I tennisti italiani maturano tardi. È storia. Mai avuto un enfant prodige

L’articolo che ho scritto ieri su Camila Giorgi ha scatenato un po’ di commenti, fra chi ritiene che non diventerà mai forte e chi invece pensa che abbia ancora chances… nonostante i 26 anni appena compiuti (il 30 dicembre). Ecco, al di là delle disamine tecniche sul suo gioco, sulla potenza dei colpi che tutti le riconoscono e sulla poco varietà degli stessi che quasi tutti le rimproverano, sulla disinvoltura che rasenta l’incoscienza con la quale affronta qualsiasi top-ten accompagnata però da certe carenze strategiche, sull’insistenza nel sostenere che non esiste un piano B e che del tipo di tennis praticato dall’avversaria non importa tener conto “perché tanto io faccio il mio gioco”, mi hanno fatto riflettere più di tutte queste osservazioni risapute, trite e ritrite, i commenti di molti che hanno sottolineato appunto i suoi 26 anni come un’età nella quale “chi ha dato ha dato e chi ha avuto ha avuto”.

  1. Ma davvero 26 anni sono tanti?
  2. E davvero dobbiamo ritenere che 26 anni siano meno in Italia, per un tennista italiano, piuttosto che altrove?
  3. E perché mai?

Al primo interrogativo la prima risposta è interlocutoria: dipende. Dipende da quale è lo sport di cui si stia parlando, dipende da che tipo di vita abbia vissuto il ventiseienne in questione. Per quanto concerne il tennis ormai non è più tempo di trionfi ottenuti da teen-agers. Come ho scritto nell’articolo su Giorgi – che tra parentesi in termini economici ha già vinto abbondantemente perché di soli premi la famiglia Giorgi ha incamerato 2,5 milioni di dollari – l’età media delle giocatrici top 100 è 26,5 anni, l’età media delle giocatrici top 50 è 27,4 anni, l’età media delle giocatrici top 20 è 26,6 anni. Di questi dati devo ringraziare un lettore di Ubitennis il cui nick-name al momento non ricordo. Quindi Camila è in perfetta linea con i tempi che non sono più quelli in cui una sedicenne Hingis, o le diciassettenni Sanchez, Graf e Seles, erano capaci di vincere Slam. Lo sport è cambiato, ci vuole più tempo per affermarsi, per gli uomini come per le donne. Qualche enfant-prodige può spuntare ancora – la Kostyuk? – e magari c’è una Ostapenko che sorprende il mondo vincendo il Roland Garros a 20 anni. Ma non più a 17 o 18.

Il secondo elemento cui alludevo è il tipo di vita vissuta dal soggetto di cui stiamo parlando. L’ambiente nel quale è cresciuta. Ebbene, la vita di Camila non è stata facile. Le è morta la sorella Antonella di 23 anni in un incidente stradale a Parigi nel 2011. Una vicenda traumatica ovviamente per tutta la famiglia e in particolare per la mamma (Claudia Fullone) è stato comprensibilmente un colpo durissimo. Il papà di Camila, Sergio, è certamente un uomo molto particolare, di notevole personalità, con un ruolo difficili da assolvere, sia padre sia coach, straordinariamente istintivo e certamente ingombrante. Il rischio che quel tipo di personalità esuberante rischiasse di schiacciare un figlio, una figlia, c’era tutto, obiettivamente. La famiglia Giorgi ha attraversato momenti economici difficili e Camila non può non aver risentito di quelli, dei continui trasferimenti da un Paese all’altro, quando neppure la nazionalità da scegliere era scontata, di certe traversie legali con presunti sponsor dagli accordi poco chiari in America con avvocati etecetera, ben prima delle liti giudiziarie con la Federtennis. Non il clima ideale per far  crescere uno sportivo che avrebbe bisogno di serenità, tranquillità, concentrazione.

