Sock come Roddick. Federer: “Basta sognare il numero 1”
C’era una volta l’America. Da dieci anni c’è solo il Nebraska. Già, perché dieci anni fa il Nebraska Kid Andy Roddick era stato l’ultimo americano a centrare una semifinale al Masters ATP di fine anno. E oggi un altro Nebraska Kid, Jack Sock, con quel nome e cognome indimenticabili (pensate voi quante gliene direbbero in Italia se avessimo avuto un campione che si chiamava Giacomo Calzino… già basta un Fogna per dirne di tutte), torna in semifinale e reduce dal successo di Bercy ha tutta l’aria di non darsi per vinto neppure contro Dimitrov che pure resta certo il favorito. Ma contro di lui era favorito anche Sascha Zverev e invece abbiamo visto che fine ha fatto il tedesco, demolito prima di tutto dalla sua discontinuità e infatti così furibondo da rispondermi che questa era la sua peggiore sconfitta fra quelle, dolorosissime, subite in tutti gli Slam (k.o. con Nadal, Verdasco, Raonic, Coric): “Questa e quella con Coric. Con Coric è stata la partita giocata peggio, forse, in tutto l’anno. Quella di oggi è stata ok come tennis, ma sono stati i nervi a tradirmi, mi hanno tolto quello che sapevo fare meglio”.
Detto che Rainer Schuettler nel 2003 era stato l’ultimo tedesco a raggiungere le semifinali del Masters – così ho sistemato tutte e due le nazioni dei protagonisti del match serale di giovedì – torno sul “C’era una volta l’America” del mio “comincio”. Non confondetelo con “C’era una volta il West” grande primo film della fantastica Trilogia di Sergio Leone (Claudia Cardinale, Henry Fonda, Charles Bronson), né con il terzo “C’era una volta in America” (Robert De Niro, James Woods, Elizabeth McGovern). C’era una volta l’America perché per decenni, dalla “scomparsa” ai vertici agonistici della Gran Bretagna di Fred Perry e Bunny Austin negli anni 1936-1937, Stati Uniti e Australia hanno dominato il tennis mondiale fino, direi, agli anni di Nastase e poi Borg. A vincere la Coppa Davis, che allora rifletteva ancora la forza tennistica di un Paese, erano sempre Australia e Stati Uniti, i cui migliori rappresentanti facevano man bassa di Slam. A fine anni ’70 – ma qualcuno dei lettori più preparati e volenterosi vada a cercarsi l’anno esatto e rinfreschi la memoria a tutti – 42 dei primi 100 tennisti del mondo avevano passaporto americano.
Nello Stato di Roddick e Sock, dei Sioux e Buffalo Bill (ma anche di Marlon Brando, Fred Astaire, Montgomery Clift, James Coburn, Henry Fonda fra mille celebrities) oltre ad essere bravi a giocare a tennis – quando trattandosi di un Paese subito sotto al Sud Dakota e un po’ sopra al Colorado (ma più ad est) ti aspetteresti semmai qualche buon sciatore – devono avere anche un grande sense of humour e non solo un grande servizio e una formidabile botta di dritto (con invece un rovescio così così). Roddick, subito dopo Goran Ivanisevic e con Marat Safin, è stato forse il tennista più spiritoso che io abbia mai avuto l’opportunità di sentire nelle conferenze stampa post-match. Ma anche Sock è davvero simpatico, buffo. Sarà un caso ma quasi tutti i doppisti, e gli ex doppisti, sono spesso più genuini, più naturalmente estroversi e meno egocentrici (forse perché devono comunicare con il compagno?), più umili e, probabilmente perché meno considerati dai media e dai cacciatori di autografi, anche meno presuntuosi e montati.
Ieri sera, ricordando che dopo aver subito il break all’inizio del terzo set aveva scagliato una palla in cima alla 02 Arena, beccato un penalty point a causa di un precedente warning e poi infilato una serie di 17 punti su 22, ha commentato: “Il Penalty Point è stato… stupido da parte mia, ma… ha funzionato bene!” e risata. Carlo Carnevale gli fa notare la curiosa vicenda dei due Nebraska Kid in semifinale nel 2007 e nel 2017 e lui: “Beh, stupefacente per me e il nostro Stato… Ma ora spero che non si dovrà aspettare altri 10 anni prima di avere un americano in semifinale qui”. E quando gli chiedono se Zverev abbia manifestato una certa immaturità perdendo un po’ la trebisonda: “Sascha non può bere una birra legalmente negli Stati Uniti, ma gioca un tale tennis…” Poi accade una buffa scenetta. Un giornalista chiede a Sock se non abbia avuto l’impressione che Zverev abbia avuto il braccino (“Choked”) nel terzo set, per l’appunto quando Zverev uscendo da un’intervista televisiva nel retro della stessa sala lo sente e sfilando accanto a Sock, apre la porta verso la Players Lounge e la sbatte fragorosamente dietro di sé. Tutti sobbalzano e Sock esclama: “Not the greatest moment to ask!” (“non è stato il momento migliore per fare questa domanda”).
