Il nostro sport al top con gli Internazionali (Pieretti). Fenomeni contro (Azzolini)
Il nostro sport al top con gli Internazionali (Simone Pieretti, Il Tempo)
Il Presidente della Fit Angelo Binaghi è un dirigente concreto. Lo intervistiamo due giorni dopo la conclusione degli Internazionali BNL d’Italia, un successo straordinario ottenuto grazie anche alla sua squadra di lavoro. «Dopo la fine del torneo, per una settimana io sto in coma profondo – sottolinea – mi creda, almeno in un paio di occasioni dopo gli Internazionali sono finito in ospedale, lo scorso anno ero in terapia intensiva, con depressione immunitaria da stress. Questo avviene per me ma anche per tutti gli altri a cominciare da Diego Nepi Molineris e Sergio Palmieri. Mettere in piedi un torneo come gli Internazionali di tennis è una fatica abominevole, è uno stress altissimo».
Il torneo ha avuto un successo straordinario, Roma è stata il centro del mondo per un’intera settimana.
Per noi questo è un grande stimolo, ma rappresenta anche una grossa responsabilità: la grande visibilità funge da cassa di risonanza, ogni aspetto viene ingigantito, nel bene e nel male.
La Fit ha riportato gli Internazionali a un livello top.
Quindici anni fa facemmo una bella bonifica del territorio, abbiamo cacciato i mercanti dal tempio, se posso parafrasare qualcuno di molto più importante di me; c’era un degrado morale che generava un’inefficienza generale: la manifestazione stava morendo, c’era un deficit di un paio di miliardi, mancavano gli sponsor e gli spettatori. Da quel momento c’è stata l’inversione di tendenza, oltre agli sponsor abbiamo trovato anche la compartecipazione del Coni.
Nonostante i numeri della Fit, qualche critica non manca.
Le cifre certificano la bontà del nostro lavoro, ma ai critici rispondo dicendo che abbiamo ereditato una Federazione disastrata, sull’orlo della bancarotta. Oggi è la più ricca di tutte. I primi due mandati da presidente mi sono serviti per ricostruire la struttura. Poi – oltre ai risultati economici – sono arrivati nei due mandati successivi anche grandi successi sportivi.
La copertura del Centrale è uno dei prossimi progetti.
Tutti si sono resi conto della necessità di un tetto per il Centrale: se ne è resa conto il sindaco Raggi, il Presidente del Coni, i presidenti delle altre federazioni che potrebbero far disputare le gare delle loro discipline all’interno del Centrale rendendolo funzionale per dodici mesi. Siamo in un’area vincolata, non è semplice. Ma ho fiducia nel Presidente del Coni che se ne occuperà personalmente.
Servirebbe altro per migliorare ulteriormente la struttura?
Ci vorrebbero molti più parcheggi. Dieci anni fa c’era un progetto che prevedeva la realizzazione sotterranea dei parcheggi. Non so che fine abbia fatto.
È favorevole al restyling della Coppa Davis?
Tutti questi soldi vorrei prima vederli… Sono assolutamente contrario. La Coppa Davis e la Fed Cup sono gli unici asset che ha la Federazione internazionale. Svenderli in questo modo sarebbe una follia. Noi voteremo contro.
Cosa può fare la Fit per accrescere la qualità dei giocatori?
Continuare a investire sempre di più. Rendere ancora più larga la partecipazione al progetto “Racchette di classe” che stiamo portando avanti nelle scuole, visto che in Italia non lo fa nessuno, ce ne facciamo carico noi. Per la prima volta abbiamo messo in mano una racchetta a 100 mila bambini, questa deve essere la strada per trovare ragazzi sui quali investire. I talenti atletici sono sempre andati nel calcio, nel basket, nella pallavolo, in questi sport che per primi si imparano quanto si entra a scuola.
