IL DOTTOR DIVAGO

Per arricchire un pochino questo blog, che sempre più spesso risente della mancanza di tempo da dedicargli, ho pensato di riproporre di tanto in tanto qualcuna delle interviste da me realizzate per la rubrica “Io e il tennis”, che compare sul mensile federale “SuperTennis”. Spero che suscitino un po’ di interesse nei visitatori di www.federtennis.it che non hanno avuto occasione di leggerle quando apparvero sul giornale. Per cominciare ho scelto quella che un paio di anni fa mi fu concessa dal grande Gianni Clerici.

PERMETTE? PARADOSSO DIVAGO

Quest’intervista ha rischiato di non essere raccolta. E’ infatti cominciata con una discussione, perché Clerici – Gianni Clerici, proprio lui, il più celebre e acculturato storico-collezionista-narratore della storia del tennis, il testimone oculare di quasi sessant’anni di diritti e di rovesci, l’inventore della poetica dell’autoironia, il Lombroso del tifo sportivo, il più anticonvenzionale telecronista di tutti i tempi, l’ultimo vate della lingua lombardo-ticinese, e via aggettivando – Clerici, dicevo, non riusciva proprio a ricordare l’episodio che secondo me lo descrive meglio di qualsiasi autopsia lessical-comportamentale, e a forza di discutere, con tanto di convocazione di possibili testi a carico o discarico, il tempo se ne fuggiva e non mi riusciva di fargli la prima domanda.
Cominciavo già a disperare quando la situazione, misteriosamente, si sbloccò. D’un colpo, senza alcun motivo – o forse perché sulla scena aveva fatto irruzione Rino Tommasi: chi può dirlo? – Clerici dimenticò la diatriba e mi lasciò libero di interrogarlo (ma non di smettere di interrogarmi su di lui, a dispetto delle risposte che ha dato e dei sette lustri di frequentazioni che ci legano).
Alla fine, dopo tutti questi anni e tutte queste parole, che cos’è il tennis, per te?
“Una scusa… Un scusa per non esser diventato un grande industriale, come mio padre o mio nonno, oppure un giornalista di un certo rilievo. Una scusa per sentirmi un gigante… Nel tennis non c’è concorrenza. Come dice, il proverbio latino? ‘In regnum monoculi…’”…
‘Nel regno dei ciechi beato chi è orbo’?
“Sì. Io nel tennis mi ci sono nascosto. Però, intendiamoci, mi ci sono trovato benissimo! Li vedi questi signori qua? (indica Tommasi e l’amico americano di sempre, Bud Collins, i quali siedono al nostro stesso tavolo – ndr). Posso incontrarli tutti i giorni, mangiarci assieme…”
Ti sei trovato benissimo perché ti è piaciuto l’ambiente del tennis o perché non sei stato costretto a competere in altri ambienti?
“Tutt’e due le cose. Sai, fondamentalmente io sono un vigliacco. Un vigliacco con infinito coraggio. E quindi sono un ossimoro. Una volta mi hanno domandato come vedevo il mio rapporto con Tommasi. Risposi che anche io e Rino siamo un ossimoro. Non so… Che cosa vorresti sapere, veramente?”.
Beh, insomma, dimmi alla fin fine che cosa è diventato, ‘sto tennis, per te. I motivi che ti hanno spinto a viverlo così a lungo e così intensamente.
“Ma te l’ho detto!… E’ stato un modo per sfuggire a impegni più seri. Un limbo. E poi, scusa, scrivere di tennis può anche essere il mezzo col quale un povero si guadagna da vivere!”.
Vuoi dirmi che non ti ha arricchito per niente?
“Mi hanno arricchito i viaggi. Le amicizie. La possibilità di vincere la mia pigrizia. Quando sto in una città per un torneo spesso finisco per andare a vedere una mostra che altrimenti non avrei visto. E insomma, sì, probabilmente il tennis mi ha arricchito”.
E tutte le vicende umane che hai esplorato e raccontato? Personaggi, campioni, amori…”
“Sì, sì, anche quelle… Non solo nel tennis, eh? Penso allo sci di fondo, per esempio. Però in realtà io sono un giocatore fallito. Sai: il giocatore, quando si mette a giocare, pensa di fare la Coppa Davis, di vincere Wimbledon. Io a Wimbledon ho fatto il primo turno e in Coppa Davis mi hanno messo la sera e levato la mattina. Un certo signore mi fece fuori poche ore dopo la convocazione perché ero già un giovane giornalista e gli scrivevo certe cose che a confronto quello che trent’anni dopo avrei scritto su Galgani sembra un panegirico. (Segue racconto dettagliato che, su preghiera successiva, viene qui tagliato per rispetto nei confronti degli eredi dell’autore di cotanto misfatto. Segue quindi anche una lunga discettazione su che cosa voglia dire mettersi a fare il dirigente sportivo: tagliata anche questa – ndr). Una breve e misera carriera…”
