Impressioni di Parigi. Ernests Gulbis: l’ultimo top ‘spleen’
Impressioni di Parigi: il grande ritorno circolare di Simone Bolelli
Era Parigi. Quando l’ho visto la prima volta me ne sono innamorato. Di fronte a lui c’era Djokovic. Non ancora il RoboNoleMasticaTutti, ma già l’uomo di gomma proiettato nella sua autistica prospettiva cannibalesca, anche se “just for due anni”. Erano giovani. Da certi sguardi, da certe intensità negli scambi, si capiva che erano amici e che da giovanissimi era Ernesto quello più bravo. L’arco disegnato dalla triade gamba-schiena-braccio nel movimento di servizio di Gulbis mi ha colpito come pura bellezza classica. Il rovescio di Nole era già un capolavoro cinetico ma la fiondata bimane di Ernests era misteriosamente morbida nella sua crudeltà definitiva.
In tre o quattro set tiratissimi ha vinto Nole ma, in quel giorno parigino, il futuro mi sembrò scritto. Dopo Safin un altro matto avrebbe regalato giornate indimenticabili al tennis e sospiri proibiti alle signore. Perché Gulbis è uno di quegli essere umani privilegiati che se gli metti due stracci sembra elegantissimo, se lo vesti Giorgio Armani rimane sexualmente arruffato e se lo svegli in piena notte con una racchetta in mano ti spara due ace tra uno sbadiglio e un sorriso svogliato. Poi le cose sono andate diversamente e non credo che la causa sia solo da ricercare nei limiti tecnici del suo diritto-Albatros, quasi inguardabile. Scalpi importanti, una comparsata nella top 10 e poi via, risucchiato dalla complessità della vita, da Dostoevskij o da chissà cos’altro.
Poi di nuovo Parigi. Il piccolo principe ricompare sul mio schermo. Sembra passata una vita. Il campo sarà il numero 407. Poca gente sugli spalti. Dall’altra parte della rete Berrettini. Il nuovo prospetto italico. Una specie di Cilic minore. Più legnoso nei movimenti, più debole nel rovescio ma infinitamente più intelligente nel capire il gioco. Tra lui e il suo futuro ci sono solo due piedoni difficili da addomesticare. Gulbis mi sembra un sopravvissuto. Come incontrare Jim Morrison cinquantacinquenne che porta a spasso il cane. Se possibile la barba lo rende ancora più bello. Mi ha sempre dato l’idea di essere uno di quelli che quando entra in un bar tutte le donne cominciano a parlare sottovoce. Uno così lo ami o lo odi. L’arco del servizio è ancora pura bellezza classica. Il rovescio la solita estensione nervosa del cervello. Il dritto-Albatros la ruota della fortuna. Perde anche questa volta. Per meriti di Berrettini ma anche per altro.
Vedo nella perfezione dei movimenti di Gulbis una non adeguata ricerca della palla. Se va dentro bene altrimenti non fa nulla. Sembra uno che sta sul campo per puro dovere. Una promessa fatta al dio del tennis in cambio del talento donato ma non c’è una vera partecipazione emotiva. Quasi che lui quel talento non lo ha chiesto, non lo ha voluto. Per molti sarebbe una benedizione. Per lui è una maledizione dorata. Ma non c’è rabbia, né snobismo nella sua partita. C’è la consapevolezza wallaciana che la vita in fondo è un dono complesso fatta di molte cose. Nell’epoca sterile e stereotipata del superprofessionismo, sacrificarla in nome di una semplice vittoria non è forse la cosa migliore da fare e, probabilmente, neppure la più saggia.