I volti dell’assistenza diretta alle vittime del conflitto siriano
Un camion di piccola taglia, lanciato a piena velocità, si ferma all’improvviso. Dal cassone aperto scende, rapida, una decina di uomini armati. L’aspetto è quello di chi ha visto troppo e vuole la strada davanti a sé completamente libera. Il fucile fra le braccia, la pistola sul fianco, i caricatori pronti.
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Lasciarli passare è un gesto che viene naturale, spinto dal timore e da quel rispetto reverenziale dovuto ai combattenti, indipendentemente dall’ideale per cui lottano. La fermata corrisponde all’ospedale militare di Tishrin, lo stesso in cui gli ispettori Onu si sono recati per parlare con i soldati feriti nell’attacco con il gas sarin che ha provocato centinaia di morti alla periferia di Damasco. Non si può fotografare né tantomeno filmare l’ingresso, il viale di entrata, il piano terra dell’edificio dove scorrono anonime le porte che separano i corridoi da uffici e, soprattutto, non si possono riprendere i volti dei responsabili della struttura. E se capita di alzare casualmente l’obiettivo mentre si cerca il taccuino, ecco che c’è qualcuno pronto a intervenire, per ricordare che no, non si può. L’ospedale è un obiettivo sensibile, da proteggere. Scarse anche le informazioni, centellinate. Nessun numero dichiarato per i posti letto, nessuna cifra a definire la quantità dei ricoverati, perché entrambi sono dati inseriti nella sfera delle informazioni coperte dalla riservatezza militare. Quello che si riesce a sapere è che si tratta di un ospedale tecnologicamente all’avanguardia fatto costruire nel 1920 dal Ministero della Difesa siriano, che accetta anche feriti civili senza distinzioni fra amici e nemici del Governo e che dispone di un’ala separata per curare le donne militari. L’ospedale militare di Tishrin, alle porte di Damasco, non è l’unico della Siria. Ce ne sono altri, ad Aleppo ed Homs ad esempio. Quelli che parlano sono i ricoverati, militari feriti, alcuni non per la prima volta. Tutti filo-governativi. Ibrahim Joba ha 20 anni. È stato ferito alle gambe mentre l’esplosione di quell’ordigno, nella zona Est di Damasco nel quartiere di Jobar, portava via due dei suoi compagni. “Abbiamo visto missili cadere su di noi, i terroristi che usavano bazooka – ricorda – i civili bloccati nelle loro case. E’ per loro che combatto. La maggior parte dei terroristi proviene da altri paesi, da tutte le parti del mondo”. Anche Mohamed, capitano di 34 anni era a Jobar, dove nel frattempo il conflitto per il controllo della città si è spostato dalla superficie ai vecchi tunnel sotterranei individuati dal fronte dei ribelli per minare le postazioni militari governative e muovere rifornimenti. Mohamed ha una figlia piccola, incontrata per la prima volta durante la sua degenza in ospedale, e tre fratelli arruolati come lui nell’esercito. “I terroristi entrano nelle case dei civili e li uccidono prima di andarsene – spiega. “La prima cosa che racconterò a mia figlia quando sarà sufficientemente grande per capire è l’amore per la patria. Lo Stato siriano è unico. Sono disposto a tornare a combattere anche 100 volte se sarà necessario. La mia è una famiglia di martiri”. Il primo compito di un soldato siriano, ci spiega, è quello di difendere la patria. “Mio fratello non era militare – racconta uno dei parenti in visita al famigliare ferito. “Quando l’hanno chiamato non ha esitato, è partito. I casi di diserzione sono stati pochi, solo una decina. L’esercito siriano è forte”. A Yarmouk, il campo profughi palestinese che si erge alla periferia sud di Damasco, la situazione è completamente diversa. Lì, per curare i feriti civili che riescono a fuggire, c’è soltanto un punto di primo soccorso, allestito in uno scantinato che ospita tre letti ed una vetrinetta spoglia di medicinali.
Monia Savioli
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