GALEAZZI, LA VOCE DELLA RACCHETTA
Intervista a Giampiero Galeazzi, da “SuperTennis” del giugno 2005
di Giancarlo Baccini
Giampiero Galeazzi voga verso i sessanta con la prorompente vitalità di sempre. Da 35 anni racconta lo sport con lo stesso mix di competenza e tifo, di goliardica baldanza e sensibilità umana, di humour e passione. Certe sue telecronache olimpiche sono entrate nella leggenda della televisione, e anche se oggi la nuova Rai persiste autolesionisticamente nell’affidargli ruoli da intrattenitore più che da giornalista, la sua popolarità non ne è scalfita, anzi. Non c’è emittente radiofonica che non punti sulle prodezze lessicali di un qualche suo imitatore, tanto da darti l’impressione che non ci siano più che un’unica stazione e un’unica voce, la sua. Essere imitati è una consacrazione.
Galeazzi è stato il testimone televisivo degli anni d’oro del tennis italiano. Una storia cominciata quasi per caso.
“Appena laureato tutto volevo fare meno che il giornalista. – racconta – Anzi, io i giornalisti li odiavo. Facevo canottaggio, e quando ascoltavo qualche telecronaca l’incompetenza era tale da farmi provare umiliazione. Però, come spesso succede nella vita, poi è andata a finire che ho fatto il giornalista. Dice: perché? Perché all’epoca collaboravo un po’ con il giornaletto federale, solo allo scopo di far circolare le informazioni nel nostro ambiente, e fui chiamato dal Giornale Radio regionale del Lazio per portargli i risultati di canottaggio delle gare che si facevano qui vicino a Roma, a Castelgandolfo. Sai, di canottaggio a quell’epoca nessuno sapeva niente… Così cominciai a frequentare la redazione della Rai, che stava a Via del Babuino, e rimasi folgorato da mostri quali Ciotti, Ameri, Moretti, gente che ti faceva venire i brividi per come padroneggiava il microfono. E, a dispetto dei miei progetti e di quelli di mio padre, che mi organizzava colloqui al Banco di Napoli, al Banco di Sicilia e via dicendo, finii per diventare il loro ragazzo di bottega ”.
– E il canottaggio?
“Beh, successe che, dopo aver vinto qualche titolo italiano e il Mondiale juniores di singolo, dopo aver fatto parte della squadra olimpica per Mexico ’68 ed essere stato inserito in quella per Monaco ’72, fui squalificato. Mi punirono perché mentre ero in preparazione, per 200.000 lire al mese mi misi a giocare a pallone a Maccarese, in un campionato dove c’erano avanzi di galera e ex calciatori tagliagole, e uno di questi angioletti mi ruppe un ginocchio, facendomi perdere i mondiali in programma dopo pochi giorni in Canada e mandando in fumo l’investimento che era stato fatto su di me. Lì praticamente finì la mia carriera agonistica e cominciò quella giornalistica. Moretti cominciò a portarmisi dietro in occasione dei grandi avvenimenti, e intanto scribacchiavo sui giornali. Sul ‘Messaggero’, per esempio, facevo una rubrica – ‘La vita dei Circoli romani’ – che fu la prima di questo tipo mai apparsa su un quotidiano. Credo che tu, che la inventasti, te lo ricordi bene…”.
–Mi ricordo di altre cose, che abbiamo fatto insieme al “Messaggero”…
“Eh, sì!… Le Olimpiadi. La rubrica ‘Il microfono di Galeazzi’. E poi, quando ero ormai da tempo in tv, lo scoop sul silenzio stampa degli azzurri ai Mondiali di calcio del 1982”.
–Ma il passaggio alla televisione come avvenne?
