Questo Wimbledon non lo ricorderemo certo per le finali
da Londra. il Direttore
Se un torneo di dovesse memorizzare e ricordare soltanto per le finali, questa edizione 132 di Wimbledon non passerebbe certo alla storia. Shakespeare, che credeva e costruiva le grandi trame “This blessed plot, this realm, this England” sarebbe rimasto deluso della conclusione, contraria alle regole più elementari di un’opera teatrale e di una fiction. Le finali Djokovic-Anderson e Kerber-Serena Williams sono state tutt’altro che esaltanti. Salvo che per chi le ha vinte e per i loro fan. Eppure il prologo, anzi più prologhi, erano stati fantastici. Nel torneo degli uomini battaglie infinite dagli ottavi in poi (Anderson-Federer con Roger che perde il ventesimo duello con il matchpoint a favore, Nadal-del Potro), maratone record mai registrate prima nelle due semifinali (Anderson-Isner, Djokovic-Nadal), ore di suspense e storia, controversie infinite sulla durata dei match, sulla necessità o meno di un tie-break anche nel quinto set (magari posposto al 12 pari per sfuggire a una sudden deat, una morte troppo improvvisa), sulla strana gestione del tetto affidata al “common sense” di un referee di un torneo un po’ outdoor e un po’ no, che non a tutti (e meno che a tutti a Rafa Nadal) è apparso adeguato common sense. Non sarà il caso di scriversi una bella regoletta anche nel Paese della common law?
Nel torneo delle donne un’ecatombe mai vista prima di teste coronate che rotolavano una dopo l’altra neppure si fosse trasferita a Londra la rivoluzione francese. Dieci teste di serie, dieci k.o, pareva il film dei “Dieci piccoli indiani”. È sopravvissuta la “vittima predestinata” n.11, che doveva essere la vittima designata, per celebrare il trionfo della maternità, ma Angie Kerber che qui aveva giocato una finale contro la stessa Serena Williams e l’aveva persa, ha preso in contropiede tutti quanti. La finale donne è finita 6-3 6-3, proprio quando Serena a detta dei più pareva più pronta di quanto si considerasse lei stessa ad aggiudicarsi il ventiquattresimo Major che l’avrebbe messa sullo stesso piedistallo di Margaret Court… e in realtà un bel po’ più in alto, perché l’australiana aveva conquistato 11 dei suoi 24 Slam a casa sua e in assenza di molte delle più forti rivali in tempi in cui l’Australia era logisticamente molto più lontana di oggi. E la finale uomini pareva avviata ancora peggio, 6-2 6-2, tanto che già stavamo tutti spulciando in tribuna stampa le finali a senso unico dell’era Open, McEnroe-Connors 6-1 6-1 6-2 nel 1984, McEnroe-Lewis l’anno prima 6-2 6-2 6-2, Connors-Rosewall 6-4 6-1 6-1. Quando in un rigurgito di orgoglio Kevin Anderson è finalmente rinvivito e, liberatosi delle sue scorie (anche mentali, non solo fisiche), è stato capace di offrirsi e offrirci almeno cinque palle break (due sul 5-4) e tre sul 6-5 che erano anche set point. Ci fosse stato il quarto set ci saremmo tutti divertiti di più, ad eccezione di Djokovic, Vajda, Jelena, il piccolo Stefan, Dodo Artaldi e il mondo serbo. Per Novak è il primo torneo vinto nel 2018. Ha scelto quello giusto. “Non c’è posto più bello di dove tornare a vincere! Ed è la prima volta che qualcuno mi grida papà, papà, da una tribuna”.
Invece ne è venuta fuori una partita piatta, noiosa, magari prevedibile, ma comunque in grande contrasto con tutto ciò che l’aveva preceduta nella settimana. Capisco che quanto sto scrivendo possa apparire ingiusto nei confronti di Anderson che è stato brillante protagonista di un grandissimo torneo, ancor miglior di quello che lo aveva visto centrare nel settembre scorso all’US Open la sua prima finale di Slam. Si è visto che non era giusto “etichettarlo” come un tennista capace soltanto di servire, però certo la battuta era –è – il suo punto più forte. Beh, contro Djokovic, per due set, e fin dal primissimo game di ciascun set con contorno di doppi falli, quel formidabile servizio è stato invece il suo punto debole. Diventando psicologicamente per Djokovic che quel servizio alla vigilia non poteva non temere, anche se è uno dei migliori ribattitori di sempre… un formidabile vantaggio. Cosa di meglio e di più poteva sperare Novak, per cancellare subito le proprie insicurezze (“Avrei preferito avere un giorno di riposo dopo la lotta con Nadal…”) che un break all’avvio di ciascun set? Un Novak che di finali di Wimbledon ne aveva già giocate quattro e vinte tre. Insomma, di gran lunga il più esperto dei due a questi livelli, aveva forse bisogno di ulteriori aiutini? “It was a perfect start” avrebbe ammesso subito dopo, con ancora Stefan in braccio e il trofeo in mano.
