Accadde oggi: nasce Arthur Ashe. Non è mai stato un tennista

Ci sono atleti che travalicano il confine dello sport per finire direttamente nelle didascalie che spiegano le foto di un secolo. Dick Fosbury un giorno si svegliò e decise che il salto in alto doveva essere fatto in un altro modo, e da quel giorno il salto in alto è diventato un altro sport. “Effetto Fosbury”, “rivoluzione Fosbury” è quello che ancora leggiamo, persino traslato in altri ambiti come espressione significante l’anno zero di una qualche disciplina sportiva. Peter Norman era un velocista australiano che un giorno, nel 1986 a Città del Messico, si insediò tra due saette afroamericane nella gara olimpica dei 200 metri. Norman veniva da un paese in cui la legislazione era marcatamente a favore dell’apartheid, Carlos e Smith scelsero proprio quella premiazione per manifestare contro le oscenità razziali. Scalzi, pugno alto, e sul petto lo stemma del Progetto olimpico dei diritti umani. In pochi sanno che l’australiano, per la decisione di unirsi silenziosamente alla loro protesta, non avrebbe praticamente più potuto essere uno sportivo. Dopo essere stato osteggiato in ogni modo dalla federazione australiana moriva nel 2006, quasi dimenticato. Non da Carlos e Smith, che erano lì a reggere la sua bara il giorno del funerale. In uno dei momenti più intensi che l’antologia sportiva possa ricordare.

Arthur Smith rientra in questa cerchia di atleti. Come Muhammad Alì non poteva essere soltanto un pugile, Arthur Ashe non è mai stato solo un tennista. Nonostante nel 1963 sia stato il primo tennista di colore a militare nella squadra statunitense di Coppa Davis, per poi diventarne il capitano nel 1981. Nonostante abbia vinto l’US Open tra i dilettanti nel 1968, primo fra tutti i tennisti di colore. Nonostante si sia ripetuto nel 1970 agli Australian Open, in Era Open ormai conclamata. Nonostante nel 1975 sia diventato il primo e finora unico “non bianco” a sollevare il trofeo di Wimbledon (nel 1996 MaliVai Washington sarebbe arrivato in finale, perdendo contro Krajicek). Nonostante questi traguardi che già lo consacrerebbero nell’olimpo del tennis, Arthur è stato in grado di sobbarcarsi il peso di diverse battaglie. Non una, diverse battaglie.

Morì di AIDS, contratto fatalmente con una trasfusione resasi necessaria come corollario di uno degli interventi cardiaci che fu costretto a subire, e per i quali abbandonò il tennis. Per il tempo che gli rimase dopo la diagnosi fece da cassa di risonanza di una malattia che stava per diventare una piaga sociale. Se oggi non lo è più, o lo è in misura marcatamente minore, lo si deve anche a quelli come lui. Simbolo della lotta contro l’apartheid e a favore dei diritti civili, nei suoi ultimi mesi di vita riuscì a trovare le forze per fondare la Arthur Ashe Institute for Urban Health (in piedi ancora oggi), per parlare alle Nazioni Unite e per lasciare, grazie al tramite di sua figlia, una testimonianza tangibile delle sue battaglie.

Lungo la strada, inciamperai, e forse cadrai; ma anche questo è normale e previsto. Àlzati, rimettiti in piedi, mortificata ma più saggia, e continua per la tua strada“. Si concludeva così la lettera con cui si congedava da una vita che gli aveva restituito soddisfazione, inciampi e dolore. Una vita che gli aveva anche consegnato l’immortalità.