Panatta 70: arte e incoscienza (Azzolini). Adriano Panatta: “Ho portato il tennis fra le classi popolari” (Rossi)

Panatta 70: arte e incoscienza (Daniele Azzolini, Tuttosport)

Sono settanta Adriano… Auguri. A cosa ti fanno pensare? «Mah. Sono un mucchio… Direi un Mucchio Selvaggio. Tanti e sempre di corsa. Non mi lamento, ma un po’ mi girano. Nell’insieme me la sono cavata, sono stato fortunato e anche bravo, credo. I momenti belli sono stati più numerosi di quelli grigi. E gli amici in maggioranza rispetto ai nemici. E anche migliori. Però sì, mi girano. Un po’». […] Già. Settanta anni e un solo nemico… «Sì, uno». Lo dici tu? «Nessun segreto. La noia. Se mi annoio, la testa mi cappotta, come quei tennisti che per tentare una smorzata sono obbligati a eseguire un tuffo carpiato con avvitamento rovesciato, tanto è estrema l’impugnatura che utilizzano. Mi butto in qualsiasi impresa per sconfiggere la noia. Sono un cacciatore di noia». Nel tennis, il primo grande attaccante per noia… «È un’estremizzazione, ma c’è del vero. L’attacco era funzionale alla tattica, la presa della rete uno dei dettami del tennis che mi hanno insegnato, nel quale la prima sfida era cogliere le altrui debolezze, mentre oggi, lo sapete, è sommergere di botte l’avversario. Ma è vera una cosa: stare a fondo campo a spallettare mi faceva venire due… Come posso dire? Due…» Palloni pressostatici? Mongolfiere? Zeppelin? «Ecco, due mongolfiere grandi come dirigibili. E allora andavo avanti per vedere subito come finiva quel punto, e ricominciare da capo. All in… Tutto in uno. E non sono mai stato un giocatore di poker». All in… Anche a Parigi nel ’76, con Hutka. Sul match point hai attaccato sulla seconda di servizio, appoggiato una volée, annullato un pallonetto con la veronica e ottenuto il punto con una volée smorzata in tuffo. Arte o incoscienza? «Perché, l’una esclude l’altra? L’ho rivisto Hutka, proprio di recente. Ero al ritiro bagagli dell’aeroporto di Parigi, mi sento chiamare… Vedo un tipo bello, biondo, fascinoso. E tu chi sei, gli chiedo. Sono Pavel, mi fa. Ma chi, quel Pavel? Mi abbraccia e mi dice: quel match point me lo sono sognato per anni, poi l’ho rivisto di recente su internet e ho pensato che solo tu potevi giocarlo in quel modo. E stato un bel complimento». Con Kim Warwick è andata diversamente, mi sembra. «Situazione assurda, più unica che rara. Undici match point a Roma, primo turno del 1976. E vabbè, questa è storia nota… Lo incontro dopo un anno, al Queens, sull’erba, ottavi di finale. Vince il primo set e va avanti nel secondo. Arriva al match point e glielo annullo. Poi altri tre o quattro prima del tie break che si giocava sull’8 pari. Lì andiamo al faccia a faccia e mi costringe a fare i salti mortali. Alla fine, gli cancello altri undici match point. Ripeto… Undici. Incredibile. E vinco il tie break. Vedo Kim che si affloscia, come un bucatino stracotta Salgo 2-0 nel terzo set e lui ferma il gioco, mi chiama a rete. Mi fa.. «Io con te non gioco più». Ma dai, ma via, non te la prendere, siamo amici. Mi guarda con gli occhi vuoti. «Mai più», ripete quasi in lacrime, e se ne va dal campo. L’arbitro se la rideva, il pubblico non capiva. Chiesi se potevo tentare di riportarlo indietro. E mi precipito alla ruota di Kim. Dite, si è mai visto uno inseguire l’avversario per pregarlo di non ritirarsi? Niente, non volle sentire ragioni». L’hai più incontrato? «In campo no. Per sua fortuna». E fra i pallettari, il peggiore? «Higueras. Noioso e lamentoso. Al suo confronto Barazzutti aveva la verve di Jerry Lewis. Una volta in America terminai il mio match poco prima che i due scendessero in campo. Me ne andai al ristorante, mi intrattenni un po’ con gli amici, presi il caffè e l’ammazzacaffè. Quando tornai erano ancora sul 2-1 del primo set, e il pubblico tirava le lattine di Cola in campo». Che avversario fu Barazzutti? «Tosto. Era difficilissimo batterlo». Mai