La nona di Venus supplente di Serena. In finale c’è Muguruza (Clerici). Venus e Roger, Wimbledon è per leggende (Guidobaldi). Venus infinita alla nona finale: «E’ stata Serena a ispirarmi» (Crivelli). Wimbledon, l’ultima rinascita di Venus (Azzolini). Venus, l’età non Konta (Marcotti). Semifinali maschili, l’erba non è per giovani (Bertolucci)

La nona di Venus supplente di Serena. In finale c’è Muguruza (Gianni Clerici, La Repubblica)

Esageravo – mi riesce spesso – l’altro giorno nello scrivere che le tenniste contemporanee non dovrebbero più essere chiamate tenniste, ma soltanto colpitrici di palle. Ad eccezione, chiarisco, delle Staordinarie Sorelle che, in qualche caso, cessano il fuoco, e si consentono di colpire la povera pallina quasi fosse un fiore. Oggi, al primo “15”, Venus è stata addirittura disturbata da un’ape. Cos’avrebbe fatto un’altra tennista contemporanea? Una racchettata e via. Venus si è invece affannata per due volte con dolci schiaffetti della mano sinistra, sinché l’ape si è rassegnata a trovarsi un’altra tennista su un campo vicino e, probabilmente, la morte. Non è stato soltanto per il dolce altruismo di Venus che io mi sono messo non dico a tifare per lei, ma a sostenerla, come facevano quasi tutti gli spettatori del Center Court in favore della Konta. Inglese d’importazione, figlia di ungheresi emigrati in Australia e, infine, in Gran Bretagna. Pareva, a chi c’era come me, di assistere alla finale del 1977 in cui, davanti alla Regina, la mia amica Virginia Wade batté l’olandesona Betty Stove. Allora non era ancora stato inventato il Falco, e su 8 chiamate dubbie ben 7 furono assegnate a Virginia. Oggi il tifo è stato più contenuto, anche perché la Konta non ha mai dato l’impressione di poter vincere, non solo per il punteggio, favorevole a Venus, dal 1° punto, al 1° game e, infine, alla conduzione di un match che uno scriba più serio farebbe bene a raccontare. Venus è stata sempre in testa, dal primo punto, ha adottato una posizione molto più vicina alla rete dell’avversaria, ha ottenuto il primo break nel 10° game del 1° set e ha chiuso il set con 8 punti a 2. Il break del 2° set è giunto nel quarto game, raddoppiato nel game finale al 3° match point, con un passante di diritto. Una partita, insomma, a senso unico mentre ne avevamo già guardata un’ altra, la prima semi, di cui sarebbero addirittura inutili le statistiche, tanto è stata univoca. La sconfitta Magdalena Rybarikova non era nemmeno attesa tra le prime 4, e mai, forse, si era immaginata di accedere al Center Court prima di avervi eliminata la più nota Coco Vandeweghe. Una serie di incidenti che avrebbero interrotto una carriera meno coraggiosa, le avevano consentito di uscire, a 28 anni, dalla nativa Bratislava, per approdare a Londra rivestita da una maglietta contrassegnata dal n. 87. Resta da annotare il nome della finalista, Garbiñe Muguruza, che oggi l’ha punita con qualcosa come 34 punti a 9, e si è anche distinta per l’assistenza di Conchita Martinez, capitana spagnola di Davis e Fed Cup, che ha preso il posto del suo coach, Sam Sumyk, che si sta sposando. Lontani appaiono i giorni in cui, giovane tennista, Conchita fu schiaffeggiata dal suo allenatore olandese Van Harpen perché omosessuale. Altri tempi.

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Venus e Roger, Wimbledon è per leggende (Laura Guidobaldi, La Nazione)