Insomma, mi stai dicendo che le innumerevoli vite che hai frequentato e vissuto non ti hanno segnato?
“Ma sì, moltissimo. Non prendermi sempre così sul serio… Sai, a me piacciono i paradossi. Io stesso sono un paradosso vivente. Rino mi ha dato un soprannome, ‘il dottor Divago’, ma io potrei anche essere chiamato Paradosso. Ecco, se vuoi darmi un nome e un cognome che mi descrivano devi chiamarmi proprio così: Paradosso di nome e Divago di cognome, Paradosso Divago. Noooo, ma certo che mi han segnato, quelle cose lì. Poi le amicizie, gli amori, nel tennis, grazie al tennis… E’ stata un’altra vita, che ho vissuto al posto di quella vera, nascondendomi dietro a questo paravento. Magari è stato meglio così”.
Ma se tu dovessi darmi una definizione seria, non paradossale, e allo stesso tempo sintetica del tennis?…
“Denis Lalanne ha scritto sull’Equipe che è ‘una lente d’ingrandimento della vita’. Sebbene pensi che possa essere vero anche il contrario, è una definizione che faccio volentieri mia”.
C’è qualcosa di particolare, che ricordi nella tua vita col tennis?
“Persone, tante. Alcune di notevole intelligenza. Di cultura. Gil de Kermadec, per esempio”.
Ma insomma, se ti guardi indietro, te la senti di fare un bilancio? Sei felice oppure no?
“Ma come si fa, a dire una cosa così? Non si può mica sapere… Sei felice se hai fatto felice quelli che ti hanno incontrato nella vita. Questa è la felicità”.
Ancora oggi giochi a tennis, però.
“Certo, perché i miei bioritmi me lo consentono. Sai, io facevo Yoga quando ancora in Italia non ne aveva sentito parlare nessuno. Lo facevo con un grande maestro che adesso è morto. e così ho smesso. Il tennis può sostituire lo yoga, perché è un’attività psicofisica di grande rilievo. A patto che tu sappia come gestirla. Se vai al club a giocare e ti arrabbi, se cerchi disperatamente di vincere non hai capito niente. Bisogna giocare con religiosa…”
Ma questo è zen!
“Si, certo, il tennis è un momento zen. Però di recente io ho giocato tantissimo, al punto che adesso neppure il dottor Parra riesce a guarirmi dai miei dolori. Vedi, alla fine due risposte serie te le ho date. A dire la verità, mi rendo conto che non ci ho mai pensato seriamente, a tutte le cose che mi stai chiedendo. Quindi uno alla fine cerca di non prenderle in considerazione, si difende con l’ironia.”
L’esser diventato anche telecronista ha cambiato un po’ il tuo approccio?
“Divertente, è divertente. Non solo perché alla fine puoi dire di non aver fatto soltanto lo scrittore – come Bassani e Soldati sostenevano che avrei dovuto fare, forse a ragione ma fors’anche a torto – ma perché col microfono hai l’opportunità di combinare qualche bel casino, a patto di riuscire a non diventare ripetitivo. Un po’ come quando scrivo sul giornale. Io ho la fortuna di poter scrivere quello che voglio: non parlo delle partite, a volte non do neppure il risultato. Nessuno mi dice niente e dunque questo piccolo esercizio quotidiano di scrittura può diventare divertente. Invece una telecronaca ti lega di più a quello che succede sul campo. Ma io credo sia gratificante lasciar lo stesso libero sfogo all’invenzione. Sai, ci sono già alcune tesi universitarie sul modo in cui io e Rino facciamo le telecronache. Un modo casuale, occasionale. E’ gratificante accorgerci che alla gente piace. Qui ho firmato tanti di quegli autografi da convincermi che il mio stile rende felice chi mi ascolta. Forse sono un po’ troppo altruista…”
PS – L’episodio che secondo me chiarisce tutto sul conto di Gianni Clerici, quello che lui non ricorda e sul conto del quale abbiamo discusso prima di registrare questa intervista, è accaduto nel 1971. Durante la finale degli Internazionali d’Italia fra Laver e Kodes ci fu una contestazione proprio sotto alla tribuna stampa del Centrale del Foro Italico. Né l’arbitro, né i giudici di linea né i due giocatori riuscivano a mettersi d’accordo su quale fosse il segno lasciato dalla palla. Clerici, che invece aveva visto benissimo, saltò in campo per indicare quello giusto. Era giugno, e lui portava bermuda color kaki, canottiera rossa e cappello da cacciatore bianco con tanto di striscia di leopardo. Eppure tutti si fidarono.