GIULIANO AMATO: POLITICA E TENNIS
Giuliano Amato, Ministro degli Interni, è l’uomo del giorno. Penso dunque possa essere interessante rileggere l’intervista che mi rilasciò perché venisse pubblicata sul numero di giugno 2006 del mensile federale “SuperTennis”
“MAGARI LA POLITICA
FOSSE COME IL TENNIS”
di Giancarlo Baccini
Giuliano Amato è uno di quegli uomini piccoli fuori e grandi dentro, tanto grandi da avere spazio a sufficienza per un sacco di cose. Tra le cose meno voluminose, ma non per questo meno ingombranti, che Amato si porta dentro c’è sicuramente il tennis, che egli pratica e ama sin da bambino e che oggi lo vede attivo presidente di un attivissimo Circolo, quello di Orbetello, quattro campi che stanno per diventare otto. Per parlare di tennis, il presidente Amato accetta di sottrarre, non senza ghiottoneria, uno spicchio tempo all’agrodolce arancia della politica. Le due passioni non sono, almeno in lui, inconciliabili.
“Eh, sì – racconta, per spiegare – Cominciai a giocare a tennis per strada, con un amico, quando avevo dieci-undici anni. A quell’epoca c’erano ancora strade dove due ragazzini potevano tirarsi palline con una racchetta dalle tre alle cinque del pomeriggio senza che passasse una sola macchina. Poi approdai ai campi veri e propri. Un minimo di talento ce l’avevo e arrivai a sostenere le piccole fatiche agonistiche delle competizioni fra circoli. Ci portava in giro a giocare, con la macchina, un avvocato appassionato di tennis. Talvolta ci spostavamo in autobus. Fu così che m’innamorai di questo sport.
“Certe volte, con un po’ di presunzione, penso che se avessi seriamente coltivato il tennis magari sarei potuto diventare un buon giocatore. Invece mi sono messo a fare cose diverse e così quando oggi sono in campo ho sempre la sensazione che avrei potuto far molto meglio di ciò che faccio, che non è un granché… Inoltre, invecchiando e rimanendo appassionato di tennis come sportivo oltreché come praticante, mi sono accorto che ero e sono capace di passare tre ore a guardare una partita di tennis mentre non resisterei dieci minuti davanti a una partita di calcio.
“Da italiano ho constatato, come altri, che abbiamo un grande bisogno di far emergere tutti i talenti di cui potenzialmente disponiamo e dunque di coltivare il più possibile il tennis giovanile. In fondo è stato proprio questo che mi ha spinto ad assumere la presidenza di un circolo e ad orientarlo da una parte verso l’addestramento dei più piccoli e dall’altra verso l’organizzazione di tornei che, oltre a essere spettacolari in sé, potessero funzionare da richiamo per i giovanissimi e stimolarli a dedicarsi al nostro sport. Il mio sogno è di vedere a Wimbledon, un giorno, tanti italiani quanti argentini si sono visti quest’anno al Roland Garros”.
– Cosa pensa sia mancato, al tennis italiano, perché lei potesse aver già coronato questo sogno?
“Beh, intanto va detto che abbiamo avuto una Federazione che per decine di anni ha fatto il verso al mondo della politica. Troppi litigi, troppe contrapposizioni. Questo alla lunga finisce per pesare sul funzionamento di un’istituzione. Poi per ragioni che mi sfuggono: non ho vissuto il tennis sufficientemente dall’interno. Ma, ripeto, la mia impressione è che non si sia sufficientemente coltivato il serbatoio. Infine ci sono anche fatti oggettivi che hanno avuto un loro peso. Mi spiego meglio: io sono fra quelli convinti che quando il nostro Paese era un po’ più povero si trovavano più giovani disposti a fare sul tennis una scommessa di vita. Via via che cresceva il benessere, invece, ci siamo trovati con ragazzi che imparano dal maestro e quando hanno imparato abbastanza per fare buona figura al circolo si fermano e si dedicano ad altre cose. Intendiamoci, si tratta di uno sviluppo positivo per il Paese: non sto dicendo che stavamo meglio quando eravamo poveri. Sto dicendo che quando manca la spinta “sociale” devi intervenire tu, organismo istituzionale, a promuovere fra i giovani condizioni che li ‘portino a…’.