2) La storia del tennis italiano dice che un fenomeno teenager non lo abbiamo mai avuto. Pietrangeli cominciò a vincere sul serio intorno ai 24 anni, Panatta a 20 anni ebbe le prime vittorie importanti (Graebner, Orantes, Pietrangeli che aveva 17 anni di più) ma furono sporadiche per un bel po’ e il suo miglior anno lo ebbe a 26 anni, nel 1976. Bertolucci è stato n.12 del mondo nel ’73 perché aveva vinto Amburgo a 22, Barazzutti (classe ’53) ha fatto bene nel ’77-’78, quindi sui 24-25 anni. Forse Andrea Gaudenzi che vinse il torneo junior del Roland Garros a 17 anni – se non vogliamo sopravvalutare Diego Nargiso che vinse Wimbledon junior ma non è mai stato un singolarista da primi 60 – poteva essere considerato un giovane piuttosto precoce, però perse poi un anno per una malagestione federale con il sudafricano Bob Hewitt che non era davvero il coach adatto per un ragazzino. Omar Camporese, classe 1968, ebbe i suo anni migliori, Rotterdam, Milano, le battaglie del ’91 qui in Australia con Becker dal quale perse 14-12 al quinto, ma poi battè Stich a Dortmund, nel ’91. Ma gente come Sanguinetti e Pozzi hanno fatto i loro migliori exploit quando erano vicini ai 30. Paolo Lorenzi e lo stesso Seppi, autore di una prestazione maiuscola e di una bella impresa, 9-7 al quinto su Karlovic. E mi perdonerà se non lo citerò abbastanza.

Idem anche Silvia Farina, e tutte le nostre ragazze che salvo la Errani che ha fatto finale a Parigi a 25 anni, sono state più forti intorno ai 30 che ai 25. La Schiavone ha vinto il suo Roland Garros a 30 anni, la Pennetta l’US Open a 33 contro una Vinci che ne aveva 32. A conclusione del punto B va quindi sottolineato che noi enfant prodiges non ne abbiamo mai avuti, né maschi né femmine, diversamente da quasi tutte le altre nazioni europee (solo i primi esempi che in un nano secondo mi vengono a mente sono: Svezia con i vari Borg, Wilander, Edberg, Germania con i Becker, Graf, Huber, Francia con  Noah, Gasquet, Mauresmo, Repubblica Ceca con Lendl, Navratilova, Spagna con Bruguera, Nadal, Sanchez, Croazia con Ivanisevic, Belgio Henin, Clijsters, Serbia Djokovic, Seles) e non europee (Australia Hoad e Rosewall, USA McEnroe, Sampras, Agassi, Chang, Courier, Cile Rios, Russia Medvedev, Kafelnikov, Safin, Brasile Kuerten etcetera). Non state a sottolineare tutti quelli che non ho messo. Bastano questi nomi a spiegare che quella dell’Italia nel tennis è una situazione molto particolare. Purtroppo.

c) Perché non li abbiamo mai avuti allora? È un caso? No, non è un caso. È un discorso legato alla educazione, alla nostra cultura, alle nostre tradizioni e anche alla nostra disorganizzazione. La nostra educazione dice che in una famiglia sana e nella quale i genitori sono piuttosto uniti e rendono l’atmosfera di casa piacevole, si sta bene. Non c’è nessun motivo particolare per dover fuggire da loro, per andarsene via. Da noi non ci si sono i colleges, les ecoles de cadre, lontane da casa dove fino dall’età delle scuole medie inferiori i ragazzini e le ragazzine inglesi e tedesche vengono spediti a studiare e maturare. Da noi si cerca la scuola pubblica, o anche privata, il più vicino possibile a casa, così si torna a mangiare a casa dove c’è la mamma, o anche la nonna, che prepara da mangiare e che stira le  camicie (e il resto) sempre che non si stia così bene da potersi permettere anche un aiuto domestico. Inutile qui riaprire la polemica che si scatenò addietro sugli italiani mammoni. Ma è abbastanza così. Salvo che per gli abitanti dei piccoli centri, non solo le scuole medie superiori e licei vari ma anche l’università – per chi la fa – la stragrande maggioranza degli italiani la fa sotto casa, dietro l’angolo. Perché… costa meno, perché è meno impegnativo, perché è terribilmente più comodo. Per i ragazzi, figurarsi per le ragazze dalle quali le nostre mamme italiane ancor meno vorrebbero distaccarsi. Una mamma che vedesse il proprio figlio diciottenne, la propria figlia ventenne, che si allontana da casa, dalla cuccia materna, per sei mesi l’anno… soffre come un cane (nella maggior parte dei casi eh… sto generalizzando, e insomma prendete un po’ quel che scrivo con beneficio d’inventario perché ovviamente la casistica è infinita).