“Guarda, alla radio guai a chi mi toccava, perché da bravo ragazzo di bottega stavo sempre lì dentro, dalle 8 alle 8, e insieme a Duccio Guida lavoravo per tutti senza parlare né di soldi né di orari. Mi piaceva. Nel 1976, però, arriva la riforma della Rai. TG1 e TG2 vengono sdoppiati e tutti quelli che facevano sport decidono di andare al TG2 con Maurizio Barendson. Al TG1, invece, il direttore era Emilio Rossi, che di tutto si intendeva e interessava tranne che di sport. Rossi non voleva mai pezzi di sport, proprio come ‘La Repubblica’, che quando uscì non aveva neppure l’edizione del lunedì. Di sportivi aveva con sé solo Tito Stagno, che però stava sempre a Cortina a prendere il sole, e Sandro Petrucci. Prese pure Paolo Rosi, che però era telecronista e si rifiutava di lavorare in redazione. Insomma, serviva una ragazzo di bottega pure lì e Rossi, che mi aveva conosciuto al GR2, a un certo punto mi fa chiamare da una segretaria che mi dice: ‘Lei da domattina è in servizio al TG1’. ‘Guardi che domattina alle 6 io devo fare il giornale radio’, rispondo io. Allora la segretaria mi passa il direttore, e lui si mette a sbraitare, picchiando il pugno sul tavolo. Rossi era potente: il giorno dopo stavo al TG1. I colleghi della radio ci misero qualche tempo, a perdonarmi: sai, a quell’epoca i televisivi giravano con due automobili a testa e i radiofonici in bicicletta… E invece non è che io, lì, mi divertissi troppo. Niente macchina né bicicletta, e oltretutto facevo venti pezzi al giorno ma in onda non ne mandavano mai uno. Niente. Sul nostro tiggì lo sport era tabù. Ci volevano pesanti interventi dei commandos laziali o romanisti interni per far sì che ogni tanto si parlasse di calcio. In compenso c’era la ‘Domenica Sportiva’, che all’epoca andava ancora forte, e Tito Stagno, che la curava, mi lanciò come inviato. Andavo in giro col cappellone, ti ricordi? Ed ebbi modo di lavorare con maestri come Beppe Viola…”.
–Di tennis si occupava Guido Oddo, no? Era lui il telecronista del boom del tennis italiano.
“Sì, certo. Grande Guido… Quando veniva a Roma per gli Internazionali faceva subito l’abbonamento a qualche stabilimento balneare di Fregene, in modo da avere sempre una sdraio pronta sulla spiaggia. Se ne stava ad abbronzarsi dalle 9 alle 13, quand’era ora di venire a fare le telecronache. Amava il Foro Italico perché così vicino a Fregene e perché tanto, nella buca del Centrale, c’ero io a coprirlo sia quando lui prendeva il sole qualche minuto in più sia quando il sole calava sulle statue del Centrale e lui cominciava a essere stanco. Un gran signore, Guido. La mia carriera di voce del tennis lo devo tutta a lui”.
– Con Oddo veniste anche in Cile, quando vincemmo la Davis… O mi ricordo male?
“No, no. Non venimmo. Ce lo proibirono. Ti ricordi il casino per via di Pinochet, no? La telecronaca la facemmo via tubo, da Roma. Anzi, dovevamo registrarla per farla in differita. Solo che il sabato, quando il doppio azzurro fece il punto della vittoria, Guido fu tradito dall’emozione. Guardando in bassa frequenza Nicola che piangeva, Panatta mezzo svenuto e tutti quella gente che zompava di gioia non ce la fece a trattenersi e rivelò il trionfo in diretta con un paio d’ore di anticipo”.
–Così cominciò la tua lunga avventura…
“Sì, la conquista della Coppa proiettò il tennis nel paradiso della televisione. Prima, a parte la Davis e gli Internazionali, la Rai non faceva altro. Quando Panatta vinse Parigi mica c’era la diretta. Ma poi… Guido andò in pensione nell’81, dopo Wimbledon. Sono sicuro di essere stato il telecronista italiano con più ore di diretta sul groppone. Commentavo per sette-otto ore di seguito, giorni e giorni di seguito. E senza alcuna spalla, perché allora non usava. Ma ho avuto la fortuna di vivere dal di dentro quell’epoca fantastica. Gli italiani, Borg, McEnroe. Anni e anni in trincea: il tennis ha segnato più di qualsiasi altro sport la mia vita professionale, contribuendo a creare quello che ancora oggi è il mio personaggio. Caldo, emotivo, partecipe dell’evento che racconta, nel bene e nel male. Le lodi più belle per quell’epoca le ricevo adesso, dai quarantenni. Mi dicono: ‘Ma lo sai che la tua voce ha accompagnato la mia adolescenza? Tornavo da scuola, accendevo la televisione, e c’eri tu. Mi mettevo a studiare e quando riaccendevo c’eri ancora tu. Andavo a fare sport e quando tornavo eri sempre lì’.
“Certo, era un’altra tv. Ma la forza del tennis italiano era tale da permettere alla Davis di rompere i palinsesti, di incunearsi nei telegiornali, di prendersi i titoli d’apertura. Oggi non sarebbe più possibile. C’è la concorrenza e il palinsesto è ferreo. Però se i nostri arrivassero alle fasi finali dei tornei del Grande Slam, o facessimo una semifinale di Davis con gli Usa, sono convinto che il tennis farebbe di nuovo un gran botto anche in tv. E non basterebbe l’Olimpico per contenere tutta la gente che vorrebbe venire. La passione per il nostro sport è sempre lì: cova sotto la cenere. C’è solo bisogno di chi ci butti sopra un po’ di legna ”.