“E’ proprio da questo punto di vista che, mi pare, c’è stata una prolungata assenza della Federazione e che soltanto di recente quest’ultima abbia modificato il suo approccio al problema, lanciando i Piani Integrati di Area. Sono stato fra i primi a verificare in concreto il buon funzionamento dei P.I.A. Ma il fatto che si sia finalmente sentita l’esigenza di dar vita a un progetto di questo tipo sta a dimostrare che prima non s’era fatto abbastanza.
“Aggiunga un terzo elemento che inconfutabilmente conta. L’effetto imitativo è importantissimo per creare attaccamento a uno sport. Se hai dei grandi campioni che stanno sulla scena mondiale questo effetto è elevato, quando li perdi i ragazzi guardano altrove. E’ capitato al tennis, ma anche ad altri sport. Pensi solo allo sci”.
– Lei che è un uomo di Stato non crede che ci sia anche una responsabilità delle istituzioni nel tenere i giovani lontano dallo sport praticato?
“Il problema c’è, e naturalmente riguarda la Scuola. La nostra è una Scuola che soltanto ora, raggiunto il traguardo dell’autonomia, grazie alle singole iniziative degli insegnati che ci credono ha cominciato – sia pur a macchia di leopardo – a riscoprire lo sport come grande fattore formativo. Ma è indiscutibilmente vero che nella nostra tradizione di Scuola centralizzata dal centro non sono mai venuti particolari impulsi perché accanto al greco, al latino o alla storia venisse coltivato e insegnato lo sport. Al di fuori di ogni retorica, lo sport è formativo da tanti punti di vista, a cominciare dal fatto che, mettendoli assieme, evita ai giovani i rischi della solitudine”.
– Tornando a noi: com’è successo che ha accettato di diventare presidente di un circolo?
“E’ successo perché io vivo in Maremma, ad Ansedonia, ormai da trent’anni. Per giocare a tennis cominciai perciò a frequentare regolarmente il club di Orbetello, dove c’era un clima particolarmente simpatico perché il circolo era, ed è, mio, dell’infermiere, del commercialista, del dottore, insomma di gente che ama il tennis ed è attaccata all’ambiente. Siamo tutte persone che con il loro volontariato hanno fatto del club un vero luogo di incontro e di vita sociale. A un certo momento i consoci me lo chiesero, e io accettai volentieri perché mi piaceva assumere un ruolo anche organizzativo, avendo nella testa l’idea di cui accennavo prima: puntare ai giovani raccordandosi con la Scuola e organizzando eventi. Ecco perché sono rimasto così soddisfatto nel vedere che l’anno scorso alla nostra scuola tennis si sono iscritti 90-100 bambini. Magari non tutti continueranno per sempre a giocare, ma se fra loro ce n’è qualcuno con delle qualità noi saremo in grado di scoprirlo e lo potremo così incoraggiare a impegnarsi a fondo.