Forse mai come quest’anno Wimbledon è stato lì lì per riscrivere la sua storia grazie a due vere leggende. Roger Federer e Venus Williams sembrano seri, serissimi candidati a sollevare i due trofei più importanti, quelli dei singolari, ad un’età in cui dal 1910 nessun vincitore è mai stato più anziano di loro. Nel 1909 Arthur Gore aveva 41 anni e 182 giorni quando vinse una storica edizione perché furono introdotti gli attuali colori di Wimbledon, il verde dei prati e il viola delle petunie. Nel 1908 Charlotte Sterry ne aveva 37 e 282 giorni: in quell’anno si giocarono le Olimpiadi. Roger, 35 anni e 11 mesi, gioca oggi da favorito contro Berdych (lo ha sconfitto 18 volte su 24). Se lo batte sarà poi favorito anche con chiunque gli tocchi domenica fra i due giganti, Cilic (superato 6 volte su 7) oppure Querrey (3 su 3). Insomma oggi tutti pensano che vincerà’ il suo Wimbledon n.8, distaccando cosi Willie Renshaw e Pete Sampras fermi a quota sette. Stessa storia per Venus che, 37 anni e un mese, domani affronterà la spagnola (del Venezuela) Garbiñe Muguruza, sconfitta in 3 duelli su 4. Venus ha spento ieri (6-4,6-2 in 73 minuti) le velleità di Johanna Konta e di tutto il Regno Unito. In realtà Johanna è nata in Australia da genitori ungheresi. E’ inglese soltanto da 5 anni. Ma poiché Virginia Wade era stata l’ultima inglese ad aver vinto in Church Road nel 1977 (l’anno del centenario dei Championships) qui c’era una grande attesa che è andata delusa. Venus (le interviste su www.ubitennis.com) giocherà qui la sua nona finale. Ne ha vinte 5 e ne ha perse 3, tutte con la sorella Serena. Come Federer è sembrato in questi giorni addirittura migliore dei suoi anni migliori, così anche Venus (alla ventesima partecipazione) ieri è apparsa assolutamente infallibile. La statunitense non ha mai perso il servizio, ha rischiato per 2 breakpoint sul 4 pari, lo ha strappato alla Konta sul 5-4 e due volte sul 2-1 e 5-2 nel secondo.

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Venus infinita alla nona finale: “E’ stata Serena a ispirarmi” (Riccardo Crivelli, La Gazzetta dello Sport)

Venus non tramonta mai. E’ la luce dell’immortalità quella che abbaglia il Centrale e incenerisce il sogno della Konta e di tutto il Regno, applaudire un’inglese in finale quarant’anni dopo Virginia Wade. A 37 primavere suonate, con una malattia debilitante da cui ha tratto energia vitale anziché spavento, la Williams maggiore è ancora un faro, un tocco di eleganza e maestria in un tennis femminile ormai troppo uguale a se stesso, mentre Serena, tra un mese mamma per la prima volta, le manda messaggi d’amore via Instagram. Senza la sorella, Venere regala l’ultimo atto a Wimbledon per la nona volta in carriera (cinque vittorie), da cui mancava dal 2009. E adesso fa tenerezza e ispira romanticismo l’idea che il torneo della testa di serie numero dieci possa concludersi tra le lacrime del trionfo, visto che con le lacrime era iniziato. Lei che si alza piangente dalla conferenza stampa del primo match con la Mertens, scossa dalla domanda sulla morte dell’uomo con cui in Florida, a giugno, si scontrò in un incidente stradale: quello era stato il primo giorno di Venus ai Championships 2017. Chissà se la non colpevolezza, appena accertata, le ha dato la tranquillità per unire a un’ottima tecnica anche un’inossidabile forza mentale, ma certo il match con la Konta sfiora la perfezione. Tutto parte dal servizio esplosivo, la Williams prende subito in mano lo scambio senza concedere angoli alla rivale e quando affronta le due uniche palle break, nel nono game del primo set, le annulla con un rovescio vincente dopo una battuta robusta e con una seconda palla più veloce della prima appena sbagliata (170 all’ora contro 165). La britannica nata a Sydney, alla fine non può tenere il ritmo delle bordate dell’americana e si inchina deferente: «Mi ha battuto una campionessa fenomenale, deve essere la mia ispirazione per compiere il salto definitivo verso quei livelli». Di certo non sarà delusa mamma Oracene Williams, solita e solida presenza in tribuna mentre da oltreoceano rimbalza la notizia che papà Richard abbia chiesto il divorzio dalla giovane moglie Lakeisha perché lei ha falsificato la sua firma sugli assegni per comprare la casa dove stanno e poi cacciarlo. Un altro venticello nell’uragano che è stata la vita di Venus, con la famiglia che rimane tuttavia il caposaldo imprescindibile: «Mio padre non viene più ai tornei, ma è una figura irrinunciabile, l’uomo che mi ha resa ciò che sono. E qui mi è mancata Serena, soprattutto in questi giorni. Ho cercato di mettere in campo un po’ del suo coraggio, ho provato a interpretare la partita come avrebbe fatto lei, mi sono lasciata ispirare». Se domani conquisterà per la sesta volta i prati di Church Road, le toglierà il record di più anziana vincitrice di uno Slam, che la sorella minore ha stabilito quest’anno a Melbourne. Non sarà facile per Venus (pur sopra 3-1 nei precedenti) venire a capo della ritrovata Muguruza, battuta in finale proprio da Serena due anni fa e rigenerata dall’erba londinese, tanto da frantumare con un doppio 6-1 e 22 vincenti la favola della Rybarikova. Ma la favola di Venus, 101^ partita vinta a Wimbledon, è più ricca di pathos ed è stata scritta con capitoli tecnici e psicologici che il tempo non ha scalfito: «In tanti momenti della mia vita ho giocato del buon tennis, ma adesso posso unirci l’esperienza, facendola lavorare a mio favore. Un’altra finale qui è un dono, un grandissimo dono che ho fatto a me stessa». Insieme all’eternità.