– La tua passionalità non andò esente da critiche…
“Eh, vabbè!!! E che devi fa’, in Coppa Davis? Il tifo per gli avversari? E’ logico che uno si scalda, no? Però con me la critica è sempre stata più tenera che con Guido Oddo. A lui, che pure era un telecronista di vecchio stampo, perciò il più possibile cauto e formale, non ne perdonavano una. Con me erano più indulgenti”.
– Prima di diventare telecronista il tennis lo conoscevi già bene per motivi di circolo, no?
“Certo. Oltre che esserne stato atleta, io del Circolo Canottieri Roma sono socio dalla notte dei tempi. E Canottieri Roma vuole dire Nicola Pietrangeli, Carlo della Vida, Scribani, Jacobini. Gente che ha fatto la Coppa Davis. Piccari. Tommasi. Olivieri. Più tardi Orecchio. I Bartoni. C’era più tradizione tennistica che remiera. Durante gli Internazionali venivano tutti qua, ad allenarsi. Il tennis, insomma, ce l’avevo nel sangue. Giocavo, anche. Da nc ho fatto la Coppa Italia e la Facchinetti. A naso si direbbe che tennis e canottaggio sono due sport che più diversi non si può, uno muscolare e l’altro raffinato, e invece no, ti giuro che certe volte ho visto la Madonna sulla terra rossa così come la vedevo sull’acqua. Poi magari scendevo le scalette che portano giù al fiume, sul galleggiante, e andavo lo stesso in barca”.
–Tu hai visto e giudicato quasi tutti gli sport del mondo, praticandone parecchi. Che cos’è che contraddistingue il tennis dagli altri?
“Guarda, il tennis ho avuto la fortuna di frequentarlo da vicino ai tempi dei grandissimi campioni degli anni 60 proprio qui al circolo. C’erano volte che venivano ad allenarsi gli australiani. Mi ricordo Laver ed Emerson che sotto il sole più cocente passavano ore e ore a bombardare col servizio dei cartoni di palle messi dall’altra parte della rete come bersagli. E intanto Nicola, qui, giocava a peppa fin verso le sette di sera e poi scendeva a palleggiare con il fresco. Lì cominciai a capire che il tennis non era uno sport per fighette. Poi, viaggiando e tastando con mano, ne ebbi la conferma ai quattro angoli del mondo. Il tennis non è un gioco. E’ una disciplina dura per il cervello e per il corpo.
“Credo che anche in Italia si sarebbe potuta affermare una cultura ‘all’australiana’, ma purtroppo il boom del tennis degli anni ’70 da noi fu sfruttato a fini speculativi e non sportivi. Si preferiva stipare i ragazzini in campo a pagamento anziché dedicarsi a farli crescere davvero. Chi avrebbe dovuto fare formazione si trasformò in industriale, mentre le società sportive, i circoli, si riempivano di quarantenni e toglievano i campi ai bambini. E’ allora che abbiamo perso il treno, permettendo che il solco che separava i quattro vincitori della Davis dal resto degli italiani si allargasse proprio nel momento in cui il tennis era diventato uno sport popolare. La passione che ribolliva sugli spalti del Foro Italico, dove si affollavano tifosi così accesi da far impallidire quelli del calcio, non fu mai canalizzata nella giusta direzione. Vero, non c’era un pubblico ‘wimbledoniano’, come avrebbero voluto Clerici e Tommasi, però c’era gente che magari non mangiava pur di comprarsi il biglietto. Energia pura che è andata dispersa”.
–Fra gli azzurri di oggi chi preferisci? Che ne pensi di Volandri? A chi lo paragoneresti, fra i tennisti italiani dei tempi tuoi?
“E’ molto up-and-down. Certe volte ti esalta e certe ti deprime. Mi piace, ma un po’ mi manda ai pazzi, come diciamo a Roma. Mi ricorda il soldatino Barazzutti, il cui tennis era tutto disciplina e sudore”.
–Starace?
“Grande carattere. Però quanto a tennis ha ancora dei buchi neri. E’ il carattere che gli permette di vincere a dispetto di quei buchi. In questo mi ricorda Ocleppo”.
–E le ragazze? Nessuno ne parla mai…
“Fantastiche. Lavorano in silenzio e fanno grandi risultati. Però bisogna prendere atto che la Fed Cup non è la Davis. La Davis è uguale da più di cent’anni. La Fed Cup e molto più giovane e cionostante l’hanno già cambiata mille volte. E’ questo, il loro problema”.