amici, però… «Mah, che vuoi che ti dica, siamo opposti per carattere e visione della vita, e gli anni hanno finito per depositare nuove scorie sul nostro rapporto. Non è stato mai l’amico del cuore, ma ci conosciamo fin troppo bene, eravamo parte di una squadra che si faceva rispettare. Una grande squadra. Non sono cose che si dimenticano. Una volta giocammo insieme anche in doppio…». Varsavia, 1919. Panatta/Barazzutti contro Fihak/Novicki «Vincemmo?» Sì, in quattro set. Ci fosse mai una volta che ti ricordi se un match l’hai vinto oppure no. Ci fai o ci sei? «Ci sono, ci sono… Ma guarda, è il mio antidoto. Con la complicità della memoria sbadata prendo le distanze dal tennis. Mi piace parlarne, ma a grandi linee, per massimi sistemi. Mi piace raccontarne le storie. E poi, nella mia vita ho fatto tante altre cose, per fortuna». La motonautica. A proposito di imprudenza… […] Settanta. Gli anni Settanta… «Troppo tennista per godermeli fino in fondo, ma anche troppo italiano per non avvertirne la carica negativa. La rabbia, le tensioni, la politica delle armi, la notte della Repubblica. All’inizio, pero, anni strepitosi, di inventiva e di voglie mai più sopite. Sentirsi liberi di costruire la propria vita. Un dono che, se solo potessi, farei alle generazioni di oggi. Il tennis era una piccola riserva indiana, ma con un privilegio, quello di offrirmi un passepartout per osservare un mondo che voleva cambiare, ovunque. Credo che le proteste degli anni Settanta siano state il primo movimento davvero globale, in tempi in cui la globalizzazione nemmeno esisteva sul vocabolario». Diciotto anni nel Sessantotto… «Sì, metà junior, metà già tennista, grandi pensieri e faccia da bambino. A Londra mi dicevano che somigliavo a Paul McCartney. Non era così vero, ma con le ragazze funzionava. Fu l’anno del cambiamento, l’inizio della cosiddetta Era Open. Lo sport dei ricchi apriva le porte alla popolarità, e lo faceva nel momento giusto. In fondo, nel sostituirsi ai re e all’aristocrazia come classe dirigente, la borghesia volle appropriarsi di un unico sport, il tennis, che simboleggiava uno status regale. L’Era Open fu l’ultimo passaggio, l’apertura definitiva alle masse». Per te furono anche gli anni di Formia. «Ogni tanto mi torna alla mente qualcosa e ci rido da solo. Dormivo all’Hotel Fagiano, in una stanzetta minima, due letti, l’altro era per Bertolucci. Di notte un freddo mai più sentito. Mettevamo la papalina e ci coprivano con le pagine dei giornali infilate sotto il pigiama. Di giorno, due campetti e tanto tennis, nel centro che ospitava anche gli azzurri dell’atletica. Mitici. Al grande Berruti quelli della velocità combinavano scherzi atroci. Un giorno riuscirono a parcheggiargli la macchina appena acquistata sopra un albero. Come abbiano fatto resta un mistero. Noi aspettavamo Pietrangeli, che di tanto in tanto si allenava con il gruppo. Io lo attaccavo e lui si spazientiva. “Aha, ariecchilo che m’attacca ‘st’impunito”. Poi urlava cercando Belardinelli, il nostro papà coach: “Belardaaa, questo m’attacca, glielo dici tu, o lo meno io?” Si rideva, e anche Nicola si divertiva». La tua prima vittima, Pietrangeli «Mah, era arrivato il momento. Fu un passaggio di consegne che prima o poi sarebbe giunto per vie naturali. Lui era un grande tennista, e io lo cercavo per batterlo. Nei tornei italiani chiedevo agli organizzatori di mettermi dalla sua parte del tabellone. Ma il match della svolta fu la prima finale agli Assoluti. Lo rimontai nel quinto set, lui gioco un match da leone e quando vinsi lo vidi triste e mi dispiacque. Ma abbiamo avuto sempre un tratto in comune, io e Nicola, non soffriamo di gelosie né di invidie. Zero, su tutta la linea. Negli anni successivi mi fece da chaperon in giro per tornei. Mi ha fatto conoscere attori, grandi personaggi, e anche il suo modo di vivere, un’autentica filosofia. Siamo amici da sempre, qualche volta ci sentiamo, ma ci vediamo