Dal 2103 al primo semestre del 2016, Novak, oggi 31 anni, sembrava dominare il tennis. Molto più di Federer, che dal 2012 al 2017 non avrebbe più vinto un Major, più di Nadal cui Novak sembrava aver preso le misure in modo costante. Di 16 Slam di quel periodo ne aveva vinti sette ed era stato protagonista di altre cinque finali. Quattro Slam li aveva vinti in fila, dall’US Open 2015 al Roland Garros 2016. Ma a Wimbledon venne fuori il tennis elbow, il male al gomito, lo spauracchio più terribile per un tennista insieme ai dolori al polso cui sono passati praticamente tutti i top-players, Nadal, Djokovic, del Potro. Quel problema insieme ad altri, via Becker, dentro e poi via Agassi, le voci insistenti su dissapori coniugali, lo hanno fatto precipitare nel vuoto. Della testa e del ranking. Fino a che in Australia, dopo la cocente delusione infertagli dal NextGen Chung, Novak si è finalmente rassegnato a correre il rischio di un’operazione al gomito che proprio avrebbe voluto evitare. Il chirurgo che l’ha operato, e con successo a quanto si è potuto vedere, era a Wimbledon ieri, ospite di Nole naturalmente (anche se Nole, rispondendo a una mia scherzosa domanda, ha negato l’intenzione di compensarlo con la metà dei 2 milioni e 250.000 sterline del primo premio). Il vero test al gomito di Novak non erano state le 2 h e 19 di questa finale (il quinto set di Anderson con Isner era durato tre ore), ma la semifinale con Nadal.
Ma insieme al gomito era la testa che non funzionava come prima in Novak. “Ho vissuto momenti in cui ero frustrato e mi chiedevo se sarei riuscito a tornare sui miei livelli o no. Ora è facile parlare e dire cose diverse, ma ringrazio il destino per essere passato attraverso tutte queste emozioni contrastanti, turbolenze, momenti ricchi di dubbi, delusioni, frustrazioni, rabbia… sono un essere umano e tutti viviamo situazioni difficili. È una curva di apprendimento, davvero. Mi ha permesso di conoscermi meglio, con maggior profondità”. E Novak mi ha quasi commosso, come già sul campo quando ha potuto salutare suo figlio Stefan che gridava “Daddy, Daddy”, quando ha detto: “Pensare a mio figlio è stata una motivazione in più, se non la più grossa perché mi ero immaginato il momento in cui sarebbe potuto entrare in tribuna e festeggiare con mia moglie e tutti. È dura da descrivere, non era mai stato prima nel mio box a guardarmi in un match e speravo che accadesse a Wimbledon perché ora è abbastanza grande e può stare tranquillo per mezz’ora… forse. Qui ci sono regole speciali e si devono rispettare. Non ha ancora 5 anni e non puoi stare lì altro che per una premiazione, come successe un anno fa per i figli di Roger”.
Ecco, dietro le vittorie, i record, il poker di Djokovic e i 13 Slam che lo avvicinano a Pete Sampras dopo due anni di gap – sembrava che Novak potesse avvicinare i record di Roger e Rafa ed è invece rimasto un po’ indietro – sono forse certi aspetti e contorni umani, la orgogliosa paternità di Nole, la travagliata maternità di Serena, l’avanzata anagrafe dei finalisti – tutti oltre trentenni per la prima volta, uomini e donne – a lasciare le tracce più sensibili di questa edizione dei Championship baciata dal sole come credo non mi fosse più capitato dal primo Wimbledon cui assistetti, nel 1974. Del resto, a mò di consolazione (e frustrazione) per due finali francamente deludenti come quelle di quest’anno, in tutta onestà non è che il Federer-Cilic di un anno fa o il Murray-Raonic di due anni fa, resteranno indelebilmente impresse nella mia memoria. E quanto a quelle femminili, negli ultimi sei anni, si sono sempre concluse in due set, spesso netti, come un anno fa quando Garbine Muguruza battè Venus Williams 7-5 6-0. Volete che vi ricordi le altre? 2013 Bartoli-Lisicki 6-1 6-4, 2014 Kvitova-Bouchard 6-3 6-0, 2015 Serena Muguruza 6-4 6-4, 2016 Serena-Kerber 7-5 6-3 (e non fu male). Volete che vi dica l’ultima davvero emozionante? 2005: Venus Williams-Davenport 4-6 7-6 9-7, seguita (2006) da Mauresmo-Henin 2-6 6-3 6-4. Insomma non lamentiamoci troppo, soprattutto quest’anno che nel singolare femminile almeno abbiamo avuto una tennista, Camila Giorgi, capace di raggiungere i quarti di strappare un set a Serena Williams anche se…non la guarda giocare, tantomeno la studia perché “io faccio il mio gioco” e “il tennis femminile non mi interessa”. Io dico che se qualcuno, in famiglia o fuori dalla famiglia, riuscirà a trasmetterle passione per questo sport che lei sembra considerare poco più che un lavoro, e insieme alla passione anche la professionalità di un atleta che dovrebbe conoscere a menadito le caratteristiche dei suoi avversari/e, Camila ci darà altre soddisfazioni. Se c’è riuscita con tutti questi limiti oggettivi, pensate un po’ cosa potrebbe fare il giorno che li avesse superati.