioli, già. I bravi ragazzi degli anni ’60, i dioscuri della transizione, i bottoni che hanno tenuto assieme due lembi del tennis italiano. In realtà, i due erano un po’ meno gemelli di quanto non li abbia dipinti Clerici. Maioli, per esempio, non è lombardo ma emiliano, visto che è nato e cresciuto a Piacenza. Però è davvero singolare che i loro percorsi terreni abbiano finito per srotolarsi paralleli come binari, depositandoli nella stessa stazione di arrivo, la poltrona di capo di un’azienda di abbigliamento sportivo, dopo una serie di fermate intermedie quasi identiche. O forse no, in tutto questo non c’è niente di singolare, perché era quasi inevitabile che due persone intelligenti e abituate a vincere ragionando finissero per diventare catalizzatori del successo sociale e commerciale che sarebbe arriso al tennis degli anni ’70, un tennis che d’altronde era un po’ anche figlio loro.
Maioli, dunque. Giocatore, dirigente, tecnico e infine industriale. Sempre all’insegna del successo. Ma con discrezione, senza niente di eclatante, di esplosivo, di rumoroso. Sempre con educazione e senso delle proporzioni, col gusto emiliano per la vita – celeberrime, e irresistibili, le sue barzellette – ma anche, come dice Clerici, con la dignitosa operosità dei lombardi. Piacenza, d’altronde, è lì, sul confine, e i piacentini sono inevitabilmente borderline a loro volta.
“Mi sono innamorato del tennis di riflesso, perché chi il tennis lo amava davvero era mio padre – racconta lui, con quel sorriso che sembra tradire al tempo stesso timidezza e furbo understatement – A me, in realtà, piaceva il tennis da tavolo e non avevo molta voglia di darmi a un altro sport. Invece mio padre insistette, mi portò in campo, mi iscrisse a una scuola. E mi contagiò. Allora non si cominciava da piccolissimi, come adesso. Si cominciava a 10-12 anni. Quel gioco mi piacque subito. E fu una fortuna”.
-Che cosa ti colpì di più, nel tennis?
“Naturalmente, la passione per uno sport è legata anche alla capacità di fare risultati. Io mi rivelai subito abbastanza in gamba. Vincevo. E vincere è bello, no? Ti motiva, ti spinge, ti ripaga dei sacrifici. Pure il fatto di essere conosciuto e apprezzato è una componente decisiva nella costruzione del rapporto fra te e quel che fai. Non importa il livello della fama: a me dava soddisfazione anche la notorietà che mi ero conquistato fin da ragazzino nella mia provincia.
“Questo gusto non mi avrebbe abbandonato neppure quando, crescendo e migliorando, sarei diventato un ‘professionista’, anche se allora non ci chiamavano così. Il fatto di girare il mondo per giocare nei tornei, di essere popolare, di ricevere applausi e sostegno, di dialogare in tante lingue mi affascinava davvero. E anche il tennis in sé era affascinante, anzi: più il livello tecnico era alto e più spinta agonistica provavo, più adrenalina mi godevo. Il momento della gara era quello della mia massima gratificazione”.
-Quando hai capito che saresti diventato forte?
“Dico la verità: abbastanza presto. A 17-18 anni ero già campione nazionale juniores e mi ero avvicinato di un bel po’ ai big. Poi son diventato prima categoria, ho cominciato a fare anche attività internazionale e, insomma, a vent’anni ero nel giro della maglia azzurra, in Coppa Davis, a contatto con mostri sacri come Pietrangeli, al quale non riuscivo a non dare del lei neppure quando ci palleggiavo insieme. Sai, lui aveva trent’anni, io dieci di meno… E poi, oh, quello era Pietrangeli! Stare in mezzo a gente come Nicola era fantastico, impagabile”.
-Sbaglio o, aldilà degli aspetti puramente sportivi di questa ‘fascination’, in te c’era l’eccitazione per il glamour del tennis, per il suo alone mondano?
“Sì, sì, un po’ anche questo. Vedi, a quell’epoca (anche se poi non era proprio così, anzi…) il tennis passava per uno sport elitario. Forse non me ne rendevo del tutto conto, ma questa componente,a ripensarci bene, ha avuto un ruolo importante nell’orientare la mia passione. E’ umano, provare sentimenti così. Sai, i club non erano molti, gli impianti pubblici erano rarissimi, e ciò contribuiva a farci sentire un pochino degli eletti anche se non lo eravamo”.
-Che tipo di giocatore eri?
“Uno regolare. Non avevo colpi superlativi. Non che mi mancasse del tutto il talento. Ne avevo a sufficienza per figurare fra i migliori italiani ma non per svettare anche in campo internazionale. Non sono mai stato fra i primi 15-20 giocatori del mondo. Non che non potessi dire la mia, in campo. A Pietrangeli potevo tenere testa, e l’ho pure battuto più di una volta, però lui era un’altra cosa e i miei successi su di lui erano più demerito suo che merito mio. Nel tennis è importante essere realisti, conoscere se stessi e l’avversario: è questo che ti consente di cogliere le occasioni che ti si presentano. Ma solo se si presentano…”
-Se ti chiedessi di paragonarti a un giocatore italiano di oggi?