giusto a Parigi, nei giorni del Roland Garros. Lui mi aspetta, perché vuole che lo porti in giro, nei locali che ama di più». E chi è stato… «Stai per chiedermi chi sia stato il più forte. Non farlo…» … Sì, invece. Chi? «Lui ha vinto di più in un tennis più facile del mio, e ha battuto grandissimi campioni. Io ho vinto di meno in un tennis più difficile del suo, e ho battuto grandissimi campioni. La conclusione? Non mi è mai fregato nulla di sapere chi sia stato il più forte, giuro. Di sicuro i miei anni hanno coinciso con l’affermazione del tennis in Italia. Credo di aver dato una mano, in quel senso». E il più forte di domani? Questo lo puoi dire. «Fognini ha ancora tempo per stupire, gioca un tennis di alto livello. Sinner è messo bene, anche di testa, cosa che alla sua età fa impressione. Occhio però all’eccessiva esposizione mediatica, data l’età, ma è forte e si vede. Piatti sta facendo un ottimo lavoro. Berrettini è la mia passione. Romano, bravo figlio, ma con l’aria di chi la sa lunga. Uno che gioca per migliorarsi, che poi è il segreto dei più forti. Sembra intenzionato ad andare di più a rete, e fa bene. Può ottenere punti facili e risparmiare un po’ di corse. Agli Us Open dell’anno scorso ho fatto un tifo becero per Matteo. Gli auguro di vincere molto più di me. Le doti non mancano». […] La questione Djokovic e i casi di Coronavirus. Ora lo chiamano DjoCovid… «Le regole si rispettano, punto. Altrimenti si fa la guerra al potere e si traggono le dovute conseguenze. Djokovic non ha fatto niente di tutto questo. Una brutta pagina. Peccato. Era una iniziativa benefica, ma si è trasformata in un disastro. Nole sembra assillato dall’idea di piacere a tutti i costi al pubblico, ma il confronto con Federer ormai è perso, gli appassionati hanno scelto Roger e al suo fianco pongono Nadal. Goat e bi-Goat. Nole è un grandissimo giocatore, ma alla fine, come sempre, non sarà decisiva la conta dei titoli vinti». Un consiglio ai ragazzi che cercano di ribaltare il vertice del tennis. «Si va in campo per vincere. E questo lo sanno benissimo. Ma lo spettacolo deve valere il prezzo del biglietto, e questo ogni tanto se lo scordano. Migliorare sempre, mettersi in discussione, è l’unica via». Chi ci riuscirà? Un nome solo… «Tsitsipas. Ha qualcosa in più». Alla fine, Adriano, la differenza sostanziale fra il tuo tennis e quello di oggi, qual è? «Sembrano due mondi differenti. Noi non scendevamo in campo per sopraffare l’avversario, ma per studiarlo, conoscerlo, e capire come batterlo. E poi, il Tour creava amicizie che durano ancora oggi. Con Bertolucci ho condiviso quasi tutto, con Nastase e Borg mi sento spesso al telefono, poi Tiriac, e Gerulaitis, povero Vitas, che dispiacere quando se n’è andato. Newcombe e Hoad, che mi dava del coglione perché non mi decidevo a vincere Wimbledon. Anche Dibbs. E Vilas, che ora non sta bene, per il quale provo un affetto grande così. Amici… Con cui condividevo storie bellissime e talvolta stupidissime». Ne racconti una? «Le conosci tutte, dai… Quella in Portogallo, con Nastase, Borg e Vitas, per esempio. Tornavamo in macchina dopo una serata parecchio folle, ed era ormai mattina. Il giorno dopo avevamo un’esibizione. Nastase era alla guida. Nel rimbecillimento generale, lo sento mugolare: se non faccio pipi, muoio. Vedo un posto, poco lontano, con un sacco di gente. Fermati lì, gli faccio. Ci fermiamo, chiediamo di indicarci il bagno, “Al secondo piano” dicono. Ci precipitiamo. C’era il cartello: bagno. Porta aperta con corrimano rosso. Però, che eleganza. Entriamo “Guarda questo pitale – ci dice Ilie sollevato, perché finalmente si liberava – ha perfino delle scene di caccia al cervo dipinte di lato”. Eravamo finiti nella residenza di campagna della famiglia reale, che era aperta al pubblico come museo». […]

Adriano Panatta: “Ho portato il tennis fra le classi popolari” (Paolo Rossi, Repubblica)

