Estrella torna nel regno di Quito: “Voglio giocare fino a 40 anni”

Un posto dove l’anima respira, il cuore si espande, istinto e talento raggiungono il massimo livello elastico consentito. Tutti hanno un luogo del cuore, ma per gli sportivi, e massime per quelli di successo, la faccenda assume significati leggermente differenti. La storia è stipata di buoni atleti, campioni affermati, fenomeni assoluti che hanno legato il proprio nome a una città, a una pista, a un palcoscenico, teatro delle loro più grandi imprese: Ronaldinho al Bernabeu, Marcel Hirscher sulla Gran Risa, Silvia Farina a Strasburgo. Victor Estrella Burgos ha trovato il suo angolo di Eden in cima ai 28o0 metri di Quito, capitale dell’Ecuador ospitante dal 2015 un peculiare torneo ATP che inaugura la gira sudamericana: l’albo d’oro è un’esclusiva di Victor da Santiago de Los Caballeros, centosettanta centimetri di puro furore agonistico sorprendentemente apparso nell’Olimpo del ranking quattro anni orsono e deciso a non mollare la presa per molto tempo ancora.

Ho iniziato tardissimo, per questo sono arrivato a giocare determinati tornei all’età in cui molti professionisti cominciano a pensare di smettere – ha candidamente ammesso Estrella Burgos durante una bellissima intervista concessa a Steve Flink per Tennis.com -; in Repubblica Dominicana non c’è grande cultura tennistica, io sono stato una sorta di pioniere. Come tutti i ragazzini dominicani ho giocato a baseball nel corso della mia adolescenza, e sono convinto del fatto che se avessi continuato a lavorare duro avrei potuto farne una professione, perché avevo buon occhio e correvo veloce”. Fino a quando qualcuno gli ha presentato palline di feltro e racchetta: fu una folgorazione. “Ho praticato entrambi gli sport per un discreto periodo e in molti avrebbero voluto continuassi con il baseball, ma il tennis per me stava diventando un’ossessione sempre più grande, volevo arrivare a tutti i costi, e intorno ai quattordici anni ho compiuto la mia scelta”.

Una scelta di cuore e un obiettivo non facile da perseguire, ci si perdoni l’eufemismo. “Non sapevo cosa occorresse fare nella routine quotidiana per diventare un professionista; non avevo allenatore né fisioterapista e soprattutto non avevo soldi, quindi mi arrangiavo a giocare i pochi Futures a portata di mano, essendomi preclusa la possibilità di spendere per lunghi viaggi. Dai 18 ai 26 anni ho avuto un ranking pessimo perché giocavo sei tornei all’anno e francamente cominciavo a sospettare che non avrei mai ottenuto i risultati che sognavo”. In effetti le premesse non deponevano a favore del buon Victor, ma la sua tenacia ha potuto più del denaro, e i risultati cominciarono ad arrivare, alla chetichella: primo punto buono per il ranking a ventidue anni; primo torneo disputato nel circuito maggiore a ventisette; ingresso tra i primi 200 delle classifiche a trentuno; primo incontro vinto a livello ATP a trentadue. Estrella-Burgos non ha fatto il suo debutto nella top 100 prima di compiere i trentatré anni e a quel punto ha deciso di perseverare, spingendo a testa bassa fino a guadagnarsi un best ranking addirittura al numero 43, festeggiato il 13 luglio del 2015. Una parabola tanto stupefacente quanto anomala, solo leggermente meno entusiasmante del trionfo in un torneo: perché i numeri danno soddisfazione ma rimangono freddini: vuoi mettere sollevare la coppa del campione indossando il jipijapa a tesa larga simbolo del trionfo?