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Wimbledon, l’ultima rinascita di Venus (Daniele Azzolini, Tuttosport)

La storia del tennis non è mai banale. Ama i protagonisti tormentati, chiede forza d’animo, esorta a essere temerari, qualche volta premia la resistenza, ma non sceglie a caso. Alla fine pesca la finale giusta, anche nell’anno zero del dopo Serena. Mette da parte Magdalena Rybarikova, troppo tenera per una finale che vale più di una carriera, e fa lo stesso con Johanna Konta la nuova cocca della Britannia, una ragazza che sembra un patchwork di nazionalità e origini lontane (famiglia ungherese, nascita australiana), una sfida alla Brexit. Venus e Garbiñe hanno requisiti più solidi, sanno che cosa voglia dire giocare una finale dei Championships, e portano in campo il fascino delle sfide che hanno dato un senso agli ultimi diciotto anni di tennis: tutte contro le Williams, ancora una volta. L’indicazione che viene da Wimbledon è precisa. Si riparte da qui, per esplorare il futuro. L’invito alla Muguruza è preciso: un’altra chance dopo quella smarrita due anni fa contro Serena. Ma se dovesse vincere Venus, sarà festa ancora più grande. Lei, 37 anni, 5 titoli vinti (l’ultimo nei 2009) e 3 perduti, alla nona finale sull’erba più importante che vi sia, è una delle signore del giardino. Venus è ormai una donna, bella e pacata, riflessiva. Le danze un po’ scombiccherate degli anni in cui dominava sono state messe da parte, restano i sorrisi, gli occhi luminosi, i ringraziamenti che esprime dal campo con un gesto da ballerina. Wimbledon è stato il torneo che ha accompagnato le sue rinascite. Quante sono state, tre, forse quattro? L’ultima è la più bella. È la prima stagione che Venus gioca ormai guarita dalla Sindrome di Sjogren che attacca il sistema immunitario, e non è un caso che abbia ripreso il ruolo che le compete. Finale agli Australian Open, finale a Wimbledon. La vittoria, domani, la potrebbe portare al quinto posto. Ha combattuto a colpi di racchetta, le avversarie e anche il malessere che le impediva di giocare come sa: «Mi piace competere, è la cosa che mi ha permesso di superare i momenti peggiori». Ieri l’ha fatto senza sprechi. Johanna Konta ha retto otto game, poi Venus ha scavato il fossato che sigla la diversità fra una campionessa a tutto tondo e una che forse lo diventerà. Sono in due a ringraziare l’erba. Anche Garbiñe è devota alle divinità erbivore. Le permettono di agire d’istinto, e lei è la più istintiva fra tutte. Al punto da essere quasi incapace di organizzare un’autentica trama. Colpisce con brutalità esasperante, ma sull’erba la sua violenza diventa eccessiva per le avversarie. Magdalena Rybarikova ha firmato un torneo magnifico, ma al penultimo atto si è sentita piccola e impreparata. «Ho giocato diverse volte contro Venus, mai sull’erba però. Questa è la sua superficie, ma anche un po’ la mia», dice Muguruza. I testa a testa sono 4, tre per Venus, l’ultimo (quest’anno) per Garbiñe, ma sul rosso. Fra tradizione e novità anche le semifinali uomini di oggi. Federer e Berdych, 18 a 6, 2-1 sull’erba, 1-1 a Wimbledon, l’ultima nel 2010. Quest’anno due confronti, vinti entrambi da Federer. Querrey e Cilic sono invece alla quinta replica, e le prime quattro le ha vinte il croato.

