Sul campo dei Dolphins non ha vinto il delfino. Ha vinto un campione

Quando Alexander Zverev vincerà il primo Slam (non vogliamo tirargliela, ma prima o poi dovrebbe accadere), nell’esatto momento in cui qualcuno gli porgerà quel trofeo tanto agognato, la sua mente passerà in rassegna una serie di momenti. I sacrifici, gli incoraggiamenti degli allenatori che si sono succeduti al suo fianco ma anche tutte le sconfitte che l’hanno temprato fino a farlo diventare un campione Slam. Tra queste, una occuperà un posto particolare.

Il 23 marzo 2019 David Ferrer lo batte sul nuovo centrale di Miami, uno stadietto da circa 14000 posti inscatolato tra le linee da 30 yard del ben più grande Hard Rock Stadium, che di professione ospita le partite interne di una franchigia della National Football League statunitense, i Miami Dolphins. Non a caso i nuovi organizzatori del Miami Open hanno scelto di conferire al cemento dei campi lo stesso ‘color delfino’ vestito dai giocatori di football della città; un elemento di continuità tra i due sport che avrebbe dovuto favorire, almeno metaforicamente, il delfino per eccellenza del tennis maschile, colui che per età e potenziale ha avanzato la candidatura più convincente a raccogliere l’eredità dei campioni che stanno per abdicare (stanno per, perché per adesso sono ancora vivi, vegeti e soprattutto vincenti).

Il delfino, invece, che ha meritato la sconfitta anche per una serie di sciocchezze a rete che certo non gli vediamo commettere per la prima volta, ha lasciato il proscenio all’immenso campione che è David Ferrer. Non solo il (quasi) 37enne spagnolo è in campo per l’ultimo torneo sul cemento della sua carriera, non solo aveva perso gli ultimi quattro confronti diretti con Sascha, non solo era stato sconfitto proprio lo scorso anno qui a Miami ma gli aveva dovuto lasciare strada anche un mesetto fa ad Acapulco, ben risarcito dai messicani che gli avevano regalato un tributo metà commovente metà kitsch, con tutti quei sombreri e quei mariachi.

Ricordare che Ferrer è un immenso campione non è sentimentalismo spiccio, come potrebbe suggerire l’approssimarsi del suo ritiro (giocherà l’ultimo torneo a Madrid, tra meno di due mesi). Sarebbe sufficiente rimarcare che lo spagnolo è tornato a battere un top 5 in un ‘1000’ sul cemento a quasi sei anni di distanza dalla vittoria su Nadal, allora n.1, a Bercy. Sarebbe, ma non lo è. Tra i tanti modi di rendere onore a questo sport – ce ne sono migliaia, e anche chi sta agli antipodi come Kyrgios a suo modo rende onore al tennis – ce ne vengono in mente pochi che siano efficaci, iconici e brutalmente meravigliosi come la piroetta di felicità che Ferru ci (e si) regala dopo aver breakkato Zverev e fine secondo set. Stai giocando contro una macchina da tennis che ha 15 anni meno di te, un biondino che dopo ogni punto recupera le energie al doppio della tua velocità, mollare e ritenerti soddisfatto di averlo messo a dura prova ancora una volta sarebbe l’opzione più naturale. Peraltro lo hai battuto l’ultima volta nel 2016, quando aveva il dritto traballante e giocava ancora un po’ sui trampoli. Invece lo sfidi su entrambe le diagonali, metti i piedi in campo, lo costringi a coprire il campo alla velocità che nessun ragazzo alto due metri – pur preparatissimo fisicamente – può reggere. E lo batti, invertendo il significato di quella foto di un anno fa.

Quando abbracci Sascha gli arrivi al petto, sembri e in effetti sei un padre piccolino, discreto, che non ha mai rotto le palle a nessuno in due decadi di carriera. Come fanno i padri che ingoiano tutti i rospi e lasciano ai figli il lusso dei capricci. Neanche per venire a giocare qui a Miami un’ultima volta – “non ho chiesto una wild card, perché non volevo togliere la possibilità a qualche giovane, ma il torneo ha voluto concedermela e per questo li ringrazio” – che pure, se per una volta avessi puntato a piedi, davvero nessuno avrebbe avuto da ridire. Qualcuno ti dice ripensaci, ‘ma perché ti stai ritirando?’, e invece noi diciamo che è giusto che finisca. Non perché ci faccia piacere smettere di vederti giocare, ma perché tutto deve finire e c’è il piccolo Leo a cui insegnare che si può vincere senza alzare la voce, con una fascia da guerriero e la voglia insopprimibile di colpire una palla in più. Il tennis è un affare tremendamente complesso ma anche così banale, e quando colpisci una palla in più puoi aggrapparti alla solita speranza: può essere che non ritorni. Chissà se uno come te tornerà.