[…] Tanti Auguri, Adriano Panatta. È felice, consapevole di quello che ha realizzato nella sua vita? «Beh, sono felice di aver spinto il movimento, di averlo aperto a tutti. Ai miei tempi il tennis era come un giardino insormontabile, un mondo molto chiuso. La classe media e la classe operaia mai pensavano di potervi accedere e far giocare a tennis i propri figli». Come ha fatto a non farsi travolgere dal delirio di onnipotenza? «Io sentirmi onnipotente? Ma no, semplicemente non ho mai pensato di essere chissà chi. È bastato solo usare il cervello, sono sempre rimasto me stesso: quello che pensavo vent’anni fa lo penso anche adesso. Capisco che oggi basta vincere due partite e l’ultimo str**o va in televisione a pontificare. Ma non è mai stato il mio caso». Merito dell’educazione. O del carattere? «Sarà per l’educazione ricevuta dal miei genitori, ma anche per il mio modo di fare: non mi sono fatto travolgere, ho sempre parlato con tutti, con grande umiltà. Ripeto, non ho mai pensato di essere chissà chi perché tiravo delle palline all’incrocio delle righe». Suo papà, Ascenzio, cosa direbbe oggi? «Penso sarebbe orgoglioso di me, di quello che ho fatto. Oggi che la gente si ricorda ancora di me. Se penso a come veniva al Foro Italico a vedermi: sempre in maniera molto tranquilla, mai a vantarsi del figlio campione: lui si sedeva nella tribuna giocatori e, con grande discrezione, assisteva ai miei match». […] E oggi Ascenzio cosa direbbe di questo tennis moderno? «Sorriderebbe, vedendolo. Sì, credo proprio che avrebbe un sorriso un po’ ironico. Lo guarderebbe esattamente come lo guardo io. Così». Anche a lei non piace? «Non è questo. In fondo il tennis è cambiato per forza di cose: è, come definirlo, esasperato? Pieno di divismo. Guardate i giocatori, si muovono come stessero facendo chissà cosa». Invece le sue tante vite come sono state? «Vite? No, una sola e intensa. Una vita con tanti interessi, tanta voglia di curiosare e imparare a fare nuove cose. Perché non me n’è mai fregato niente di essere un campione, e non c’è niente di più faticoso di vivere la vita dell’ex campione. Per questo mi sono messo a fare altre cose: qualche volta ci sono riuscito, altre no». Come il suo tennis. «Esatto, lo esprimevo anche nel tennis. Ma perché c’è un motivo di fondo: io mi annoio facilmente, quindi ho bisogno di cose nuove, non sono un metodico. Ma capisco che ognuno ha il proprio carattere: io ho sempre voglia di mettermi in gioco, errori inclusi, come capita a tutti. È normale, no?». Il ciuffo ribelle le è rimasto. «Ribelle? Non so se è corretto. Ripeto, non ho mai finto di essere qualcun altro. Sono sempre stato così, per cui se per gli altri sono stato un ribelle va bene, ma io non sono mai cambiato e sono rimasto coerente a me stesso». Cosa ha lasciato al tennis? Quale eredità, o messaggio? «Spero in un bel ricordo, che la gente si sia divertita nel vedermi. Che si sia anche un po’ incazzata quando ho giocato sotto tono. Spero di aver lasciato un’emozione, perché penso che lo sport sia una forma di spettacolo e quindi quando esco vorrei andarmene con un’emozione. Come a teatro». […] Va bene: senta, ma tra il tennis e gli italiani che rapporto c’è? «Il tennis è perfetto per noi, che abbiamo estro e fantasia. Fattori che purtroppo oggi contano meno…». Ci fossero ancora le racchette di legno, chissà… «Sarebbe stato un altro gioco, completamente diverso. Ma probabilmente se i Federer, i Nadal e i Djokovlc avessero iniziato anche loro con il legno penso che sarebbero riusciti a trovare le soluzioni: ormai la palla si colpisce in maniera diversa». La sua soddisfazione più grande, Il Roland Garros? «L’essere nonno: ho figli e nipoti bellissimi, questa è la mia soddisfazione più grande». […] È il giorno del desideri: l’ultimo sfizio che vorrà togliersi? «Vivere gli ultimi anni della mia vita in serenità, umiltà, tranquillità e coerenza. In linea con quella che è stata la mia vita. Tutto qua».