“Mah, dal punto di vista tecnico direi Seppi, che non ha un talento straordinario ma fa buonissimi risultati. Volandri, invece, secondo me ha tantissimo talento ma non ha ancora raggiunto i risultati alla sua portata. Speriamo che ci riesca presto”.
-Quando hai cominciato a capire che il tennis avrebbe potuto continuare ad essere la tua vita anche quando avessi smesso di giocare?
“Beh, inizialmente non è andata proprio così. Io ho smesso di giocare ad appena 24 anni perché l’impegno era da professionista ma non così i guadagni, né l’ambiente attorno al tennis era così professionale da spingere un giovane a programmarsi un’attività futura al suo interno. Dal punto di vista economico, insomma, non c’erano né struttura né prospettive. Quindi quando mi sono messo a lavorare ho cominciato occupandomi di tutt’altra cosa”.
-Cioè?
“Di bottoni”.
-Bottoni?
“Sì, bottoni. Moda, intendiamoci”.
Logico. Anzi: inevitabile, a vederla a posteriori…
-E…
“Ci sono voluti otto anni prima che il tennis mi offrisse l’occasione di occuparmene da professionista, valorizzando l’esperienza che ormai mi ero fatto nel settore dell’abbigliamento. Fui contattato da un paio di aziende del settore, aziende che stavano crescendo grazie alla diffusione della pratica del gioco, che mi offrirono di lavorare nel settore della promozione. Accettai, perché così potevo tornare nel mio mondo, quello dello sport in generale e del tennis in particolare. Da cosa nasce cosa, e alla fine mi sono ritrovato proiettato nel cuore del business vero e proprio. Ormai il tennis aveva raggiunto ben altra dimensione rispetto ai tempi miei, e c’era bisogno di esperti che se ne occupassero in maniera professionale. La possibilità di giocare indossando indumenti colorati anziché soltanto di bianco ha rappresentato una delle svolte che hanno contribuito a sviluppare il mercato dell’abbigliamento tennistico, stimolando le aziende a competere fra loro”.
-Ed ecco l’Australian…
“Oh, intendiamoci. L’Australian è nata nel 1952… Sebbene sia sempre stata italianissima si chiama così perché già all’inizio degli anni ’50, prima cioè dei Laver, degli Hoad e dei Rosewall, erano gli australiani a dominare il mondo del tennis con Sedgman e McGregor. E poi il canguro era un bel marchio, carino, originale… Io sono entrato in azienda nel 1976 e mi ci sono trovato talmente bene che quest’anno celebreremo trent’anni di matrimonio. In tutto questo tempo non sono mancati gli alti e i bassi, com’è naturale, ma il bilancio complessivo è molto soddisfacente. Noi siamo un’azienda che trae linfa soltanto dal tennis, perché, pur producendo una linea per il tempo libero, non facciamo materiale per altre discipline sportive. E siamo contenti di questo. Anche il rapporto di sponsorizzazione che ci lega alla FIT si sta sviluppando bene, e siamo sicuri che le squadre azzurre ci forniranno un importante contributo di immagine. Per il resto, abbiamo avuto sotto contratto giocatori importanti quali Lendl, Korda, Ivanisevic, Smid, Jarryd. Tutti accordi che ho fatto io personalmente. Tra gli italiani il nostro testimonial di maggior successo è stato Paolo Canè, che specie in Coppa Davis seppe ritagliarsi spazi davvero esaltanti. Ora abbiamo molti ragazzini in gamba anche se nessun campione di primissima schiera”.
-Come scegli i giocatori cui offrire un contratto?
“C’è sempre, com’è ovvio, una componente di gusto personale. Forse certe volte pecco di autoconsiderazione, perché se mi piace come gioca un ragazzo, se mi piacciono i suoi colpi, dico, tendo a sopravvalutare questa componente rispetto a tutte le altre. Ho la presunzione di capire al volo se uno può diventare un campione, anche se so benissimo che portare i colpi con classe ed efficacia non è sufficiente, perché prima di tutto ci vuole la testa e se uno diventerà un giocatore vero è impossibile dirlo a colpo d’occhio”.
-Ma insomma, qual è la cosa migliore che pensi di aver fatto in una vita trascorsa nel tennis e per il tennis?
“Io mi sento sempre giocatore, prima di tutto. Mi è piaciuta molto anche l’esperienza di capitano non giocatore, che mi ha permesso di assistere dalla panchina il mio idolo Nicola e, in Coppa Davis, quei ragazzi che poi la Davis l’avrebbero vinta. E’ stato molto gratificante, anche perché eravamo un gruppo unito e affiatato, stavamo bene insieme e riuscivamo pure a divertirci. Sono ricordi meravigliosi. Però, ripeto, le cose più belle che mi porto dentro sono tutte legate alla mia attività di giocatore”.
Ci credereste se vi dicessi che Giordano, pur ricordando di aver guidato dalla panchina Pietrangeli, aveva dimenticato che in quell’occasione l’Italia aveva conquistato la Coppa del Re di Svezia quando questa competizione era importantissima? Era il 1972, ad Ancona, per la semifinale contro la Cecoslovacchia, alle 3 di notte c’erano ancora duemila spettatori, e mai, prima della “cena” che seguì quel romanzesco trionfo, le sue barzellette erano state altrettanto irresistibili….