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Venus, l’età non Konta (Gabriele Marcotti, Corriere dello Sport)

La 131esima edizione dei Championships verrà ricordata come quella dell’elisir di lunga vita. Non solo Roger Federer. Nella finale di sabato approda di prepotenza anche Venus Williams, che, schiantando la favorita dei sudditi di Sua maestà, Johanna Konta, con i suoi 37 anni (compiuti lo scorso 17 giugno) diventa la finalista più anziana dai tempi di Martina Navratilova, che giunse qui in finale nel 1994, a 37 anni e 8 mesi. L’ennesimo exploit di longevità di una campionessa infinita che all’All England Club taglia il traguardo dell’ultima partita del torneo per la nona volta, otto anni dopo quella persa contro Serena Williams, nove anni dopo il quinto trionfo a Wimbledon (2008). Numeri impressionanti come i match che Venere ha disputato sull’erba, 101, dietro solo all’inarrivabile Navratilova (134 partite) e Chris Evert (111). In poco più di un’ora, l’americana, testa di serie n.10, ha impartito una vera e propria lezione di tennis alla più giovane Konta. Un match a senso unico, ieri sul Centrale. Tra le due semifinaliste con più ace nel torneo, il servizio è risultato decisivo per spezzare l’equilibrio premiando la maggiore efficacia di Williams, subito avanti nel punteggio. Stesso copione nel secondo set, la 26enne nata a Sydney, ma di passaporto britannico, fa quel che può, salva anche due match-point, ma sul terzo è costretta ad arrendersi al passante lungo-linea di dritto di Venere. Rimandando così all’anno prossimo il sogno di eguagliare il record di Virginia Wade, ultima britannica a vincere i Championships nel 1977. Alla 20^ partecipazione, Venus centra la sedicesima finale Slam in carriera, la seconda quest’anno dopo quella (persa contro Serena) in Australia. «Qui ho giocato molte finali, eppure giocarne una in più, a questo punto della mia carriera, è come una benedizione – la gioia incontenibile di Venere davanti ai microfoni -. Il pubblico è stato molto gentile con me, nonostante ci fosse una britannica in campo. Johanna ha giocato benissimo, non mi ha regalato nulla. In avvio di match ho avvertito molto la pressione, ma mi ha aiutato l’esperienza». Sulla sua strada troverà Garbine Muguruza, che dopo aver superato in poco più di un’ora Magdalena Rybarikova, spera di diventare la seconda spagnola, dopo Conchita Martinez (1994), regina di Wimbledon. «Entrambe giochiamo benissimo sull’erba. Sarà una partita molto difficile. Chiederò a Serena come fare per batterla. Vorrei che fosse qui, magari a giocare la finale al posto mio. Cercherò comunque di difendere al meglio il nome Williams». Per Muguruza si tratta della terza finale Slam, tutte giocate con una Williams dall’altra parte della rete. «Ho giocato davvero bene. In questo Wimbledon mi sto ritrovando, adesso mi aspetta una finale difficile, ma sento di essere pronta», le parole della spagnola.

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Semifinali maschili, l’erba non è per giovani (Paolo Bertolucci, La Gazzetta dello Sport)

Le semifinali maschili dell’edizione numero 131 di Wimbledon segnano un’inversione di tendenza: il servizio è tornato a essere il colpo più decisivo, tenendo per questa volta i grandi ribattitori, e cioè Djokovic e Murray, peraltro in condizioni fisiche rivedibili, lontani dalla ribalta che assegnerà il titolo. Oggi scendono in campo almeno tre giocatori con caratteristiche fisiche e tecniche molto simili. Sto parlando di Cilic, Berdych e Querrey, tennisti ben al di sopra del metro e novanta che costruiscono la loro piattaforma di gioco partendo da una grande prima di servizio. E anche Federer, che per completezza e talento sta ovviamente su un altro pianeta, fin dal ritorno straordinario in Australia ha legato all’alta percentuale di realizzazione della battuta le sue enormi fortune stagionali. Roger a parte, non si tratta di attaccanti veri e propri, quanto piuttosto di giocatori che all’uscita dal servizio cercano subito di pressare l’avversario da fondo, aiutati in questa tattica anche da campi veloci. E che l’erba sia una superficie difficile da domare, lo dimostra l’età media dei semifinalisti: 31 anni e 213 giorni, la più alta dell’Era Open. I prati, insomma, non sembrano fatti per la gioventù.