Più banale invece il racconto della sua annata strepitosa: “Ho avuto un inizio stagione hot, poi mi sono messo troppa pressione addosso, mi sono demoralizzato, non ero dove avrei voluto essere. Poi ho ricominciato a divertirmi…”. Ha vinto Parigi-Bercy, il suo primo 1000, e ora che è qui e dovrà affrontare Dimitrov (due esordienti in semifinale al Masters era successo solo 7 volte, non è mai successo che siano stati tre. L’ultima volta furono Murray e Simon nel 2008; in questo tweet troverete le altre sei coppie… ) dice: “Per prima cosa non mi aspettavo di essere qui a Londra (dove fra l’altro aveva i punti del nono classificato nella race, ma Wawrinka che gli era ben davanti aveva dato l’appuntamento al 2018 da un pezzo), poi di arrivare in semifinale… non puoi mai sapere”.
L’altro verdetto della giornata, la tredicesima vittoria consecutiva di Roger Federer dopo Shanghai, Basilea e qui (stavolta contro Cilic), è certo meno sorprendente. Lo è semmai che sia giunta al termine di tre set abbastanza combattuti, quando molti si aspettavano che – già qualificato per le semifinali Roger, già eliminato Marin – potesse essere poco più di un’esibizione. La gente dimentica che non esiste campione privo di orgoglio, e se Roger è un campionissimo, beh Marin è uno che ha vinto un US Open e che quest’anno è stato finalista a Wimbledon (contro lo stesso Roger). Inoltre c’erano in palio 191.000 dollari per ogni vittoria nel round robin, nonché 200 punti ATP tutt’altro che disprezzabili.
Come si è cominciato a pensare a quei 200 punti, eccoci tutti a fare i ragionieri per ragionare sulle possibilità di sorpasso di Roger a spese di Rafa. Per concludere che la situazione è questa: se anche Federer vincesse questo torneo non potrebbe salire a più di 10.505 punti, mentre Nadal è a 10.645. Insomma ci sarebbero 140 punti di vantaggio per Rafa se Roger vincesse qui a Londra per la settima volta. A chi gli chiedeva se ritenesse di avere buone chances all’inizio dell’anno prossimo per scavalcare Nadal, Federer ha risposto: “Io devo difendere 2.000 punti in Australia e Rafa no. Certo ha anche lui molti punti da difendere (1200… n.d.UBS), ma non quanti me. Quindi questo è il motivo per cui non ritengo che il numero 1 sia un obiettivo realistico”.
E non lo è perché anche a Indian Wells e Miami ha molti più cambiali da onorare che non Nadal. Rafa ha buone probabilità di essere n.1 del mondo fino a Montecarlo 2018. “È interessante… – ha proseguito Roger nella sua disamina – quello del n.1 è il traguardo più importante nel tennis per qualche verso, lo è sempre stato per me. Ma a quest’età non lo è più, perché penso che farei degli errori se io cominciassi a cacciare quell’obiettivo. Non sono sicuro di quanto il mio corpo me lo consentirebbe: forse se io cominciassi a pensarci troppo spesso e… troppo, penso che non giocherei come dovrei, diventerei nervoso, non sarebbe un bene per la mia schiena. Chi sa che cosa c’è. Sono molto lontano in punti da Rafa. Intanto devo vincere questo torneo per avvicinarmi. Sono soltanto in semifinale. Mi devo focalizzare sulla semifinale prima. I grandi punti sono adesso. L’anno è andato come è andato, Rafa è stato il migliore e merita di essere dov’è. Sono molto felice per lui perché anche lui ha avuto un’annata dura nel 2016. È una gran cosa per lui. Quanto a me in Australia spero di essere a posto di nuovo e di difendere il mio titolo. Ma è ancora molto lontano quel momento”.
E ha ragione Roger a ritenere l’obiettivo praticamente impossibile da centrare, salvo che decidesse di iscriversi ai tornei di Brisbane e Sydney guadagnando punti anche lì. Ma non credo proprio che pensi di farlo, per i motivi che avete appena letto. Diciamo semmai che se anziché giocare e vincere 500 punti nella sua Basilea avesse optato per Parigi-Bercy e vinto lì il torneo (la cui finale è stata giocata da Sock e Krajinovic: insomma era un torneo alla sua portata), avrebbe preso 1000 punti invece di 500 e avrebbe potuto essere una storia diversa. In precedenza a Roger, all’ennesima domanda se non avesse qualche rimorso per aver fatto le sue scelte di programmazione, aveva detto: “No, nessun rimorso. Forse l’aver perso con Tommy Haas e Donskoy con il matchpoint a favore, ma non è che io non abbia provato a vincere quelle partite. Forse un po’ di sfortuna… ma al tempo stesso ho vinto a Miami annullando matchpoint a Berdcyh e anche altri match durante l’anno potevano finire diversamente… Nishikori in Australia… Quindi sono felice di aver giocato una grande annata, al di là delle mie aspettative. Felice anche di non avere problemi fisici ora e in salute. E ancora mi diverto”.
E ci divertiamo anche noi, sempre con quel sottile filo di angoscia che ci accompagna quando pensiamo che, tanto lui che Rafa, ma anche Nole che non ha ancora ripreso la racchetta in mano e Andy che l’ha presa da poco e senza stare ancora bene, non potranno durare all’infinito e regalarci quelle meravigliose partire che abbiamo avuto la fortuna di aver seguito in questo fin qui fortunato terzo millennio.