Ma tutto ciò, in tutti quei casi che rientrano nella descrizione così sommariamente accennata, rallenta terribilmente il nostro processo di crescita, di maturità, di autonomia, di indipendenza, di sviluppo della personalità. Nella vita – a causa anche di un sistema scolastico che ci costringe a cinque anni di scuole superiori quando invece altrove sono quattro quando non tre, per non parlare di quei corsi di studi universitari che richiedono cinque anni più o anche più di specialistica – si avanza in ritardo rispetto a francesi, americani, spagnoli, tedeschi. Nello sport idem. Il tennista nasce di solito in un ambiente familiar-sociale borghese, spesso di alta borghesia dove non si fa la fame come in certe realtà dell’Est Europeo, non si hanno gli stessi stimoli che spingono a “dover” arrivare per non vanificare gli sforzi dei genitori. E si ha tutto a portata di mano, il circolo, il maestro, perfino il torneo. Si possono giocare tanti tornei spostandosi il giusto. Oggi anche i Futures e i Challenger una volta esaurita l’epoca dei primi tornei giovanili. I secondi tornei giovanili già possono cominciare a coincidere con l’attività semiprofessionistica. Che si continua a fare con il minor dispendio possibile di energie, inclusi i minimi spostamenti.

Qui c’entra la cultura di una società, ovviamente. All’estero una mamma… due genitori che bloccano i figli dal prendere rischi, dall’uscire di casa a cercare fortuna, dal fare studi precoci all’estero, vengono considerati cattivi genitori, sono motivo di imbarazzo. In Italia no. Più facilmente si plaude invece alla loro volontà di tenere il più unita possibile la famiglia, alla capacità di fare sentire in forma permanente e presente il calore degli affetti. Sulla cultura si è permeata una tradizione che è dura a morire, anche se le necessità di costruirsi una formazione adeguata per trovare lavoro e la crescente difficoltà di trovarlo in un mondo sempre più duro e competitivo, sta pian piano allentandosi. La mentalità di genitori e ragazzi sta cambiando. Saranno magari meno spensierati i ragazzi di domani, ma matureranno prima.

Ma c’è anche un problema di disorganizzazione. Disorganizzazione della scuola, della famiglia, del mondo dello sport con gli enti preposti a promuoverlo, facilitandone l’accesso, organizzandone lo sviluppo, formando le strutture tecniche e gli uomini più preparati a trasmettere le proprie conoscenze. Quest’ultima parte – per quanto concerne il tennis – dovrebbe essere svolta, coperta, da una Federtennis diretta da persone in gamba fortemente appassionate e motivate. Allargare la base dei tennisti in maniera scientifica, istruirla, selezionare con i tempi giusti la parte migliore, concentrarla in uno o più centri diretti e seguiti dai migliori tecnici in circolazione. E per migliori intendo che quei “tecnici” debbano essere i  migliori possibili anche come persone, come maestri di vita con caratteristiche non improvvisate, perché “maneggiando” senza cura ragazzini dai 12 anni in su si possono fare danni anche assolutamente non trascurabili e semi-permanenti. Ci sono federazioni poverissime, in Sud America e altrove, ma non è il caso della nostra. Il punto è che i nostri “tesoretti” sono gestiti malissimo. Evitando di segnalare per l’ennesima volta il fallimento del centro tecnico federale di Tirrenia, incapace di tirar su in quindici anni qualche buon elemento per presumibili incompetenze di alcuni “educatori” altrimenti non si capirebbe come sia possibile che da un centinaio di ragazzi convocati in tutti questi anni non sia uscito fuori un solo buon tennista, l’unica speranza di avere qualche tennista in grado di arrivare fra i primi 30 giocatori del mondo è affidata a qualche gruppo privato che andrebbe allora finanziato – senza regolette vessatorie di sorte – dalla ricca federazione. La quale però, in tutt’altre opre affaccendata, si batte per tutt’altri obiettivi.

Concludo perché l’ho fatta anche troppo lunga. Chi è stato bravo a farsi strada nel professionismo, anche le nostre ragazze di Fed Cup, lo ha fatto sulle spalle dei genitori e dei propri coach (magari anche il papà come nel caso di Camila Giorgi). Trovando aiuti e supporto di vario tipo soltanto quando ormai il più era fatto. Solo che per fare quel… più, i ragazzi e le ragazze sono maturati tardi. Ovunque. Camila Giorgi è una di quelle. Ha 26 anni ma è come se ne avesse 22 in termini di esperienza, di know how. Date gli strumenti adatti a questi ragazzi e date loro fiducia e forse anziché a 26 matureranno a 22. Ma chi dice che un tennista italiano a 26 anni è ormai vecchio e poco credibile non ha capito granchè. Gli anni migliori di Camila devono ancora venire. E anche quelli dei ventiduenni di oggi. Per questo motivo ho scritto che io credo ancora in lei