Trionfo che lo ha colto, anche un po’ di sorpresa, a Quito. Della città andina, seconda capitale più “alta” al mondo dopo La Paz, Estrella-Burgos è l’imperatore. Entrando nell’edizione 2018, dove peraltro ha iniziato con un ulteriore successo battendo al primo turno Thomaz Bellucci, il dominicano vantava una striscia aperta di quindici vittorie, laddove di sconfitte tuttora non c’è traccia. Dal 2015, egli ha conquistato tre edizioni consecutive della manifestazione ed è il solo giocatore in attività ad aver vinto per tre o più volte il solo torneo della carriera. Riuscirebbe difficile immaginare l’incidenza dell’Ecuador Open sui numeri di Estrella, senza analizzare questi ultimi con attenzione: amputando i risultati ottenuti a Quito dal consuntivo generale, Victor avrebbe un record complessivo nei tornei ATP e Grande Slam di 29 vittorie a fronte di 59 sconfitte. Ma è uno sguardo al ranking finale delle ultime tre stagioni, al netto dei punti messi insieme a suon di vittorie nel 250 ecuadoriano, a fare una certa impressione: Estrella-Burgos avrebbe chiuso il 2015 non alla posizione 56 ma alla 108. Nel 2016, terminato a ridosso dei primi 100, sarebbe precipitato alla 170. Lo scorso anno, archiviato con un soddisfacente ottantatreesimo posto, egli sarebbe stato respinto fino a un molto meno gradevole numero 142.

Questa settimana scadono altri 250 punti, e il rischio di scivolare ben oltre i confini della top 100 sono concreti: i motivi per preoccuparsi sarebbero anche fondati, ma Victor ostenta la faccia serena di chi ha visto di peggio. “Non ci penso, devo conservare ogni stilla di energia per giocare un grande tennis, il migliore che io possa mettere sul piatto. Non potrò fare molto di più, vedremo cosa avrà in serbo il destino. Naturalmente quello di Quito è un torneo speciale per me, amo le condizioni e vengo qui ogni anno qualche giorno prima per adattarmi al meglio. Ci sono momenti in cui sento che potrei giocare contro chiunque e non perderei, ma ancora, è bene ripeterlo, la sola cosa che posso fare è tirare fuori tutto ciò che ho dentro. Ho vinto tre volte in fila, e sono tornato per vincere anche il quarto titolo”.

Gli anni saranno 38 ad agosto, ma il percorso del miglior tennista dominicano di ogni epoca sembra tutt’altro che giunto al termine. Il fisico è tirato a lucido come non mai e l’esperienza accumulata ha il profumo del miglior carburante. “Avendo iniziato tardi, è come se sentissi di avere qualche anno di bonus. Fisicamente non sono mai stato così bene e l’obiettivo è quello di giocare ad alti livelli per almeno altre quattro stagioni. A metà percorso avrò compiuto quarant’anni, e se il 2 agosto del 2020 sarò ancora intorno alla centesima posizione del ranking potrò dire di aver fatto un bel lavoro”. Sospettiamo che un bel lavoro sia già stato fatto, e non siamo i soli. Estrella, ragazzo solare e ben voluto da tutti nel tour, vanta un motivatore d’eccezione, anche se le logiche motivazionali del suddetto spesso assumono i connotati di severe punizioni tennistiche.

Rafa Nadal è un caro amico. Uno dei miei più grandi sogni da professionista è sempre stato affrontarlo al meglio dei cinque set sul centrale di un torneo dello Slam e finalmente è accaduto all’Australian Open, dove per giunta era numero uno del mondo”. Un’esperienza abbacinante: Nadal visto dall’altra parte del net regala la percezione plastica della feroce determinazione applicata allo sport: spesso dal tête-à-tête ci si congeda con le ossa rotte, ma tutto sta nel saper tesaurizzare ciò che di buono la lezione ha avuto da offrire. “Ho perso 6-1, 6-1, 6-1, e ogni game, ogni singolo punto me lo sono dovuto sudare. Rafa non concede niente, eppure mi sono allontanato con una carica mentale persino superiore a quella che può regalare una vittoria ordinaria. Alla stretta di mano gli ho confessato che non avevo più nulla da chiedere alla mia professione dopo quel match, e che avrei potuto ritirarmi in quel preciso momento”. Immaginare la reazione del maiorchino non è eccessivamente difficile: “No Victor, tu continui a giocare. Prima di tutto devi andare a Quito e alzare quel trofeo per la quarta volta!”. E in effetti il caro, vecchio Estrella a Quito ci è tornato. Per stupire ancora una volta.