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Fenomeni contro (Daniele Azzolini, Tuttosport)
Nell’anno della prima vittoria al Roland Garros – anno 2005 -, Nadal chiese a un amico italiano dell’Atp di farlo palleggiare almeno una volta sull’erba con Federer. Lui, ragazzino, si vergognava a chiederglielo. Informato della richiesta, Roger organizzò uno scherzo. Entrò nello spogliatoio sbattendo la porta e chiese urlando all’amico dell’Atp, seduto di fianco a Rafa, chi fosse quel rompiballe che voleva allenarsi con lui. Rimpicciolitosi alla dimensione di un tubo di palle, Rafa alzò il ditino, a indicare se stesso. Finì fra abbracci e prese in giro, e i due andarono in campo assieme. L’amicizia comincia così, e prosegue ancora oggi, dopo 13 anni, 36 titoli dello Slam (20 per Roger), e 59 trofei Masters 1000 (32 per Rafa) vinti in lieta comunione. La rivalità è invece in divenire, e segue un proprio spartito, talvolta strutturato sul principio della pantonalità dodecafonica, quando a impugnarlo sono le mille voci provenienti dalle opposte fazioni. La cosa curiosa è che spesso, nel dare corpo alla Sinfonia degli Opposti, mancano i due strumentisti principali, non tanto interessati a una rivalità compiuta, quanto ai benefici di un comune approdo, forse quello di un tennis ideale, governato a due voci, quelle dei Più Grandi di sempre, nel quale la terra rossa appartenga a Rafa, l’erba e il sintetico a Roger, e il “duro” al più forte del momento. Non a caso, da tempo, si è condensata di fianco alle truppe belligeranti dei nadaliani e dei federeristi, una terza fazione, più avveduta nel cogliere il vero significato della disputa, per non dire semplicemente più furba. La chiamano la schiera dei “fedaliani”, da Fedal, sorta di ircocervo tennistico, mezzo Federer e mezzo Nadal, una chimerica ma a suo modo saggia assurdità che fa da acronimo alla ditta più ricca di trofei che si possa immaginare. Ma è bastato poco a dare forma a un nuovo rivolo dell’eterna polemica, su chi sia il migliore fra i due, se l’uomo nato per giocare a tennis, o il muscolare figlio della giungla, che ha conquistato il tennis con il cuore, la corsa e il sudore, opponendo a Sua Altitudine ciò che di più umano appartiene all’essenza stessa dello sport. È bastata una breve considerazione di Rafa, in risposta a una domanda di qualche tempo fa circa gli ultimi confronti con Roger; che l’hanno visto sempre battuto (cinque di seguito, quattro nel 2017). «Beh, se lo incontrassi ogni tanto sulla terra rossa, forse il conto di questi ultimi mesi non apparirebbe così negativo». Eccolo il punto.. Federer è due anni che non gioca sul rosso, e ora che Rafa sembra tornato un ragazzino (un po’ come Roger, tanto per restare in tema) e vince a mani basse l’undicesimo titolo a Monte-Carlo, l’undicesimo a Barcellona, l’ottavo a Roma e si appresta a fare lo stesso a Parigi, anche lì per l’undicesima volta, la fazione dei suoi fedelissimi è tornata a dare battaglia, e a scrostare dall’immagine di Federer quel po’ di allure che, a loro dire non può permettersi se non accetta lo scontro a tutto campo. Ora, a noi la sfida sembra ancora in atto. Roger non si è mai tirato via dalla disputa sul rosso, e a Parigi Rafa gli ha mandato di traverso quattro finali, una, nel 2008, a dir poco dolorosa: finì in tre set (61 63 60) e Federer racimolò solo schiaffoni. Lui lo giocherebbe pure il Roland Garros, anzi, giocherebbe ovunque, ma il suo team glielo impedisce, perché oggi “quelli come Roger e Rafa” sono aziende, e devono mirare al mantenimento del prodotto sul mercato (se stessi), il più a lungo possibile. E se Roger gioca Parigi, è difficile che a Wimbledon possa poi correre leggero. Roger sta per compiere i 37, Rafa al Roland Garros ne farà 32. Federer ha vinto di più, ma Rafa ha cinque anni per recuperare, se sarà in grado di invecchiare come Federer. Non facile, ma qualcosa indica che ci stia provando (non accetta più i lunghi scambi, per esempio). Ed è probabile che il prossimo anno, sì, forse i giovani saranno ancora più vicini, ma noi saremo ancora qui a parlare di loro.