“Per quanto riguarda i tornei internazionali, devo dire che l’iniziativa è purtroppo partita, anni addietro, in seguito a un evento doloroso. Uno dei nostri soci più in vista, il dottore commercialista Benito Grassi, morì, inaspettatamente perché era ancora giovane, facendo footing. Questo ci gettò nella costernazione, ma ci spinse anche a trovare un modo per ricordarlo. Poiché Grassi amava moltissimo il tennis, decidemmo di dar vita a un torneo importante che fosse intitolato al suo nome. Cominciammo con un torneo WTA da 10.000 dollari, trovando anche gli sponsor. Avemmo subito una buona partecipazione, con giocatrici fra la centesima e la quattrocentesima posizione in classifica mondiale, e col passare degli anni questa cosa si è consolidata. Grande interesse di pubblico. Grande capacità di gestire in modo familiare, direi quasi affettuoso, il rapporto con le giocatrici, facendole sentire a casa loro e spingendole così a ritornare ad Orbetello, magari in compagnia dei genitori, come è talvolta accaduto con qualche ragazza dell’est europeo che non disdegnava la mensa del circolo e restava volentieri anche se perdeva nei primi turni…
“Nato bene, il torneo è cresciuto meglio. Ora è diventato un bel 75.000 dollari e, in appena dieci anni, si è ritagliato un suo posticino fra i tornei di un certo rilievo nel mondo. Pensate solo alla Miskina, vincitrice dell’ultimo Roland Garros: nel 1999 la battezzammo proprio noi, anche se perse la finale contro la Dell’Angelo. L’ho ricordato poche sere fa a Gianni Clerici: una volta, mentre commentava in tv un torneo del Grande Slam insieme con Tommasi, scopersi di saperne più di loro, perché mentre loro non erano in grado di dire granché su una delle giocatrici in campo, una colombiana, io la conoscevo perfettamente. Era la Zuluaga, che aveva vinto ad Orbetello proprio quell’anno e che la mattina della finale ci aveva costretti a cucire con le nostre mani, in fretta e furia, una bandiera della Colombia perché non ce l’avevamo. Un’altra che è venuta da noi è la Schiavone. E sono venute la Pennetta e la Garbin. Adriana Serra Zanetti non si perde un’edizione e torna tutti gli anni. Certo, quelle che diventano molto forti poi non le vediamo più, ma la nostra missione è fare da ponte verso il futuro e perciò vederle approdare a un Grande Slam è una grande soddisfazione.
“Quest’anno al torneo femminile WTA abbiamo abbinato l’Europeo Under 16, del che devo ringraziare la Federazione, perché senza il suo intervento diretto non sarebbe stato possibile ottenere un torneo ufficiale di così grande importanza. Per me è la realizzazione della mia visione del tennis, perché ci troveremo a gestire un evento-chiave di quella fase in cui i giovani giocatori cominciano a passare dai tornei di categoria al grande tennis. Purtroppo per questa prima volta mi sono dovuto accontentare della prova maschile, anche perché stiamo ancora lavorando alla realizzazione di nuovi campi, ma conto di riuscire ad avere, l’anno prossimo, anche quella femminile, come d’altronde la stessa Federazione Europea vorrebbe che avvenisse”.
– Ma secondo lei ci sono affinità nella dialettica agonistica fra due giocatori che si scambiano colpi ai due lati di una rete e la dialettica politica?
“Assolutamente sì, almeno quando la dialettica politica è al suo meglio, perché quando è al suo peggio corrisponde a sport assai più brutali. Ecco, diciamo anzi che quando è al suo meglio la polemica politica ‘si merita’ di assomigliare al tennis, perché il tennis, quando è un buon tennis, è un gioco basato largamente sull’intelligenza, sulla mossa che sorprende l’avversario, sul colpo non ‘sporco’ ma pulito, limpido, chiaro che manda la palla in un punto del campo dove non arrivano le gambe dell’avversario. Il tennis ha una dinamica che sarebbe utile poter trasferire alla politica, perché nel tennis i fatti sono i fatti e non si può trasformare un fatto in un’opinione mentre il viziaccio della politica è che tende a prevalere sui fatti e a far diventare tutto opinabile. E’ vero che un tempo qualcosa del genere accadeva anche nel tennis, quando la palla cadeva nei pressi della riga, ma oggi le tecnologie che tutto vedono e ricostruiscono hanno eliminato anche questo tipo di problema”.
– Il politico Amato sino a che punto somiglia al tennista Amato?
“Beh, mi è sempre piaciuto pensare che mi chiamano il ‘Dottor Sottile’ proprio in omaggio a caratteristiche che si riflettono anche nella mia visione del tennis. Ancor oggi, a dispetto degli anni, preferisco giocare il singolo anziché il doppio proprio perché il singolo ti consente di stabilire in piena libertà d’azione una dialettica con l’avversario per poi, quando è il momento giusto, schiacciarlo”.
– Va qualche volta a rete o preferisce stare a fondo campo?
“No, no: io tendo ad andare avanti, anche se col passare degli anni mi capita sempre più spesso di essere troppo lento nell’attaccare e mi faccio cogliere a metà strada. Ma intendiamoci: adesso sto parlando soltanto di tennis…” .
– Il suo tennista preferito?
“Sono abbastanza vecchio da aver avuto la fortuna di ammirare il grande Drobny”.